Recensioni di “Beati gli inquieti” di Stefano Redaelli

“Beati gli inquieti” di Stefano Redaelli

Beati. Potrebbe indugiare qui, il lettore. Chiudere gli occhi sul precipizio di una iniziale invocazione e riaprirli soltanto alla consegna di un preciso messaggio: «P+F=P». «Presente più futuro uguale passato»: è questa la formula rivoluzionaria ripetuta come fosse una preghiera. Stefano Redaelli con “Beati gli inquieti” (Neo edizioni) consegna un’opera che è un vero e proprio atto di fede, perché la voce è quella dei «matti», la più autorevole in mezzo a tanti uomini di scienza che parlano e sanno perché sta scritto in terra. La voce dei «matti», invece, non ha bisogno di essere verificata, perché è altrove che sta il sigillo della sua veridicità: «Chi soffre non è misero. Gesù lo chiama beato». Ed è da qui che germina l’opera, dalla voce di chi vede il cielo arcobaleno, perché ha conosciuto il nero del centro della terra. I matti hanno il mondo dentro, sono capaci di capovolgerlo e vedere allo stesso tempo la notte e il giorno. Siete pronti ad ascoltare la storia del protagonista Antonio? Anche lui si trova lì, nella “Casa delle farfalle” di cui è parte giorno dopo giorno. Quella di Antonio potrebbe essere la storia di tutti: metafora del volo e di un’esistenza fragile, che si dischiude al lettore con una iniziale bugia che tutti perdoneranno presto, quando capiranno che «I matti non mentono/ i matti ci vedono/ i matti sono nudi/I matti dicono sempre una verità». Un libro che arriva a dirci che questo è il tempo delle domande, in mezzo a tanti che danno risposte. E se avessimo davvero sbagliato tutto? Se la soluzione fosse tutta lì, sulla finestra del futuro atteso che determinerà la possibilità di ogni redenzione umana?

Alessandra Angelucci

Il tema della follia è spesso abusato in letteratura, dove viene relegato a elemento di disturbo, a rumore bianco in grado di infastidire, a scarto dalla norma. Redaelli, in questo libro a metà fra il romanzo e il saggio, affronta il tema da un’altra prospettiva evidenziando tre caratteristiche del folle: il folle, in quanto inconcepibile, viene spesso isolato, cancellato dai registri della comunità pur continuando a viverci in piena luce, con uno stigma ben visibile a tutti; il folle, poi, mostra parecchi tratti in comune con il saggio e il profeta, con quelle figure in grado di parlare con gli dèi o di vedere una realtà altra rispetto alla norma, sebbene a questi ultimi vengano attribuite soltanto qualità positive mentre il folle, si è detto, è un reietto; il folle, infine, non mente e anzi può avere una visione più lucida del mondo in quanto propria e inalienabile. Redaelli insiste molto su questi tre punti, ponendo al lettore una domanda fondamentale: perché chi parla con Dio è da considerarsi santo mentre chi ha altri tipi di voci nella testa è da considerarsi folle, ossia matto, deviato, pazzo?Redaelli ha scritto un libro coraggioso, sebbene questo sia un aggettivo di cui spesso si abusa. Penetrando nel campo minato di un tema insidioso, si è esposto alle critiche più dure. È tuttavia un libro ben riuscito, che focalizza l’attenzione su qualcosa che spesso abbiamo davanti agli occhi e che, per un motivo o per l’altro, tendiamo a banalizzare e a relegare in un angolo.

David Valentini

La storia raccontata in questo libro ci porta dentro a una struttura psichiatrica. Una volta l’avremmo chiamata manicomio, con tutto il retaggio di significati che questa parola porta con sé. Ma “Casa delle farfalle” non è una struttura dell’orrore, è un luogo in cui i malati di mente vengono rinchiusi per trascorrere le giornate senza scossoni: l’oggi identico allo ieri, identico al domani.La domanda che il narratore sembra farsi è relativa alla ragione di questo confinamento, ma anche all’altro punto chiave in stretta relazione con il primo: perché nessuno viene a trovare i matti?E quindi giriamo attorno al quesito che trovo essere uno dei fulcri potenti di questo romanzo. “Casa delle farfalle” è il luogo in cui parcheggiamo i matti per paura che si feriscano oppure per paura che feriscano noi?Che la pazzia sia una pazzia assoluta è un fatto discutibile. In “Beati gli inquieti” la voce narrante è però capace di mettere sé stesso in relazione con i pazienti della struttura psichiatrica, di dialogare con loro, mettersi in gioco, influenzarli e farsi influenzare, dedicarsi a loro non più come se fossero oggetti di studio, bensì come fossero esseri che parlano una lingua diversa dalla nostra e che cercando di comunicarci una verità sacra.

Gianluigi Bodi

La ‘trama’, peraltro non eccessivamente originale, è ovviamente il pretesto per una serie di considerazioni sulla natura dell’Uomo, della Ragione, della Letteratura. Sono pensieri alti, che meritano di essere ponderati, e che Redaelli elabora attraverso uno stile che invita il lettore alla riflessione profonda e all’empatia. Il romanzo, come in fondo i personaggi che racconta, rischia però di essere ‘schizofrenico’ e scisso. Ciò è dovuto al fatto che non sempre le ragioni dell’autore-pensatore riescono a trovare una sintesi con le ragioni dell’autore-narratore. Laddove la parte filosofica e meditativa è incisiva, quella puramente narrativa, che in teoria dovrebbe raccontare una realtà molto dura, è popolata da personaggi più fantasiosi che folli, troppo evanescenti e romantici per risultare credibili. Eppure, le riflessioni più profonde spesso scaturiscono dalle viscere di una realtà orrida e crudele, che non deve essere edulcorata.

Vincenzo Politi

Non è possibile dare una definizione della follia che non riguardi anche noi, i “sani”. La normalità è un’arte funambolica. Lo sapeva Edmondo De Amicis, autore di un libretto-reportage di cento pagine, oggi del tutto dimenticato: Il giardino della follia. Era il 1902 quando lo scrittore, segnato dal dolore per il suicidio di un figlio, decideva di visitare il manicomio di Torino. Vi giungeva come un osservatore disarmato, spinto da un bisogno di consolazione più che dal gusto dell’inchiesta giornalistica. L’incontro con i “derelitti” presenti nella struttura lo aveva persuaso della profonda umanità di quegli uomini e di quelle donne forzatamente tenuti a distanza dal mondo. E ricordando il figlio scomparso, pensava che avrebbe potuto ancora incontrarlo, ancora abbracciarlo, se fosse stato rinchiuso lì. “Mi sono chiesto perché nessuno frequenti i matti” si domanda invece Antonio, il ricercatore universitario protagonista del romanzo di Stefano Redaelli, Beati gli inquieti (Neo Edizioni, 2021). L’autore-narratore accompagna i suoi lettori in un coraggioso faccia a faccia con la follia, raccontando la vita, trascorsa lontano dalla vita, dei pazienti ospitati nella Casa delle Farfalle, una casa di cura post-basagliana. Ad avvolgere gli ospiti è un immobile presente, un tempo vissuto come attesa di una svolta, dell’arrivo di un dio che salvi e perdoni, o del messaggio segreto di un genio a cui sottrarre il cappello prima che il sogno svanisca e ricominci la veglia. “I matti sono nudi”: se ci guardano, non possiamo nasconderci, scoprono che anche noi lo siamo. Basterebbe un segno di rossetto sulla fronte, un tocco di ombretto sulle labbra perché la nostra maschera cada. Redaelli esorta all’inquietudine, al dubbio che ci fa guardare con sospetto alle nostre certezze, fotografando un’insospettabile continuità tra il rischio di perdersi e frammentarsi e il miracolo di ritrovarsi interi. Si cammina sempre sul filo del rasoio, lungo una fragile corda che si tende sul vuoto. Nelle pagine del suo reportage De Amicis ricordava che una volta, in un manicomio a Buenos Aires, un visitatore domandò chi fosse il più pazzo della compagnia. “Non scherzi, signore!”, rispose qualcuno fra i pazienti. La ragione “es mecanismo de nada”. Può spezzarsi per un niente.

Martina dell’Annunziata

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