"Prigionieri" di Giovanni Comisso

Prigionieri

La loro amicizia era sorta nell’uno, in Mario, per il piacere di vedere in Giulio, più giovane di lui, le sue stesse ansie, bizzarrie, gli stessi impeti e incanti che egli aveva subito a vent’anni, e in Giulio per il piacere di attingere da Mario, esperto di vita, fantasie e iniziative che egli non pensava ancora che potessero avverarsi. Tante di queste fantasie e iniziative egli aveva appreso durante la loro amicizia libera come ad un primordiale ritorno della vita umana tra selve e mare.

A primavera Mario gli aveva fatto osservare la bellezza del primo verde apparso come uno smisurato smeraldo sulle pendici di un Monte ben battuto dal sole e poi sui prati rifiorenti gli aveva spiegato la necessità di liberarsi in questa stagione dalla casa e dalla città per lasciare al sangue di assorbire il nuovo respiro delle foglie e tramutarlo in estri d’amore. E avevano trovato donne ardenti che amavano alla sera lungo le siepi tra le lucciole vaganti. D’estate Mario gli aveva indicato la bellezza del torrente che apertasi la strada tra le montagne attraversava con ampie ghiaie la loro provincia. Vi arrivavano in bicicletta, Giulio aveva preso il furore di Mario, appena toccate le ghiaie, a spogliarsi degli inutili cenci e correre verso le limpide acque a tuffarsi, poi ognuno se ne andava col desiderio di essere ancora più solo di fronte alla vasta luce, camminando per le ghiaie alternate alle sabbie e alle acque fino a quando sul calare del giorno si ritrovavano richiamandosi con grida prolungate e selvagge. Ancora gli aveva fatto godere la bellezza del mare estivo prima dell’alba in una piccola barca a vela e si erano portati gli arnesi per la pesca. Alle prime luci balzavano sfavillanti i pesci sul fondo della barca e Mario gli aveva fatto ammirare sulle squame le stesse iridescenze dell’aurora, poi avidi traevano le provviste che consumavano fino alle briciole. Ma soprattutto gli aveva fatto comprendere la gioia di vivere in campagna in accordo collo svolgersi delle stagioni, col succedersi delle frutta e dei raccolti, e Giulio nel suo entusiasmo giovanile si univa ai contadini nei lavori impugnando l’aratro, falciando l’erba, mietendo, vendemmiando e pigiando l’uva nella tinozza fino ad ubriacarsi al calore del mosto.
Poi d’inverno se ne stavano alla sera nella stalla coi contadini ad ascoltare i girovaghi nel rac­contare storie o a far ridere le ragazze. E Mario dal gusto immediato di Giulio nell’assaporare questa vita naturale e istintiva risentiva se stesso gio­vane simile a lui ed era come lo fosse ancora.

Così si era con­cretata la loro amicizia. Mario colla sua esperienza non man­cava di dire sovente: «Sta’ at­tento, la tua giovinezza è come un fiore di pisello, dura un mattino», oppure: «L’uomo si forma attraverso le prove che la vita gli farà subire, inutile leggere libri, bisogna costruirsi nel giuoco di questa lotta. Tu come tutti i giovani dovrai su­bire o malattie o dolori o di­singanni e bada agli uomini che sono lupi pronti ad addentarti nel tuo attimo sognante».

Foto di Donald Tong

La prima prova venne aspra ad ab­battersi su Giulio. Anche un filo d’erba sorge e si modella alla prova dei venti, a contrasto degli animali che lo vogliono di­struggere. lo stesso è per l’uomo fin dalla sua giovinezza, e Giu­lio doveva subire la sua prova: non fu una malattia o un disinganno. ma furono gli uomini ad addentarlo. Istintivo e incoscien­te si invescò in un imbroglio, fu accusato, arrestato, imprigiona­to. Più non ebbe la sua vasta libertà lungo il torrente, tra le selve e sui campi rapidi a matu­rare le biade. Fu imprigionato a primavera e non aveva ancora visto le prime foglie. Mario pensava quanto doveva soffri­re. ma si convinceva che la sua anima ne sarebbe uscita più forte.
Dopo qualche tempo poté avere da Giulio una lettera: «Sono molto debole, mi dànno una volta al giorno il man­giare. un pane, una zuppa, un litro d’acqua, ma ringrazio il Si­gnore che mi dà la calma e la forza per sopportare. È una bella cura la prigione. Sento molte campane e molti uccelli, ma ci dànno poca aria: tre quarti d’ora al giorno». Mario non poté più godere della sua libertà, gli pesava come una fe­licità rubata. Quando si sedeva a tavola ogni boccone gli riesciva aspro, l’aria ventilata che gli veniva incontro andando in bicicletta gli dava fastidio, se sa­liva sui ciliegi dove al vento leggero le foglie discoprivano le frutta mature e giù la campagna dorata di frumento, socchiudeva gli occhi: il suo amico non go­deva di quella luce e la sua pelle era bianca come d’inverno.
In un’altra lettera Giulio gli scris­se: «Penso alle ghiaie del tor­rente: il sole. Basta, è quasi pas­sata un’altra estate e quella vita non si è ripetuta. Mi sono ac­corto di non aver preso sole. L’unica ragione di piangere».
Decise di ottenere il permesso per un colloquio, dovette an­dare al tribunale che era stato trasferito in un piccolo paese perché la città era stata mezza distrutta dalle incursioni aeree. Il paese era in una zona afosa che risentiva della pianura gras­sa limitata dalle paludi. Se si fermava, subito grosse mosche attaccaticce si posavano sul suo volto, nel bere un bicchiere d’ac­qua sentì il salmastro, la gente parlava pigra. Nell’atrio del tribunale un portiere oppresso dal caldo rispose lento alle sue ri­chieste. Non vi era alcuno negli uffici. Attese. Vide arrivare il presidente, i giudici, gli impie­gati. uno alla volta, accasciati come non avessero dormito nel­la notte, socchiuse le labbra come per la pena d’un peso al cuore. Poté parlare con l’incari­cato. il suo tavolo era ingombro di fascicoli e un sole impastato di umido vi batteva sopra. Lo vedeva costretto da una volon­tà accanita a disbrigare il suo lavoro. Mario gli disse: «Non si trovano di certo bene in que­sto paese desolato». L’altro ri­spose: «E’ veramente penoso. Non c’è acqua, e adesso siamo solo al principio dell’afa». Le sue palpebre si abbassarono nel­lo sconforto.

Foto di Ron Lach

Ottenuto il per­messo per il colloquio, Mario non mancò di augurargli che l’estate non dovesse farsi peg­giore di quello che si attendeva. Uscendo si accorse di un picco­lo cinematografo dove era scrit­to: Aperto solo la domenica. Era tutto lo svago di quel pae­se. Il carcere era ancora in cit­tà, vi andò il giorno dopo. Dovette attendere perché i prigio­nieri stavano prendendo aria. Guardò il cielo, il sole appariva e spariva tra leggere nubi. Giu­lio in quel momento vi doveva tenere il volto proteso per acco­glierlo come un assetato verso una fonte. Tra poco l’avrebbe rivisto. Altri sostavano in at­tesa. La porta di ferro si aperse, si trovò davanti ad un cancello coperto da una lamiera alta fino al soffitto, fu aperto anche que­sto, un cane era entrato dalla strada insieme ai visitatori e an­nusava frenetico, fu fatto uscire con chiasso dal carceriere che teneva in mano una grande chia­ve. Attraversarono un cortile chiuso da un alto muro, entra­rono in un edificio, nella prima stanza vi era una parete con alcune finestre con la grata che davano in un corridoio e al di là di questo si vedevano altre finestre sbarrate, alla seconda vi­de gli occhi frementi di Giulio. La sua pelle era bianca come d’inverno, afferrava le sbarre, gli sorrideva. Le loro prime pa­role non furono intese né dall’uno né dall’altro, perché i pri­gionieri e i visitatori si parlavano forte non arrivando a sen­tirsi. Giulio saltellava come uno scimmione, era allegro, vivace. Era sicuro di uscire presto, avrebbe scattato di nuovo verso la vita. Non era solo nella sua prigione, era con altri, aveva avuto fino a qualche giorno prima un compagno assai intel­ligente col quale poteva parlare, ma ora non si rammaricava che non ci fosse più, poteva parlare solo con sé stesso, e aveva i suoi libri di lettura, avrebbe preferito essere totalmente solo.
Mario gli disse: «Non è neces­sario essere in carcere per es­sere carcerati, vi è gente libera che è schiava». Giulio gli ri­spose: «Lo so». E saltellava sollevandosi alle sbarre come fossero state rami d’albero. Ma­rio continuò: «Quando uscirai, ti troverai con l’anima più for­te». Giulio rise. «Ti manca il sole — continuò Mario. — ma consolati, finora non abbiamo avuto che un sole acquoso. Qua­li sono i tuoi momenti più tri­sti?». «Al risveglio e alla sera» rispose Giulio, e Mario, accor­gendosi dei suoi occhi scialbi, pensò ad un passo del codice: «Il giorno di pena è di ventiquattro ore», che egli faceva cor­rispondere a un verso di Petrar­ca : «Tutto il dì piango».

Il colloquio era finito, un carce­riere chiuse sulle grate le im­poste, riguardò prima che chiudessero, per un attimo ancora, lo sguardo scialbo dell’amico. Ri­passò le porte di ferro con ser­rature enormi, fu di fuori, ra­sentò le alte mura che chiudeva­no il carcere, vigilate da sentinelle armate; Giulio era là den­tro nella sua prigione dove il sole non penetrava, quel sole che riscaldava le sue mani, il suo volto. D’impeto passò dalla parte dell’ombra. Poi durante il giorno, legato sempre nel pen­siero al suo amico, per un istan­te si fermò appoggiandosi alla ringhiera di un ponte, sentì sot­to alla palma delle sue mani il ferro della spranga e le distolse subito con orrore come fossero incandescenti.
Giovanni Comisso

da il Corriere della Sera del 20/08/1944
Immagine in evidenza: Foto di Kindel Media

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