Quando impari a conoscere una casa editrice hai un’idea abbastanza precisa di cosa ti puoi aspettare da una nuova uscita. La casa editrice Neo Edizioni di Castel di Sangro negli anni si è costruita un pubblico molto attento ed esigente perché ha saputo pubblicare romanzi e raccolte di racconti che hanno una spiccata personalità. Opere che sanno andare in profondità, che non si limitano ad accarezzare la superficie, ma che rimestano nello sporco; più in generale, libri che non si accontentano di essere letti, ma chiedono al lettore uno sforzo in più: quello di riflettere.
Una delle ultime uscite di Neo Edizioni è intitolata “Le stelle mobili del sottosuolo” ed è stata scritta dall’autore padovano Enrico Prevedello. Quella di Prevedello è un’opera prima che si incastona alla perfezione nel catalogo della casa editrice proprio perché riesce a sfidare il lettore e lo costringe a porsi in continuazione delle domande.
Antonio è un ragazzo apparentemente normale. All’inizio di questo romanzo lo troviamo all’interno di una scena goliardica, una cena tra a amici che si prendono in giro bonariamente proprio come fanno i veri amici, ma in Antonio notiamo subito segnali che ci fanno comprendere che la superficie che stiamo osservando nasconde una profondità ben diversa. C’è un atto che Antonio non riesce a compiere, un atto all’apparenza banale, ma che nel caso di Antonio diventa una fonte di forte ansia. Antonio non riesce ad aprire una lattina di cuori di palma. Questo particolare bizzarro è però la porta dalla quale possiamo osservare il mondo interiore del protagonista. Quel semplice gesto rifiutato ci racconta di una tragedia passata che Antonio non è riuscito ancora a dimenticare, a una ragazza che non c’è più e, come se non bastasse, introduce al lettore la figura di Ctonio.
Ctonio è una voce che arriva dal nulla, una sorta di controcanto per il nostro protagonista, forse potremmo anche definirla la voce della coscienza o della ragione, ma in realtà Ctonio è qualcosa che va oltre, qualcosa che ossessiona il protagonista e lo porta sull’orlo della pazzia.
Poi succede l’imponderabile. All’improvviso il mondo si capovolge. Le persone vengono staccate a forza dal loro mondo materiale e precipitano verso il basso. Il cielo che prima era fonte di romanticismo, che veniva guardato con ammirazione, diventa un luogo indefinito di terrore e incertezza. Antonio si trova costretto, suo malgrado, ad ingegnarsi per comprendere ciò che sta succedendo e per continuare a vivere.
“Le stelle mobili del sottosuolo” è diviso in quattro parti. La parte iniziale compie la funzione di prologo, mentre la maggior parte del romanzo si sviluppa nelle due parti centrali. L’ultima parte finale è una coda che, in qualche modo, provvede a dare una chiusa alla storia di Antonio ma che allo stesso tempo lascia molte strade aperte.
I capitoli della prima delle due parti centrali è numerata seguendo la sequenza di Fibonacci, una sequenza che ha molto a che vedere con l’entropia. La seconda parte centrale invece ha i capitoli ordinati seguendo l’ordine alfabetico. Le due parti vengono così a contrapporsi, con l’ultima che in qualche modo cerca di portare ordine al capovolgimento del mondo.
Uno degli stratagemmi più interessanti che portano alla creazione di opere letteraria ha a che fare con la domanda “What… if?”. Cosa succederebbe se…? Enrico Prevedello si fa una domanda molto particolare: cosa succederebbe alle persone se il mondo si capovolgesse? Quali sono gli effetti pratici della frase “il mio mondo si è capovolto”? Quindi Prevedello, mosso da questo interrogativo, cerca di circostanziare la sua risposta, di mostrare in piccola scala ciò che potrebbe succedere in una scala più grande. Cosa resterebbe dei legami sociali? Chi sopravvivrebbe? Riusciremmo a formare delle strutture di potere solide e collaborative? Oppure i paradigmi del mondo in cui viviamo ora e che chiamiamo, per convenzione, normale, verrebbero portati agli estremi?
Le risposte che Prevedello fornisce nel libro sono, come prevedibile, solo alcune di quelle possibili, ma l’autore padovano riesce a creare una coerenza interna al libro che fa pensare che le conclusioni a cui arriva non siano poi così distanti da quelle che dovremmo affrontare tutti in una situazione simile.
La scrittura di Prevedello asseconda molto bene il tema del libro, in particolar modo c’è una differenza di ritmo tra la seconda e la terza parte del libro. Nella seconda parte la narrazione procede lenta, per accumulazione, i dettagli si ammassano perché il lettore, come anche il protagonista, ha la necessità di creare nuovi paradigmi, nuove regole di funzionamento applicabili al mondo capovolto. La terza parte invece è più spedita, a tratti possiede un ritmo sincopato che sembra sottolineare un elemento importante del romanzo: il mondo che si è capovolto è solo l’inizio della fine. Ecco, dunque, che le scene si susseguono velocemente e quasi si sovrappongono, la scansione temporale è secca e ritmata e si ha la sensazione si essere su un piano inclinato che ci sta facendo scivolare via.
Il romanzo di Enrico Prevedello è un tentativo riuscito di analizzare il rapporto che gli esseri umani hanno con sé stessi e con gli altri, ma racconta anche quali sono le “cose” essenziali che ognuno di noi porterebbe con sé se fosse costretto a compiere un ultimo passo nel vuoto.
Gianluigi Bodi
L’intervista
[Gianluigi Bodi]: Prima di tutto vorrei chiederti come ti è venuta in mente l’idea di capovolgere il mondo e di fare il cielo il nostro nuovo marciapiedi?
[Enrico Prevedello]: Prima di un’idea è stata una percezione, una relazione imprevista con un punto esatto di via Roma, a Padova, dove è ambientato il romanzo. Camminando in direzione Prato della valle e tenendo la destra, poco prima che inizi il portico che protegge l’ingresso alla chiesa dei Servi, la mia attenzione per più di un anno è stata catturata da una donna, sempre la stessa, capelli lunghi castano e vestita di nero, che spingendo un passeggino a un tratto si staccava da terra e volava verso l’alto, schiantandosi contro le volte del portico. La donna restava immobile, il cranio spaccato, mentre il neonato piangeva. Come si dice in questi casi, avveniva tutto nella mia immaginazione, perché nessun altro la vedeva. Ma non la creavo io con una scelta o un desiderio, era un appuntamento imprevisto e fisso con una fantasia che scaturiva non da me ma dalla relazione tra la mia immaginazione e uno specifico luogo di quello che, per capirci, chiamiamo mondo reale. Come se esistesse un punto nell’aria, una finestra larga una spanna, e quando capitava di passarci in mezzo con la testa, potessi vedere quella scena. Decisi di scrivere un racconto sulla donna che cadeva verso l’alto, nella speranza di non vederla più, come se fosse un fantasma che mi avrebbe lasciato in pace una volta soddisfatta. Col tempo scoprii che quella donna mi aveva attirato in un labirinto, e così nacque il romanzo.
Nella recensione ho accennato a Ctonio senza però entrare nei dettagli per non correre il rischio di rovinare il piacere della lettura, ma mi chiedevo se potessi raccontarci per te cos’è Ctonio, qual è la sua funzione all’interno del romanzo. A me è parso, a tratti, una specie di Grillo Parlante con il senso del macabro.
Ctonio è il nostro amico che ci dice quello che non riusciamo ad ammettere. Quello che non ha paura di ferirci per farci del bene, o di sentirsi mandare al diavolo per averci detto la verità. Però, è anche un rapace necrofago, quindi la sua compagnia è meno piacevole di quella di un amico. Puzza, gracchia, graffia il soffitto diventato pavimento coi suoi artigli lunghi e sporchi. È quella relazione di cui avremmo bisogno ma di cui abbiamo paura, perché uccide mentre porta il cambiamento nell’unica direzione possibile.
Hai di sicuro creato una narrazione coerente che è stata in grado di far funzionare narrativamente parlando un mondo puramente fantastico, mi chiedevo qual è stato l’aspetto più complesso da affrontare e più in generale quali sono state le difficoltà che hai incontrato mentre scrivevi “Le stelle mobili del sottosuolo”.
Capovolgere un mondo è stato sicuramente sfidante ma anche molto divertente, perché quando mi sentivo lontano dalla voce dei personaggi e non riuscivo a proseguire con le loro relazioni, potevo lavorare al ribaltamento, alla descrizione delle cose cadute, oppure perdermi nella domanda: perché ci fidiamo della gravità? La difficoltà principale, però, è legata alla scrittura in generale. Dopo aver frequentato corsi e aver letto libri sullo scrivere romanzi, dopo aver discusso con scrittori e scrittrici, tra le varie cose apprese e utili a divertirmi ne rimaneva una enorme, obesa, egocentrica, che si era piazzata tra la mia immaginazione e le dita sulla tastiera: quali tasti schiaccio per scrivere bene? Quale stile usare, quali cose dire per scrivere come dovrei? La prima versione del romanzo soffriva molto di questa preoccupazione, direi gentile verso chi avrebbe letto la storia, di fargli trovare qualcosa che potesse piacergli. Cercavo di non essere troppo criptico, di nascondere le mie stanze più buie e disordinate, di non creare problemi. Come quando filtriamo quello che vogliamo dire al prossimo trattenendo le cose più spigolose, puzzolenti, storte, che però spesso sono quelle che sentiamo più vive e che vorremmo condividere di più. Non le diciamo perché si discostano troppo dalle cose che vengono dette di solito, e quindi sarebbero degli indizi sulla nostra anormalità. Per paura di non piacere e di essere allontanati dal gruppo, le teniamo per noi. Poi però mi sono reso conto che non mi divertivo, e che il romanzo è un luogo che non esiste prima di venire creato, e che quindi lì, almeno lì, posso fare quello che voglio. Poi, se piace bene, se no non importa. Nella scrittura è più importante divertirsi che essere accettati. Così ho riscritto il romanzo altre due o tre volte, come giri di spirale che si avvicinano al centro fino – si spera – a toccarlo.
Nel libro giochi molto con la struttura. Al di là del corsivo dedicato ai pensieri di Ctonio ci sono anche i brevi paragrafi dedicati alla storia di Antonio e della sua ragazza che sembrano quasi delle piccole poesie. Si tratta di un tuo modo di intendere la tua scrittura oppure è qualcosa che hai creato per questo romanzo, perché ti sembrava più adatto alla storia che stavi raccontando?
Per me scrivere un romanzo è costruire un mondo, i dialoghi tra i personaggi stanno sulla crosta terrestre, o sulla corteccia del cervello – l’area di più recente formazione dal punto di vista evoluzionistico, mentre più si scende più ci si avvicina al nucleo, al magma e alle zone ancestrali che gestiscono l’olfatto e gli istinti primordiali. A volte, ma non sempre, do voce anche a queste zone profonde, e credo che il modo migliore per non tradurle sia usare la poesia, lo stile lirico. Perché ci sono aree del mondo, del cervello e delle narrazioni che non sottostanno alle leggi sociali, alle buone abitudini, alla morale, e quando voglio che la voce arrivi direttamente da lì, uso la poesia proprio perché per me è libera dagli stessi vincoli.
Ci puoi dire su cosa stai lavorando al momento?
Da qualche anno lavoro a un romanzo di non fiction ambientato in Veneto. È la storia del padre di uno dei miei amici d’infanzia, proprietario della bottega del paese in cui sono cresciuto, che ha fondato l’autogoverno veneto assieme a un venetista dell’assalto al campanile di San Marco del 1997 ed è finito in carcere dopo aver sparato a un banchiere.
Enrico Prevedello, Le stelle mobili del sottosuolo
Editore: Neo Edizioni (9 marzo 2022)
Copertina flessibile: 196 pagine
ISBN-10: 8896176980
ISBN-13: 978-8896176986
Peso articolo: 250 g
Dimensioni: 13.9 x 1.7 x 19.6 cm
Enrico Prevedello è nato in provincia di Padova nel 1984. Fa l’insegnante di lettere alle superiori, ha scritto racconti e interventi che sono usciti sulle riviste CRACK, Clean, ‘tina, La nuova carne e sui blog Grafemi e Vita da editor. Un suo reportage narrativo apre l’ultima raccolta di CTRL, Gli estinti. Le stelle mobili del sottosuolo è il suo romanzo d’esordio.