Recensioni a “Noi non abbiamo colpa” di Marta Zura-Puntaroni

“Noi non abbiamo colpa” di Marta Zura-Puntaroni

Una accattivante copertina in cartoncino tattile con una bella illustrazione in cui una ragazza, una donna adulta e una signora anziana sbocciano da tre tulipani bianchi, prometterebbe complicità femminili tramandate di generazione in generazione, segreti insegnati attraverso i gesti, abilità ereditate per magia……Con uno stile moderno, asciutto e un po’ cinico l’autrice ci racconta di una trentenne che fatica a crescere e la cui coscienza sgomita tra il desiderio di restituire le cure ricevute da bambina dalla nonna e il richiamo adolescenziale alle chiacchere con le amiche, al vivere la propria vacanza, al “fare serata”.Totalmente e volutamente assente il mondo maschile: peccato! avrebbe portato un po’ di equilibrio nella narrazione e nella vita della protagonista.

Flaminia Nigris Cosattini e Bruno Matosel Loriani

Il racconto “Noi non abbiamo colpa” di Marta Zura-Puntaroni è piacevole per lo stile giovane e fresco che subito prende il lettore.Il tema trattato è di indubbio interesse e riguarda il convivere con persone tanto care e ammalate che con il passare dei giorni diventano sempre più debilitate.L’inevitabile affievolirsi dei rapporti di vicinanza e amore trascinano le persone care in una dimensione sconosciuta, lasciando tutti soli con i propri pensieri.Un tema che prima o poi toccherà tutti noi nel vivere quotidiano. Nell’ultima parte, secondo me, l’autrice non è riuscita appieno a trasmettere l’intensità dei sentimenti e la piacevolezza del leggere che invece si coglie nelle parte iniziale.

Umberto Crivellari

Il romanzo ci mette di fronte, dalla prospettiva di figli, ad una riflessione sul momento in cui il ciclo della vita si sta per completare: meglio vedere morire i genitori nel pieno delle loro facoltà mentali e fisiche accettando lo strazio dell’abbandono o meglio averli con sé fino all’ultimo, vederli svanire, farsi guscio leggero? Non c’è risposta a questo interrogativo insolubile che ci restituisce un vero dilemma tra il preferire il rimpianto per la scomparsa prematura o l’esaurimento della persona fino a dimenticare quello che è stata. In ogni caso, noi non abbiamo colpa, non solo perché non abbiamo chiesto noi di venire al mondo ma sopratutto perché non spetta a noi la scelta. Dobbiamo solo ricordarci, suggerisce l’autrice, di apprezzare ogni momento con la persona cara, anche quella telefonata stizzita, quell’intrusione in quella sfera che crediamo solo nostra o quel sentirci sempre figli mentre siamo ormai adulti. Un tema non facile affrontato con realistica naturalezza attraverso lo sviluppo dei pensieri dell’autrice nei quali il lettore non può fare a meno di non riconoscersi anche solo per una espressione, per un ricordo o per qualche storia che ha certamente sentito o direttamente vissuto. Un tema profondo che ci aiuta a riflettere sulla forza del legame familiare e delle nostre radici.

Caterina Passarelli

L’incipit sfavillante si avvale di una scrittura densa, evocativa, molto elegante, nella quale riverberano nostalgie e malinconie pavesiane. Ne emerge il ritratto delicato e allo stesso tempo potentissimo di un paese delle Marche, teatro della vicenda raccontata. Ma è proprio il cuore del libro che non mi ha coinvolto: la storia è (tristemente) comune senza essere esemplare, anche a causa di uno stile che, dopo le primissime pagine, diventa più frammentario e scarno, a volte semplicistico. Discutibili, a mio avviso, alcune scelte espressive (“la me bambina”, “la me feto”). I personaggi sono fumosi ed evanescenti, così come la protagonista. Non c’è davvero mai una gioia, né un tocco di ironia, in questo romanzo che sembra ancorato a una visione della ‘letteratura alta’ sinonimo di ‘letteratura triste’.

Vincenzo Politi

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