Recensioni a “E venni al mondo” di Barbara Buoso

“E venni al mondo” di Barbara Buoso

Recensioni

Sono stata in Polesine la prima volta nell’estate del ‘98: a Rovigo ho preso un localissimo che indolentemente, fermando di stazioncina in stazioncina, mi ha portata fino a Loreo.
Il primo impatto è stato con ciò che non stava al di là dal finestrino: le montagne. Ne ho ricavato il disagio che sempre mi danno i paesaggi dove l’orizzonte non fa muro ma – liscio e piano – costringe gli occhi a guardare fino al non più visibile. Fino a sfiancarsi.
Giù dal treno, il caldo. Che in Polesine zavorra il petto, per via dell’umido che sale dal Po: da quel fiume immoto, nebbioso fino al parossismo d’inverno, che d’estate richiama le zanzare – tante, ovunque, e rabbiose.
Nei pressi di Loreo, l’odore stomachevole della massa cotta: erano gli anni in cui lo zuccherificio Eridania ancora pompava. Adesso è un rudere sull’argine (spazio indeciso, detto con clemenza).
Come si fa a vivere qui, ho pensato.
Ieri sera ho letto tutto di un fiato il bellissimo romanzo di Barbara Buoso: “E venni al mondo” (Apogeo Editore). Non poteva che essere ambientato lì, mi sono detta.
“E venni al mondo” non è tanto la storia di chi fugge da un posto – Polesine o altro che sia. È la storia di chi fugge – anzi, si libera – dal se stesso-guscio che poi è il se stesso-gabbia, la crisalide eterna: le aspettative delle famiglie, le chiacchiere, una certa weltanschauung da cui sembra impossibile prescindere. Per diventare, come Marzia e Medusa (ma specialmente Medusa: donna in un corpo di uomo), non ciò che si deve ma ciò che, nell’accettare di essere viventi oltre che vivi, con indecenza si desidera.
Valentina Durante

 

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