La loro amicizia era sorta nell’uno, in Mario, per il piacere di vedere in Giulio, più giovane di lui, le sue stesse ansie, bizzarrie, gli stessi impeti e incanti che egli aveva subito a vent’anni, e in Giulio per il piacere di attingere da Mario, esperto di vita, fantasie e iniziative che egli non pensava ancora che potessero avverarsi. Tante di queste fantasie e iniziative egli aveva appreso durante la loro amicizia libera come ad un primordiale ritorno della vita umana tra selve e mare.
A primavera Mario gli aveva fatto osservare la bellezza del primo verde apparso come uno smisurato smeraldo sulle pendici di un Monte ben battuto dal sole e poi sui prati rifiorenti gli aveva spiegato la necessità di liberarsi in questa stagione dalla casa e dalla città per lasciare al sangue di assorbire il nuovo respiro delle foglie e tramutarlo in estri d’amore. E avevano trovato donne ardenti che amavano alla sera lungo le siepi tra le lucciole vaganti. D’estate Mario gli aveva indicato la bellezza del torrente che apertasi la strada tra le montagne attraversava con ampie ghiaie la loro provincia. Vi arrivavano in bicicletta, Giulio aveva preso il furore di Mario, appena toccate le ghiaie, a spogliarsi degli inutili cenci e correre verso le limpide acque a tuffarsi, poi ognuno se ne andava col desiderio di essere ancora più solo di fronte alla vasta luce, camminando per le ghiaie alternate alle sabbie e alle acque fino a quando sul calare del giorno si ritrovavano richiamandosi con grida prolungate e selvagge. Ancora gli aveva fatto godere la bellezza del mare estivo prima dell’alba in una piccola barca a vela e si erano portati gli arnesi per la pesca. Alle prime luci balzavano sfavillanti i pesci sul fondo della barca e Mario gli aveva fatto ammirare sulle squame le stesse iridescenze dell’aurora, poi avidi traevano le provviste che consumavano fino alle briciole. Ma soprattutto gli aveva fatto comprendere la gioia di vivere in campagna in accordo collo svolgersi delle stagioni, col succedersi delle frutta e dei raccolti, e Giulio nel suo entusiasmo giovanile si univa ai contadini nei lavori impugnando l’aratro, falciando l’erba, mietendo, vendemmiando e pigiando l’uva nella tinozza fino ad ubriacarsi al calore del mosto.
Poi d’inverno se ne stavano alla sera nella stalla coi contadini ad ascoltare i girovaghi nel raccontare storie o a far ridere le ragazze. E Mario dal gusto immediato di Giulio nell’assaporare questa vita naturale e istintiva risentiva se stesso giovane simile a lui ed era come lo fosse ancora.
Così si era concretata la loro amicizia. Mario colla sua esperienza non mancava di dire sovente: «Sta’ attento, la tua giovinezza è come un fiore di pisello, dura un mattino», oppure: «L’uomo si forma attraverso le prove che la vita gli farà subire, inutile leggere libri, bisogna costruirsi nel giuoco di questa lotta. Tu come tutti i giovani dovrai subire o malattie o dolori o disinganni e bada agli uomini che sono lupi pronti ad addentarti nel tuo attimo sognante».

La prima prova venne aspra ad abbattersi su Giulio. Anche un filo d’erba sorge e si modella alla prova dei venti, a contrasto degli animali che lo vogliono distruggere. lo stesso è per l’uomo fin dalla sua giovinezza, e Giulio doveva subire la sua prova: non fu una malattia o un disinganno. ma furono gli uomini ad addentarlo. Istintivo e incosciente si invescò in un imbroglio, fu accusato, arrestato, imprigionato. Più non ebbe la sua vasta libertà lungo il torrente, tra le selve e sui campi rapidi a maturare le biade. Fu imprigionato a primavera e non aveva ancora visto le prime foglie. Mario pensava quanto doveva soffrire. ma si convinceva che la sua anima ne sarebbe uscita più forte.
Dopo qualche tempo poté avere da Giulio una lettera: «Sono molto debole, mi dànno una volta al giorno il mangiare. un pane, una zuppa, un litro d’acqua, ma ringrazio il Signore che mi dà la calma e la forza per sopportare. È una bella cura la prigione. Sento molte campane e molti uccelli, ma ci dànno poca aria: tre quarti d’ora al giorno». Mario non poté più godere della sua libertà, gli pesava come una felicità rubata. Quando si sedeva a tavola ogni boccone gli riesciva aspro, l’aria ventilata che gli veniva incontro andando in bicicletta gli dava fastidio, se saliva sui ciliegi dove al vento leggero le foglie discoprivano le frutta mature e giù la campagna dorata di frumento, socchiudeva gli occhi: il suo amico non godeva di quella luce e la sua pelle era bianca come d’inverno.
In un’altra lettera Giulio gli scrisse: «Penso alle ghiaie del torrente: il sole. Basta, è quasi passata un’altra estate e quella vita non si è ripetuta. Mi sono accorto di non aver preso sole. L’unica ragione di piangere».
Decise di ottenere il permesso per un colloquio, dovette andare al tribunale che era stato trasferito in un piccolo paese perché la città era stata mezza distrutta dalle incursioni aeree. Il paese era in una zona afosa che risentiva della pianura grassa limitata dalle paludi. Se si fermava, subito grosse mosche attaccaticce si posavano sul suo volto, nel bere un bicchiere d’acqua sentì il salmastro, la gente parlava pigra. Nell’atrio del tribunale un portiere oppresso dal caldo rispose lento alle sue richieste. Non vi era alcuno negli uffici. Attese. Vide arrivare il presidente, i giudici, gli impiegati. uno alla volta, accasciati come non avessero dormito nella notte, socchiuse le labbra come per la pena d’un peso al cuore. Poté parlare con l’incaricato. il suo tavolo era ingombro di fascicoli e un sole impastato di umido vi batteva sopra. Lo vedeva costretto da una volontà accanita a disbrigare il suo lavoro. Mario gli disse: «Non si trovano di certo bene in questo paese desolato». L’altro rispose: «E’ veramente penoso. Non c’è acqua, e adesso siamo solo al principio dell’afa». Le sue palpebre si abbassarono nello sconforto.

Ottenuto il permesso per il colloquio, Mario non mancò di augurargli che l’estate non dovesse farsi peggiore di quello che si attendeva. Uscendo si accorse di un piccolo cinematografo dove era scritto: Aperto solo la domenica. Era tutto lo svago di quel paese. Il carcere era ancora in città, vi andò il giorno dopo. Dovette attendere perché i prigionieri stavano prendendo aria. Guardò il cielo, il sole appariva e spariva tra leggere nubi. Giulio in quel momento vi doveva tenere il volto proteso per accoglierlo come un assetato verso una fonte. Tra poco l’avrebbe rivisto. Altri sostavano in attesa. La porta di ferro si aperse, si trovò davanti ad un cancello coperto da una lamiera alta fino al soffitto, fu aperto anche questo, un cane era entrato dalla strada insieme ai visitatori e annusava frenetico, fu fatto uscire con chiasso dal carceriere che teneva in mano una grande chiave. Attraversarono un cortile chiuso da un alto muro, entrarono in un edificio, nella prima stanza vi era una parete con alcune finestre con la grata che davano in un corridoio e al di là di questo si vedevano altre finestre sbarrate, alla seconda vide gli occhi frementi di Giulio. La sua pelle era bianca come d’inverno, afferrava le sbarre, gli sorrideva. Le loro prime parole non furono intese né dall’uno né dall’altro, perché i prigionieri e i visitatori si parlavano forte non arrivando a sentirsi. Giulio saltellava come uno scimmione, era allegro, vivace. Era sicuro di uscire presto, avrebbe scattato di nuovo verso la vita. Non era solo nella sua prigione, era con altri, aveva avuto fino a qualche giorno prima un compagno assai intelligente col quale poteva parlare, ma ora non si rammaricava che non ci fosse più, poteva parlare solo con sé stesso, e aveva i suoi libri di lettura, avrebbe preferito essere totalmente solo.
Mario gli disse: «Non è necessario essere in carcere per essere carcerati, vi è gente libera che è schiava». Giulio gli rispose: «Lo so». E saltellava sollevandosi alle sbarre come fossero state rami d’albero. Mario continuò: «Quando uscirai, ti troverai con l’anima più forte». Giulio rise. «Ti manca il sole — continuò Mario. — ma consolati, finora non abbiamo avuto che un sole acquoso. Quali sono i tuoi momenti più tristi?». «Al risveglio e alla sera» rispose Giulio, e Mario, accorgendosi dei suoi occhi scialbi, pensò ad un passo del codice: «Il giorno di pena è di ventiquattro ore», che egli faceva corrispondere a un verso di Petrarca : «Tutto il dì piango».
Il colloquio era finito, un carceriere chiuse sulle grate le imposte, riguardò prima che chiudessero, per un attimo ancora, lo sguardo scialbo dell’amico. Ripassò le porte di ferro con serrature enormi, fu di fuori, rasentò le alte mura che chiudevano il carcere, vigilate da sentinelle armate; Giulio era là dentro nella sua prigione dove il sole non penetrava, quel sole che riscaldava le sue mani, il suo volto. D’impeto passò dalla parte dell’ombra. Poi durante il giorno, legato sempre nel pensiero al suo amico, per un istante si fermò appoggiandosi alla ringhiera di un ponte, sentì sotto alla palma delle sue mani il ferro della spranga e le distolse subito con orrore come fossero incandescenti.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 20/08/1944
Immagine in evidenza: Foto di Kindel Media