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Premio Comisso 2021. Incontro con i Finalisti: Benedetta Centovalli dialoga con Marisa Bulgheroni

“La stella nera si staccò furtiva dal fondo più buio dell’universo, solcò l’attonito cielo estivo, si posò capricciosa sulla tua spalla, vi conficcò una punta come una nera radice”.
Comincia così questo diario d’amore e di perdita del proprio compagno, Stella nera (Il Saggiatore, 2020), che Marisa Bulgheroni ha scritto, anzi inciso sulle pagine con lucida consapevolezza.

Un corteggiamento dell’assenza perché torni ad essere presente sul filo della memoria chi ci ha lasciati, chi non siamo disposti a lasciare andare.
Non c’è altra via che questa per trattenere sulla soglia chi l’ha già oltrepassata, l’incantamento della memoria – Sherazade e insieme Orfeo-Euridice –, una musica grave dove i “frammenti di una vita a due”, come recita il sottotitolo, finiscono per convergere nel puzzle di una lunga storia d’amore: “io sarò instancabile nel raccontare, scaverò nelle miniere della mente fino a trovare le parole esatte, le parole incantatrici”.
Un libro raro, concentrato, intenso, una lettura dolcissima.

Premio Comisso 2021. Incontro con i Finalisti: Benedetta Centovalli dialoga con Marisa Bulgheroni

L’intervista

Benedetta Centovalli: Stella nera è un libro che si nutre anche di letture. Prima di tutto Emily Dickinson con cui c’è stata una tua lunga e appassionata frequentazione. La citi più volte nel libro, lei che era un’esperta di morte, lei che della morte aveva fatto addirittura un personaggio da corteggiare nella sua poesia. “Sarei più sola senza la mia solitudine”, scrive Dickinson, e tu rifletti intorno alla solitudine obbligata dalla scomparsa della persona con cui si è condivisa per una vita la propria vita, diversa dalla scelta della solitudine di chi scrive. Vuoi raccontare in che modo Dickinson è entrata in questo tuo libro?

Marisa Bulgheroni: Dickinson è entrata nel mio libro come i suoi versi sono entrati magicamente in me nelle sere a Amherst, quando sedevo nel suo fantomatico giardino e ascoltavo la sua voce. E’ entrata nelle mie pagine per quella solitudine che fa compagnia, così diversa dalla solitudine che si misura dall’assenza, e che– come racconto nel libro – ho sperimentato mentre scrivevo quelle pagine. Non un vuoto, ma un suono. Naturalmente, alla Dickinson chiedevo il perché della sua familiarità con la morte, di quella sua carrozza nella quale c’è posto anche per chi non sa qual è la meta, e della possibilità dei vivi di comunicare con chi non c’è più. Forse la familiarità con la morte, la possibilità di dialogare con chi ci ha lasciato, deriva dal mio complesso rapporto con Emily Dickinson, con il suo mondo, dove la morte incombe come destino ineluttabile, come antagonista da combattere, ma anche come onnipresente compagna. Al tempo stesso, i tanti lutti vissuti nella mia lunga vita, mi hanno insegnato che “Chi ama non conosce morte” e custodisce per sempre dentro di sé il ricordo di chi se è andato. Ma chi resta è assalito dalla domanda “Dove sei?”, a cui io, nel libro, ho scelto di rispondere con le parole di Emily: “Oltre la luce, ancora più in alto, e oltre l’arco degli uccelli, oltre la scia della corrente. ”

Come definiresti Stella nera? Memoir, elegia d’amore, diario di un amore, resoconto di un lutto…?

Ognuna di queste definizioni può avere una sua validità, ma quella che preferisco è “lettera d’amore”. Questo libro ha la sua genesi in un diario tenuto puntualmente dopo la morte del mio compagno, e, al diario, si sono aggiunte le lettere che a lui avevo indirizzato dopo la sua morte. Una volta individuata la struttura formale del libro, l’ho scritto rapidamente, come avrei scritto una lettera, quasi temessi che la materia mi sfuggisse, e che, nell’ansia di comunicare, la mia mano non riuscisse a seguire il flusso dei pensieri. E, in questa lettera, che altri hanno definito “elegia” e anche “lamento funebre, ” c’è comunque posto per la vita: per lo scoiattolo che si arrampica sul mio compagno seduto a leggere in un boschetto, per l’ermellino che mi è apparso, fugace, su un sentiero di montagna, un’apparizione per me carica di significati enigmatici.

Torniamo alle letture nutrienti, tu citi alcuni libri e autori che hanno affrontato il tema della perdita, a cominciare da Jean Didion, in L’anno del pensiero magico, da Joyce Carol Oates, in Storia di una vedova, e da Marguerite Yourcenar, in Care memorie. Ma ne prendi le distanze perché il tuo intento è piuttosto quello di tenere in vita chi non c’è più; non c’è un lutto da elaborare ma una sorta di incantamento della memoria che mantiene sulla soglia dell’esistenza chi ha oltrepassato quella soglia. Sono creature in bilico, sospese ma richiamate a esistere sull’orlo dell’abisso. In fondo la perdita è solo un cambiamento, e il cambiamento è lacerazione.

Didion e Oates, che qui mi interessavano più di Yourcenar, parlano di sé, della loro elaborazione del lutto più che del compagno perduto. La loro è un’autobiografia, e non una o due biografie fuse in una, mentre io, al contrario, mi sono immaginata più come voce narrante che come personaggio, perché il mio intento era di non permettere a chi non c’è più di disertare l’esistenza di chi l’ha amato. Sì, la perdita è solo un cambiamento che, a sua volta, è lacerazione. È per curare l’anima lacerata, la nostra memoria perduta in un incantesimo, che i nostri morti, da noi reinventati, resistono, in bilico sull’orlo dell’abisso e, con loro, sull’orlo di quell’abisso, vorrebbero noi, creature imprigionate nei nostri corpi terrestri.

Stella nera è un incantesimo della memoria tessuto attraverso la costruzione di una forte musicalità delle parole che trasforma questa elegia in un’avvolgente magia. Una scrittura per frammenti che corteggia la poesia. Come hai lavorato alla costruzione di questo “canto”, alla memoria della tua speciale vita coniugale?

La poesia per me è sempre stata presente sin da bambina. Ascoltavo mia mamma che mi leggeva poesie, studiavo poesie a scuola e, per tutta la vita, accanto alla narrativa, ho letto tanta poesia. Ancora oggi ripeto a memoria centinaia di versi, che mi recito nei momenti di pace o di difficoltà. Un verso è per me un’ineffabile compagnia. E forse è per questa mia spontanea prossimità alla poesia che il mio libro è nato a frammenti: i frammenti di un amore, di una vita quotidiana condivisa e di quella stessa vita mutilata e mai ricomposta dopo la lacerazione del lutto.

“Il matrimonio è, per me, anche una lingua per due soli parlanti, un’isola linguistica”, scrivi. Che cosa significa?

Ogni parlante possiede una parola o una sequenza di parole segrete che non pronuncia mai. Vivendo a lungo con un’altra persona, che possiede a sua volta il segreto di parole solo sue, alla fine lo scambio è inevitabile. Le due lingue personali lentamente si fondono in una sola, che soltanto i due parlanti sapranno comprendere. In questo senso il matrimonio è un’isola linguistica. Nel mio libro, narro dei vezzi linguistici del mio compagno, del suo multilinguismo: il dialetto istriano dell’infanzia, il milanese della giovinezza, lo spagnolo degli anni in Cile, ma, so, per certi versi, che solo io avevo la chiave per decifrare quella sua lingua unica.

Non è un libro sul lutto, ma un diario d’amore. È una scrittura della soglia. Cosa significa, per te, scrivere della soglia?

Una parte del mio libro doveva intitolarsi “Sulla soglia”. Intendevo scrivere della sottile linea di confine che separa la consapevolezza – la luce – dal buio. Chi è nel buio ricorda fulmineamente di avere attraversato soglie – passaggi cruciali – quasi senza rendersene conto. Ora so che la vita stessa è una soglia tra la nascita e la morte.

In copertina c’è una fotografia bellissima, com’è stata scelta la copertina del libro? E il titolo?

Bianca Rocca, una delle mie pronipoti, frugando nel disordine delle mie vecchie foto, trovando questa, ha subito detto: “E’ perfetta per la copertina del tuo libro”. Avrebbe voluto che le due figure apparissero appaiate, come lo erano nella foto originale e nella sua memoria di bambina, ma la grafica del Saggiatore le ha disgiunte, in un modo, forse, più aderente al testo. La copertina, così com’è, è stata particolarmente elogiata, ma Bianca non si è ancora convinta della scelta della casa editrice. Quanto al titolo, Stella nera vuole alludere al destino oscuro che ferisce una vita luminosa. E, in effetti, Stella nera raffigura il melanoma che avrebbe portato alla morte il mio compagno.

Solo la morte è eterna e non la vita, cerchiamo per questo di trattenere la vita attraverso la letteratura, l’arte in generale? Che significato ha la tua scrittura per te oggi?

Io credo che la letteratura – come l’arte – riesca a trattenere in sé, quasi a bloccare, il flusso effimero della vita. Senza la scrittura non avremmo memoria del passato, non potremmo immaginarci in esso: se io leggo Dante mi trovo immersa nel mondo della Divina Commedia, come se lo vedessi con i miei occhi, e condivido con la mente il destino dei suoi personaggi. Con Stella nera, quindi, ho inteso donare al mio compagno una vita alle soglie dell’eternità. Per me, oggi, scrivere significa rimanere viva al di là delle esperienze di morte.

“Stella nera” di Marisa Bulgheroni
Opera finalista al XL Premio letterario Giovanni Comisso
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