Marca gioiosa: crescere all’ombra dei potenti senza perdere se stessi

Se si leggesse il titolo del nuovo libro di Roberto Plevano, Marca gioiosa, digiuni della trama, si potrebbe essere indotti a credere che, fin da principio, il romanzo tesserà le lodi della Marca come una sorta di terra promessa, allietata da feste, battute di caccia e serenate nelle pubbliche piazze. Ironia delicata, quella dell’autore, che con il titolo prova forse a giocare sulle aspettative nettamente cortesi di chi si appresta a leggere il libro.

Siamo a Besièrs in Occitania, nel sud della Francia. È il 1209 e «un dio folle e criminale» ha permesso che la dolce terra dei poeti venisse messa a ferro e fuoco dai crociati, che fosse fatta strage d’innocenti. Fin dalle prime pagine, possiamo osservare come il romanzo di Plevano,vincitore del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2015, scavi, esplori e rigurgiti un tipo di sofferenza difficile da descrivere se non si è provata sulla propria pelle.

Ben presto chi legge converrà con il protagonista del romanzo, Amalrico, che nella vita vi sono dei giorni, dei mesi, degli anni in cui ci si può solo nascondere e vivere è impossibile.Si capirà, addentrandosi nella storia, la necessità di mantenere le distanze se si ha cara la vita; si comprenderà per quale motivo «cinque passi», non uno di meno, sono il minimo «spazio tra la vita e la morte».

Nell’accompagnare Amalrico lungo il viaggio che lo porterà dalle terre d’Occitania agli antichi territori della Marca sarà bene tenere a mente le parole del profeta Isaia, citate in epigrafe dall’autore:

Gli empi sono come un mare agitato che non può quietare […] Non c’è pace per gli empi, dice il Signore.

Schopenhauer scrisse che la ricchezza è come acqua di mare: quanto più se ne beve tanto più aumenta la sete. Ecelinello, alias Ezzelino III – il feroce tiranno della Marca, cultore della guerra sin dalla più giovane età – sarà soltanto uno dei mille assetati di potere, uno di quei tanti empi senza pace che s’incontreranno nella lettura.

 

Sarebbe consolante pensare che in fondo il romanzo di Plevano tratti solo del Medioevo, alle nostre spalle ormai da diversi secoli; ma oscurantismo e barbarie fanno veramente parte di un passato che non c’è più?

Siamo solo all’inizio del romanzo – c’è molto altro in realtà, scorrendo le pagine – ma a leggere di guerre di religione, persecuzioni e carri straripanti di corpi di bambini destinati a essere gettati nelle fosse comuni, la mente torna, purtroppo, a pagine di storia ben più recente. E non ancora superate.

Prof. Plevano, nelle prime pagine del romanzo il protagonista Amalrico, osservando dei monaci, realizza che essi sono «mastini di Dio»nella duplice accezione di servitori / carcerieri all’occorrenza in grado di sottometterLo:

«Ecco i guardiani di Dio. Ecco i custodi di Dio» dicevano gli scolari a Tolosa, additando le tonache nei pressi della chiesa cattedrale […] In mezzo al campo dei crocesignati compresi pienamente quelle parole di scherno […] Non era quello un genitivo di possesso come si poteva intendere. Le tonache montano la guardia sulle infinite vie attraverso le quali Dio parla alle sue creature. […] Lo spirito soffia, i monaci, assidui, serrano le porte.

«I mastini di Dio!» Quale uomo, quale donna, può avere fede in un dio che si serve di cani feroci? O che da essi è braccato?

Quando ha cominciato a scrivere Marca gioiosa a prevalere era più l’idea di dipingere un Dio feroce e incurante o un Creatore imperfetto, cui qualche dettaglio delle sue creature poteva essere sfuggito di mano?

È opportuno ricordare che Marca gioiosa non è un lavoro di riflessioni storiografiche o teologiche, ma è un romanzo, un lavoro di finzione che ha lo scopo di far trascorrere un po’ di tempo al lettore, divertendolo e invitandolo magari a qualche riflessione su se stesso, sul mondo in cui hanno vissuto i suoi avi e su quello presente.

Nel romanzo si narra la vita di un giovane di umili origini che grazie alle sue capacità è avviato all’istruzione. Nel medioevo, la lettura biblica e la teologia erano imprescindibili nella formazione degli uomini di lettere. Ecco allora che davanti all’inconcepibile catastrofe, improvvisa e irrimediabile, davanti alla fine del suo mondo e dei suoi affetti, un ragazzo di quel tempo pensasse allo sconvolgimento dell’ordine della creazione e della provvidenza divina, e si disperasse che «vivere non si può».

Nel XIII secolo il panorama religioso dell’Europa era assai vario: è il periodo in cui si diffondono alcune forme di cristianesimo non ortodosso (Roma le condannò tutte come “eresie”), nelle città vivevano comunità ebraiche, il confronto con il mondo islamico avveniva con le armi, ma anche con i commerci e le discussioni. In questo contesto, ai perpetui e tormentosi interrogativi sulla bontà e giustizia di Dio si diedero risposte che riflettevano concezioni molto diverse (ammettendo che esistano risposte).

Se Dio è l’unico creatore e conservatore di tutte le cose, da dove viene il male? Se Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, perché l’uomo cerca sempre qualcuno da odiare? I catari, che si definivano “buoni cristiani” ed erano diffusi allora in Provenza, Occitania e Nord Italia, distinguevano tra il “Dio delle vendette” dell’antico testamento e il “Dio padre e buono” dei vangeli che manda il figlio per la salvezza degli eletti. Il protagonista del romanzo non è cataro, ma viene in contatto con loro e assorbe qualcosa della loro drammatica religione. Queste domande tuttavia rimarranno inevase: se ci è stata offerta la salvezza, come si spiega lo stato del mondo?

Uno degli aspetti che più mi piace del suo romanzo è la riconoscenza, l’amore del protagonista verso i propri maestri di vita. Il personaggio principale, che insieme agli affetti ha perduto il proprio nome, adotta quello del suo insegnante Amalrico, in cui si può riconoscere la figura storica del teologo Amalrico di Bène. Ognuno dei maestri di Amalrico – vi sono infatti anche il medico Mesulla, il mercante Bembenisti – avvera il significato del verbo “insegnare” lasciando a suo modo un’impronta indelebile nella vita del protagonista, a lungo sentitosi «come un piolo quadrato in un buco tondo». I maestri accompagnano Amalrico per un tratto di strada, poi si fermano e lo lasciano andare, compiendo così – come direbbe Massimo Recalcati – il loro gesto più alto. Qual è la lezione più importante che Amalrico apprende da ognuno di loro?

Nel romanzo, il magister artium Amalrico, che tiene scuola a Tolosa, è il primo maestro del protagonista, presentato nelle prime pagine come uno studente precocissimo. Il nome è preso effettivamente da Amalrico di Bène, filosofo e teologo attivo a Parigi nella primissima parte del Duecento: le cronache dicono che fu condannato ripetutamente, insieme ai sostenitori delle sue posizioni, gli “Amalriciani”. Dopo la morte, i suoi libri e i discepoli finirono tra le fiamme, il suo corpo riesumato e gettato in terra sconsacrata.

Al giovane è affidato il libro del maestro, che diventa il possesso più prezioso, l’unica cosa che rimane dopo la distruzione della sua famiglia e della sua città. Da lì inizia un cammino che è doloroso come una seconda nascita. Il libro, le lezioni ricordate del maestro, diventano la cura dell’anima, e i primi mezzi della sua sopravvivenza. E poi, l’incontro con altri due figure di padri “surrogati”, un medico e un mercante, entrambi ebrei. L’idea che ho voluto illustrare è che gli incontri più preziosi, quelli che segnano la vita, sono imprevedibili ma concatenati, nel senso che nella società degli esseri umani troviamo anche delle affinità “virtuose” che producono effetti imprevedibili e duraturi. Ecco allora che un maestro secolare di Tolosa è conosciuto e ammirato da un medico ebreo di Montpellier, che somministra la cura del corpo al protagonista, un gentile estraneo alla sua gente, e lo affida poi a un uomo molto diverso da lui, un mercante. Queste tre figure insegnano, donano al protagonista la cosa più preziosa: un buon modo di stare al mondo, a cominciare dall’educazione.

Dice Stefan Zweig: “che cos’è la cultura, se non un trarre con le lusinghe dalla rozza materia della vita, attraverso l’arte e l’amore, ciò che essa ha da offrirci di più bello, di più tenero, di più raffinato?”. Io aggiungerei che senza la bellezza, che sia compresa e sentita pienamente o soltanto confusamente avvertita, l’uomo muore.

Il maestro di Arti di Tolosa e il medico di Montpellier ricordano evidentemente il programma di studi delle Università medievali, in cui al quadriennio di Arti (logica, scienza, metafisica) seguivano sei anni di Medicina. Il mercante è una figura che incarna la vita attiva: è lui che conduce il giovane nella Marca, la sua destinazione finale, e lo consegna alla vita di corte.

Mi pare particolarmente ben riuscito il personaggio di Uc de San Sir,il cui nome sembra rievocare quello di Uc de Saint-Circ, celebrato dalla Storia come uno dei più importanti poeti trovatori stabilitisi nelle nostre zone.
L’Uc del romanzo è un personaggio arguto, spiritoso, che sa il fatto suo. Opportunista quel tanto che basta per restare a galla, getta scompiglio – talvolta anche suo malgrado – ma nel complesso piace la sua lealtà al protagonista e il suo essere capace di gesti di folle coraggio. C’è qualche figura letteraria o storica cui si è ispirato per delineare il carattere di questo personaggio così spassoso?

Uc de San Sir è un’invenzione di Marca gioiosa. Alcuni suoi versi riportati nel romanzo sono effettivamente tratti dalle poesie di Uc de Saint-Circ, che visse alla corte di Alberico da Romano a Treviso e probabilmente ideò e anche redasse il famoso Liber Alberici, un’antologia di liriche trobadoriche conservata nell’importantissimo Canzoniere Provenzale Estense [codice D: Modena, Biblioteca Nazionale Estense, Estero 45. In precedenza: αR4.4].

Tuttavia, il personaggio del romanzo è un giocoso frequentatore di piazze, taverne e bordelli, un giullare che vive fino in fondo la vita “estetica” dei piaceri della gola e della carne e ne fa materia d’ispirazione poetica. Il personaggio non è privo di una certa sua dirittura morale, ma affiorano anche tratti sinistri e cupamente vendicativi del suo carattere. Con lui, ho voluto personificare il clima che traspare dalla poesia trobadorica: sono perlopiù temi di amore e guerra, assai lontani dalle elevazioni, anche intellettuali, dello Stil Nuovo.

Credo, pensandoci a posteriori, che con il mio Uc sia inconsciamente affiorata anche tutta una serie di personaggi “eccessivi” e atteggiamenti che un lettore può incontrare: certi furfanti di talento come ser Ciappelletto, il Benvenuto Cellini nella sua Vita “travagliata”, alcune arguzie dell’Aretino delle commedie e dei Ragionamenti, giù fino a eroi e antieroi come Long John Silver, Dmitrij Karamazov, Huckleberry Finn…. Non escludo il sedimento di letture infantili di Salgari.

Pagine molto belle sono quelle dedicate all’incontro di Amalrico con la cavallina zoppa e «il macellaro pirroniano». Dietro ogni parola che descrive la vicenda del povero animale e del suo benefattore avverto l’urgenza di voler dire molto di più, di superare i limiti della pagina scritta per raccontare qualcosa d’altro che ha a che vedere con la presunta universalità di certi valori umani. Un’analoga impressione l’ho avuta quando, in maniera visivamente molto efficace, ha descritto i modi pietosi di una vecchia contadina nell’atto di ripulire una povera donna ferita e umiliata. Vuole dirci qualcosa di più a proposito?

 La cosa più nobile è prendersi cura del debole, chiunque esso sia. È un gesto, non un concetto o un’idea. Non si ha bisogno di parole, di spiegare. È quello che si risolve a fare il protagonista nella sua vita, dedicandosi a insegnare e curare, al di fuori dei canali ufficiali della professione di quel tempo.

Amalrico è un intellettuale: al di là dei fallimenti, delle cose che non potrà mai mandare giù, ha capito che la sua vera vocazione è cercare di condurre una buona vita. Il mondo che ha davanti, le istituzioni, il potere, le opinioni dei più, sono un ostacolo continuo che lui si arrangia a superare o ad aggirare come meglio può, senza illusioni, guidato soltanto dal suo istinto di uomo di cultura.

La tradizione occidentale, almeno fino a Kant, è quella di un’etica intellettualistica: cerchiamo le ragioni valide per fare il bene. Il mio protagonista ha rotto il nodo tra pensiero e agire, perché è stato quel nodo a condurlo alla sua sconfitta personale più grande, quella che lui stesso si è fabbricato con le sue mani. Sa che a lui non è riservato quello che la maggior parte di noi spera di ottenere: una qualche stabilità di affetti, un qualche riconoscimento del nostro lavoro, una piccola nicchia riparata nel gran caos del mondo. Anche rispetto ai suoi potenti protettori, è in disparte nel grandioso progetto di conquista di Ezzelino da Romano, che è il fatto storico più rilevante nel Veneto del Duecento.

Amalrico rimane un dubbioso, un disincantato spettatore di una scena in cui tutti si affannano a rincorrere ombre: potere, denaro, fama. E quindi insegna e guarisce senza attendersi nulla, a partire dai suoi beneficiati, che spesso non sanno di essere tali.

Il medico Mesulla esprime un parere molto schietto nei confronti del popolo della Marca:

Nella Marca dell’Impero vive gente schiva e diffidente, magari selvatica e ignorante, attaccata alle case e alle zolle come a nient’altro al mondo, certamente, ma pensa: là sempre ho visto dividere il pane e la polenta di avene e spelta con i forestieri – appena che diventano un poco meno forestieri, e per ammansire la selvatichezza basta magari un saluto, un inchino, una buona parola.

Da vicentino, veneto, quanta verità avverte nelle parole di Mesulla se rapportate a oggi?

Generalizzando, i Veneti sono cambiati nei secoli come tutti gli altri popoli. Però bisogna precisare una cosa importante. La parola “Veneto” oggi indica una regione che ha Venezia come capoluogo. Ma fino al ‘400 questa parola era soltanto un aggettivo, e significava “pertinente alla città e alle cose di Venezia”. I territori della terraferma (province di Padova, Treviso, Belluno, Vicenza, Verona, giù fino al Po e a oriente il Friuli) erano la Marca, un’altra società, un’altra economia, poteri del tutto distinti da Venezia, che con le città dell’entroterra aveva rapporti non diversi o più intensi di quelli con Ferrara, Bologna, Zara, eccetera.

Oggi “gioiosa Marca” è la denominazione della provincia di Treviso. Il titolo del mio romanzo è evidentemente ironico, dal momento che la storia di quel periodo ci consegna un panorama di conflitti spaventosi: civili, politici e religiosi, che però riguardano solo marginalmente Venezia.

Prima del ‘400, coloro che abitavano il Veneto di terra mostravano caratteri diversi rispetto ai Veneziani. Nelle città si era fieramente di parte, mentre a Venezia le contese tra Guelfi e Ghibellini arrivavano come un’eco distante. Venezia era la porta d’Oriente, la Marca intratteneva relazioni con il mondo germanico, e non bisogna sottovalutare la colonizzazione delle valli da parte di popolazioni di provenienza bavarese, i Cimbri, in tutta la fascia del Pedemonte, dai Lessini fino al Grappa, le quali popolazioni formarono comunità non facilmente soggette a domini esterni e tendenti all’autogoverno locale. Venezia nel ‘200 non è interessata a possedimenti di terra, nella Marca la terra è tutto.

Venezia si limita a osservare in maniera distaccata le cose della Marca, e durante il dominio dei da Romano non ha modo di intervenire politicamente nelle contese dell’entroterra. Dal ‘400 in poi, invece, il dominio veneziano si fa diretto e autocratico.

Il mio romanzo è ambientato in un’epoca da molto tempo passata. Oggi viviamo in una situazione inedita, di crisi storica che va ben oltre i confini cui eravamo abituati a pensare, in molti sensi, e questo ha un impatto nella testa delle persone. Però questo si può dire: storicamente i Veneti “di terra”, nei tanti passaggi cruciali che hanno vissuto, si sono rimboccati le maniche, e hanno fatto bene quello che occorreva fare.

Comune invece ai Veneziani e agli abitanti della Marca è stato un particolare amore per il territorio, sia esso campagna, collina o laguna. I Veneti della Marca sono stati poveri per gran parte della loro storia, ma mai miseri: non hanno mai imprecato contro la loro terra, magari difficile, ma non avara.

Andrea Zanzotto però diceva che oggi un rapporto positivo, amoroso tra uomo e paesaggio, uomo e ambiente, non è più scontato, è diventato sofferto, o impossibile.

Di questo portiamo, noi Veneti, tutta intera la responsabilità.

Francesca Novello

Roberto Plevano è nato a Vicenza agli inizi degli anni ’60. Fin da bambino ha avuto sotto gli occhi il veloce cambiamento del Veneto e delle teste dei suoi abitanti. Si è avvicinato alla cultura medievale all’Università di Pavia e si è perfezionato nel Pontifical Institute for Mediaeval Studies di Toronto (Canada). Dopo una lunga esperienza all’estero, si è stabilito nella città natale e insegna nella scuola dove aveva iniziato gli studi. Ha pubblicato nel 2009 il lungo racconto 100 miglia (0111 edizioni) e collabora al blog letterario La poesia e lo spirito.
Il romanzo Marca gioiosa (Neri Pozza editore, 2017) nasce dalle cose stesse che abbiamo qui intorno: una terra di pianura, paesi e città, e le acque, i colli, i monti. E gli uomini e le donne che vi hanno vissuto. È una storia di invenzione, ma avrebbe potuto accadere realmente quasi come è raccontata, con le vicende dei personaggi, i conflitti, le emozioni, il ridere e il piangere, le amicizie, lo sgomento della perdita delle persone care, lo stupore e l’emozione del vero innamoramento, l’ossessione per il denaro e il potere.
Quando non legge e non scrive, a Roberto Plevano piace tener compagnia alla moglie, veder crescere i figli (cerca di essere un buon marito e padre, che è una cosa molto difficile), coltivare qualche amicizia, fare passeggiate. Cose così.

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