Quando l’abbandono deve rimanere incomprensibile. Intervista a Sara Gamberini

Può un amore essere così puro e ineffabile da non avere nemmeno bisogno di contatto e di parole? Può una madre comportarsi da figlia e può una figlia sostituirsi alla propria madre? Può il senso di vuoto causato dall’abbandono essere accettato e superato? Come si individua il confine tra sogno e realtà? Sono questi alcuni degli interrogativi a cui Sara Gamberini cerca di dare una risposta nel suo romanzo d’esordio “Maestoso è l’abbandono”. Se è vero che una risposta univoca non esiste, è altrettanto vero che non tutto può essere ricondotto alla sola ragione.

Abbandono, trauma da abbandono e paura dell’abbandono: sono declinazioni del tema portante del romanzo. Qual è la motivazione che l’ha spinta a farne il baricentro della sua narrazione?

La motivazione risiede in un piccolo abbandono che ho avuto la fortuna o la sfortuna di vivere, mi sono occupata per molto tempo di questa mancanza. In realtà ognuno di noi in vita fa esperienza di un vuoto, è un tema che coinvolge chiunque.

Mi interessava isolare il sentimento di abbandono dal suo aspetto più tragico, più doloroso, e prestare attenzione solo alla sensazione, alla condizione pura, e mi è parso di poter avvertire la regalità di questa condizione, la sua sacralità, per questo l’ho definito maestoso.

Il mio romanzo vuole essere prima di tutto una resa all’amore e al dolore. Una resa dolce, consapevole, la protagonista lentamente comprende che un vuoto è un vuoto, non va migliorato, non si può colmare, non può essere sostituito. A volte una mancanza spinge ad assecondare un senso più alto, a non investire troppo sul proprio Io, ad esempio. La protagonista, dopo aver cercato contenimento in chiunque, asseconda finalmente la spinta verso la volta celeste. E trova pace.

Nel suo romanzo la trama è percepibile solo in filigrana e a patto di non farsi avviluppare dalla continua introspezione della protagonista. Perché questa scelta?

“Maestoso è l’abbandono” è una sorta di romanzo di formazione che racconta la storia di una ragazzina, e poi di una donna, seguendo le tappe di una trama invisibile, prestando cioè attenzione a ciò che si nasconde tra le pieghe del reale. Nelle mie intenzioni la voce che racconta questa storia appartiene a un Io universale, è una voce che proviene da un tempo lontano o dal profondo, dall’alto.

I veri protagonisti del romanzo sono l’invisibile e il destino, la narrazione non poteva seguire una trama classica proprio perché l’andamento del destino, delle intuizioni, non è mai lineare, si sviluppa a cerchi, torna continuamente indietro, corre in avanti, scompare, riappare.

Ho provato ad annullare lo scorrere lineare del tempo così da favorire uno sguardo il più possibile indistinto sulle cose.

L’introspezione sposta le relazioni tra i personaggi da un piano agito a un piano “pensato”, immaginario. Non crede che possa disorientare il lettore abituato ad un tipo di conflitto diverso?

Ho preferito dare risalto all’aspetto inafferrabile delle relazioni, sono convinta che risieda soprattutto qui il nucleo di un legame. Nel mio romanzo le qualità immateriali, misteriose, di un sentimento, di una persona, di una relazione e le qualità concrete, più conosciute, più rassicuranti, vengono trattate allo stesso modo, hanno uguale dignità. Le connessioni sottili avvertite da Maria in presenza dell’uomo di cui è innamorata possiedono la stessa concretezza di una conversazione o di un abbraccio.

La protagonista Maria oscilla da uno stato d’animo all’altro, in un’altalena tra gioia, poca, e disperazione o apatia. Sembra quasi sdoppiarsi. Questo comportamento, che talvolta sfiora il cortocircuito, trova un corrispettivo linguistico anche nel doppio nome, quello all’anagrafe e quello della quotidianità?

Il cortocircuito, nelle mie intenzioni, più che concentrarsi sulle emozioni, è causato dalla natura dei pensieri che si sovrappongono, ci tormentano, vogliono creare una realtà immaginaria per permetterci di sognare sempre di essere altrove e di sorvolare la contingenza.

Lo sdoppiamento è insito nella natura umana, da una parte c’è quello che accade e dall’altra ci sono i continui pensieri sugli accadimenti che portano una persona sempre molto lontano dal presente.

I pensieri sul dolore, ad esempio, sono molto più dolorosi del dolore stesso. Io credo che in questo romanzo la gioia sia un’emozione molto presente.

Ho dato due nomi alla protagonista per rendere omaggio a Bel Gazou, la figlia di Gabrielle Sidonie Colette. Colette è stata una pessima madre, ha abbandonato la figlia alle cure di una tata, vivevano insieme in campagna, isolate, lontane dal padre e dalla madre che andava a trovarle molto raramente. Ho letto un loro carteggio, lettere struggenti in cui Bel Gazou fingeva di perdonare la madre, di non provare astio né dolore. Le lettere presenti nel mio romanzo sono ispirate a questo carteggio. La figlia di Colette si chiamava Colette Renée de Jouvenel, detta Bel-Gazou, la madre la chiamava con lo stesso soprannome ricevuto a sua volta dal padre.

Anche nella scelta del nome a volte si intravvede un cortocircuito.

Il linguaggio adottato nel romanzo è molto vicino a quello poetico: crea immagini fortemente simboliche e accosta universi sensoriali diversi. E’ funzionale al flusso di coscienza della protagonista?

Non ho usato intenzionalmente una lingua poetica, ho spesso sconfinato nel lirismo alla ricerca di parole capaci di descrivere un particolare incanto, per cimentarmi nell’impresa impossibile di colmare lo scarto tra cosa e parola e sospendere per un momento la loro incolmabilità. È difficile affrontare un discorso sul sacro o sulla magia senza incorrere in parole un po’ abusate dalla New Age, si parla spesso di energia, di vibrazioni, di connessione, ma sono termini ormai svuotati del loro significato, superficiali, un po’ buffi. Ho provato a cercarne altri e ne è uscito qualcosa di poetico.

La protagonista ha un rapporto difficile con la madre Lucia. Di tutt’altro genere, invece, quello con Madre Natura, e il bosco soprattutto, che sembra capace di accoglierla e consolarla senza mai abbandonarla.

Maria andava spesso nel bosco con il padre, la loro passione veniva presa da Lucia come un affronto perché era una donna abbandonica, richiedeva molte attenzioni e si sentiva trascurata non appena qualcuno si allontanava da lei.

Quando Maria e il padre tornavano dal bosco spesso non trovavano la madre a casa, Lucia scompariva, faceva ritorno a notte fonda, chiedeva di essere cercata. Il bosco diviene quindi l’unico luogo di pace per Maria, il luogo della sospensione e della distanza.

Senz’altro Madre Natura, a differenza di Lucia, accoglie la protagonista, ma il bosco rappresenta anche la possibilità per lei di un’identità finalmente separata dalla madre.

Sogno, magia, esoterismo: sono aspetti molto presenti nella narrazione. Quanto entrano nella vita di tutti i giorni?

Nel romanzo mi occupo di invisibile, intendendo qualcosa colto poco prima che diventi sacro, magico, divino, una sorta di incanto, una piccola estasi.

Qualcosa di cui l’uomo fa esperienza, si pensi ad alcune coincidenze, ai sogni premonitori, a quando ci innamoriamo e per un momento crediamo che l’amore sia manovrato dal destino e non dal caso. È un aspetto del reale, del quotidiano, che spesso neghiamo o che sottovalutiamo per abitudine o per pregiudizio. Elvio Fachinelli, uno psicoanalista davvero illuminato, diceva che per impossibilità di credere a ciò a cui crede il mistico si è finito spesso per non credere all’esistenza del mistico.

L’aspetto divino, mistico, appartiene all’uomo, è ineliminabile, Fachinelli parlava proprio di una rinuncia dell’uomo alla spiritualità, quasi una negazione, per acquisire una falsa conoscenza.

Psicologia, psicoterapia e psicoanalisi c’entrano con la vita e la formazione della protagonista. A un certo punto, però, decide di interrompere il percorso di psicoanalisi con il dottor Lisi. E’ questione di resa o naturale conclusione?

Ho voluto mettere a confronto due modi diversi di intendere il reale, da un lato il dottor Lisi che nutre una fede cieca nell’indagine delle cause, crede che l’indagine delle cause sia salvifica e dall’altro Maria che crede invece che gli accadimenti siano governati in larga parte dal destino. La psicoanalisi nel romanzo è soprattutto un simbolo dell’aspetto razionale del reale, l’indagine delle cause in certa psicoanalisi è quasi poliziesca, a volte vuole spiegare ciò che è inspiegabile e che deve rimanere incomprensibile. L’insensatezza e l’imprevedibilità del mondo a volte ci sopraffanno e cerchiamo un numero sufficiente di teorie che possano afferrare un senso, ma non sempre il senso di un accadimento è la parte più interessante di quell’accadimento. Maria non riesce a separarsi dal dottor Lisi ma non può credere a niente di quello che lui le dice. Non capisce però se si possa essere in disaccordo con un salvatore e tenerlo lo stesso. Alla fine di una seduta finalmente si chiede: Ma capire sarà davvero la forma più alta di conoscenza? E abbandona l’analisi, la interrompe prima che sia conclusa.

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