Recensioni a “I famelici” di Davide D’Urso

“I famelici” di Davide D’Urso

I Famelici è la storia dello scontro-incontro generazionale di un padre e di un figlio, che attraversa il microcosmo familiare per immettersi nell’oceano epocale e territoriale. Lucido, critico, provocatorio, scava nella verità più intima e della vita, dei rapporti familiari, del territorio e delle trasformazioni sociali. Analizza l’amara incertezza di un’epoca figlia del “sogno italiano” dei Famelici, un sogno provinciale di una generazione che ha azzannato la vita non senza conseguenze micro e macro, una generazione che fa del vitalismo estremo il suo credo, celebrando la gioia di vivere del “fare”. Con uno sguardo che ricorda l’osservazione partecipante antropologica, Davide D’urso rompe gli schemi del romanzo senza rinnegarli e attraverso il mosaico di capoversi offre una prima chiave interpretativa della nevrosi collettiva della piccola borghesia, che culmina in un epilogo buffo e amaro. L’analisi è spietata ma punteggiata da un’umanità viva, che emerge timidamente nelle situazioni più drammatiche. Senza mai cedere al sentimentalismo, la speranza sonnecchia tra le pagine che trasudano di dolore e inquietudine.Un romanzo che rapisce e accoglie, fa riflettere sul tragico benessere contemporaneo che non coincide con la felicità e sul concetto di responsabilità dei padri che non si identifica necessariamente con quello di colpa.

Luca D’Inverno

Un libro che compie un percorso narrativo innovativo e direi addirittura necessario.Attraverso il confronto tra due generazioni, Davide D’Urso affronta finalmente con uno sguardo lucido, assente da pregiudizi e con un’adeguata maturazione di pensiero, un’affascinante disamina di tali generazioni: quella più “antica”, cui, finalmente, si attribuiscono – nonostante tutti i difetti e, se si vuole, le cialtronerie – coraggio e forza d’animo; quella più “giovane” che, nonostante tutte le opportune “cause di giustificazione”, risulta essere sempre più “ingiustificatamente” disincantata, affetta da un pessimismo in parte comodo in parte fondato proprio sui sensi di colpa della generazione precedente (che, viceversa, si è data – a proprio modo – molto da fare per migliorare la propria condizione). Un libro scritto con grande gusto narrativo e trovate stilistiche di grande livello; con invenzioni sapienti e uno stile quasi da romanzo di formazione in parallelo, belle citazioni e soprattutto, un grande senso dell’autocritica. Che ai nostri giorni, è merce davvero molto rara. Bravo Davide e complimenti a Bompiani che ha creduto in quest’opera.

Dario de Cicco

Se il compito della Politica negli ultimi vent’anni è fortemente (e giustamente) concentrato sulla questione climatica e del debito pubblico, ciò nasce in modo molto evidente da una stagione di sprechi, di vissuto oltre i limiti, di ricerca sfrenata di un benessere “mai visto” (che alcuni storici dicono mai più si vivrà in modo così esteso)Alla politica quindi l’onere di lavorare per mitigare gli effetti di tali squilibri, alla letteratura (ne “I famelici” di Davide D’Urso) il ruolo di indagare sulle cause più profonde per cui un tale disequilibrio è esploso nel corso del secondo boom economico italiano attorno agli anni ’80.Tale analisi non è portata avanti in modo asettico o scientifico bensì intimo, personale perché i protagonisti della suddetta stagione sono i genitori della nostra voce narrante, un trenta/quarantenne che vive la precarietà dei nostri tempi e si affaccia con difficoltà ad essere parte della nuova classe dirigente. Il Gap delle generazioni non è incolmabile, ben presto dal pieno ascolto delle ragioni (ma soprattutto della Vita) dell’altro nasce un riconoscersi, un’indulgenza vera e un nuovo modo di leggere il rapporto col paterno. È questo il libro di D’Urso, non il racconto generazionale bensì un affresco italiano da leggere e far leggere alle nuove generazioni per offrire nuove chiavi di lettura del presente e sanare le ferite (provocate ma allo stesso tempo subíte) dalla “famelica” generazione che ci ha preceduto.ApprovaRifiuta

Mariano Miranda

Due generazioni a confronto, due modi di essere e di sentire profondamente diversi. Da una parte il “padre”, rappresentante dei “famelici”, tipico esempio di un uomo che è vissuto durante il boom economico degli anni settanta, che è partito dal nulla e che con caparbietà e voracità si è costruito una vita, ponendosi un obiettivo dopo l’altro, a suon di sacrifici e rischi corsi, sempre focalizzato sull”importanza del possedere (auto, case, oggetti) e dell’apparire. Dall’altra parte un “figlio”, laureato, ma senza prospettive. Un idealista intellettuale e poco concreto, immerso nell’apatia e nella mancanza di coraggio che attanaglia la generazione dei duemila, quella generazione che vive nel precariato lavorativo ed emotivo, nel panico che atterrisce, che sfoga le ansie nei discorsi e mai nell’agire, nella pigrizia di scaricare tutte le colpe sull’alibi della società malata. Insomma, un moderno Amleto che riflette sulla famelicitá di suo padre e della sua generazione e così facendo ne scopre forse la vera essenza: se è vero che i famelici hanno a lungo rappresentato il cliché dei traffichini, dei furbetti del sistema, è altrettanto vero che l’entusiasmo e la voglia di fare scorre nelle loro vene.I famelici hanno voglia di mordere la vita, di assaggiare il mondo, di buttarsi a capofitto nella corrente, mentre noi uomini di oggi pretendiamo un mondo che si regali a noi spontaneamente, tutto e subito, e, beninteso, senza troppi ostacoli.La letteratura di D’Urso svela questa dura verità e la rivela con onestà al lettore e, solo dopo averci tolto il velo di Maya dagli occhi, la sua scrittura è in grado di consolarci, di coccolare le nostre umane fragilità.

Roberta di Maggio

Si legge tutto d’un fiato e quando arrivi alla fine, hai la sensazione che i personaggi, le vicende, i luoghi di quella storia ti appartengano. Tutto il racconto, che sembrerebbe autobiografico, in effetti si intreccia e ci racconta la storia dell’Italia, a partire dagli anni settanta. I due protagonisti principali, padre e figlio, nell’arco di quarant’anni affrontano sacrifici, successi, delusioni, rancori, rivalse, sentimenti privati che l’autore ci fa vivere, abilmente, come universali. La figura del padre emerge subito, nei primi capitoli, con una forza descrittiva e narrante che lo accompagnerà fino alla fine. Sono gli anni ’60, al sud non c’è lavoro, molti emigrano e anche il Padre non perde tempo, e si trasferisce al nord, in un paese vicino Como. Il lavoro gli dà la possibilità di avere una casa e una vita dignitosa per la moglie e il figlio. Ma la nostalgia per il paese natio è forte, l’ambiente ostile verso i meridionali, le condizioni di un lavoro faticoso e senza diritti, gli fanno sognare il ritorno nella sua terra. Ha saputo dai familiari che le cose stanno cambiando e c’è la possibilità di potersi inserire nel mondo del lavoro. Anni ’80 la famiglia si è trasferita al sud e il padre con grande tenacia e l’aiuto dei familiari, ha intrapreso una nuova attività, che nel giro di poco tempo, gli darà tranquillità e benessere. iIl figlio intanto è cresciuto, ha studiato, è uscito dall’ambito domestico e ha voglia di realizzarsi seguendo i suoi interessi e le sue amicizie. È lo scontro col padre che, invece, lo vorrebbe laureato e pronto a collaborare con lui , nel suo ambiente. Sono le due generazioni: quella degli anni “60 che ha inseguito ed ottenuto il riscatto sociale e quella degli anni ’80-’90 che delusa dalla società consumistica è alla ricerca di un posto di lavoro, e soprattutto di nuovi valori. L’autore alla fine si chiede chi sono i veri Famelici: chi ha passato tutta la vita lavorando per poi consumare tutto quello che lo fa apparire o chi combatte il consumismo, lotta per un lavoro precario e si nutre delle speranze di un mondo migliore. Forse siamo tutti famelici. È proprio questa riflessione che rende possibile la riconciliazione tra padre e figlio e forse tra le generazioni.

Pina Lama

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