Degenerazioni e forza dell’inglese

Un recente articolo sul Corriere della Sera riferiva di un appello di deputati europei, nel quale un certo personaggio ‘è stato riportato essere come un assiduo contributore della propaganda russa’ (testualmente). C’è chiaramente qualcosa di sballato, nella lingua usata: un orribile calco, più che una traduzione, di un testo originale in inglese facilmente immaginabile (‘has been reported as being a frequent contributor to Russian propaganda’).

È l’epitome del rapporto travagliato e disastroso che il nostro paese ha attualmente con questa lingua, diventata invadente e sempre fra i piedi, spesso a sproposito,  più per causa nostra che loro, più per nostra pigrizia e sciatteria che per loro ‘imperialismo’: ne traiamo una pseudo-lingua nove volte su dieci  scorretta  o inventata.

La rovina subìta e la prostituzione offerta da quest’italiano imbastardito (italenglish o come dir si voglia) è per fretta, insipienza e piaggeria. Non c’è alcun motivo di usare la maggior parte delle parole inglesi propinateci – neanche nei titoli di giornale, dove pure la loro brevità, spesso monosillabica, serve meglio ad attirare l’attenzione. Nessuna ragione di dire meeting per ‘incontro’; e perché mai step per ‘passo’, ‘gradino’ (dovrò dare solo rapidi esempi, uno che valga per i tanti a cui è facile pensare)? Ogni e qualsiasi pronuncia dell’inglese sbandierata con protervia alla TV è sbagliata: sono pronto a sostenerlo in contraddittorio pubblico. Loro non ci badano, anzi (per albagia e supponenza: se lo dico io!); e invece dovrebbero, per farsi capire, non farsi ridere addosso, e non ingannare gli ascoltatori.

Vale per l’inglese parlato e scritto. Il primo, come il veneto, non pronuncia le doppie (eccetto quando si tratta di raddoppi per prefissi o suffissi: dissatisfaction, ad esempio, o cannot). La pronuncia di cannon e canon è identica (tant’è vero che F. Scott Fitzzgerald li confonde in una lettera). Kennedy va pronunciato con una enne sola, e non tre, come fanno alla TV – altrimenti è come se il nostro povero Aldo Moro, altrettanto barbaramente assassinato, diventasse Morro. La nostra tendenza, specie centro-meridionale, è di legare le parole: l’inglese le separa e disgiunge  nettamente.

‘To be or not to be’ è come un battito scandito di martelletti – guai a legarli fra loro (tubbì ornòt tubbì). A riprova, la loro dizione scandisce e spezzetta inequivocabilmente il primo verso della Divina Commedia: Nel me – zo del – camìn – di nos – travita.

Nell’inglese, con tendenza fortemente monosillabica, conta la vocale tonica (netta e chiara, singola o dittongata che sia), mentre le altre diventano come si dice tecnicamente ‘indistinte’. A parte in caso di suffissi alla francese (come –ility  da -ilité: respònsible>responsibìlity e simili), la sillaba tonica non si sposta nelle successive evoluzioni della parola, e quindi da  press avremo exprèss, da port, repòrt, da form, perfòrmance  – mai gli obbrobriosi e contagiosi èxpress, rèport, pèrfomance della TV dilagante. Abbiamo già una parola felicemente entrata nell’italiano, repòrter: vogliamo forse adesso cambiarne la pronuncia?  Burton, che sia il celebre scrittore o l’attore, detto un po’ alla buona si pronuncia Bêt’n, con una ‘e’ chiusa, la erre ‘saltata’ e la ‘o’ muta più che indistinta – l’alfabeto fonetico internazionale indica infatti  ‘bə:tn  –  e non Barton  che, se proferito così, si scrive Barton. Sarebbe come dire, che so, Colvino invece di Calvino. Idem per Turner (il pittore J. M. W. o l’attrice Lana che sia: ‘tə:na*) e per Henry Purcell (‘pə:sl): tarner non esiste come parola inglese, e detto parsel, il grande musicista si trasforma in  un ‘pacco’ (parcel). 

         Sennò diventa l’assassinio a sangue freddo della lingua inglese temuto dal Professor Higgins nel musical My Fair Lady, ‘the cold-blooded murder of the English tongue’, murder pronunciato pressappoco come mêrda (pardon, ‘mə:d|ə*), non il raccapricciante marder.

Le consonanti dell’inglese sono altrettanto imprescindibili. Se diciamo che amiamo molto Roberefo, nessun madrelingua inglese (ma neanch’io) capirà: le tre dentali esplosive di Robert Redford sono tutto, non si possono saltare o smussare, specie in fine di parola – com’è invece la tendenza tipica del francese. Sembra una battaglia persa, ma se ci si ostina a non pronunciare fortemente l’acca – una delle tre gutturali –  sia all’inizio che all’interno di parola,  sono guai: Ohio detto Oaio è come Liguria detto senza la gh: Liuria. Sfido chiunque a capire.

L’inglese scritto propinatoci da Ministeri, enti ed amministrazioni locali, impiegati, funzionari o burocrati di ogni tipo e provenienza, non è da meno, spesso altrettanto incomprensibile e ridicolo. A Venezia, a Piazzale Roma, fino a poco tempo campeggiava la scritta ‘Water Closed’: cosa sarebbe successo a seguire l’indicazione? Su qualche imbarcadero si legge ancora ‘Walk Only’ (come se altrimenti cedessimo alla sacrosanta voglia di volare): per ‘Non correre’, scopriamo, ‘Non spingere’ (come si diceva una volta), ossia ‘Do not rush’, ‘No rushing’. E’ una parola, fra l’altro, che abbiamo già fra noi – rush hour, anche questo un vezzo, usato per ‘ora di punta’, quando ci si accalca, ci si pigia, si fa ressa, si corre e ci si spintona per scappar via dall’ufficio alle cinque, per entrare in metropolitana o accedere agli enormi stanzoni adibiti ai concorsi pubblici. Al garage comunale, una lunga frase, ancor più elaborata del già faticoso Avviso in italiano, invita a spegnere il motore quando si è fermi;  due parole bastano in inglese: ‘No idling’.

Vanno tutti in vacanza all’estero: gli assunti e stipendiati ‘perché sanno l’inglese’ guardino  queste indicazioni, ascoltino gli annunci alle stazioni, leggano gli avvisi, i verbali e le direttive diffuse fra l’altro in poche pagine, non mezzi volumi. Anche le pessime o approssimative traduzioni dall’inglese, come si è visto all’inizio, gridano vendetta: flat tax (che ci tocca da presso) sono due parole separate e vanno dette, cerchiamo di immaginare, come se una fosse alla fine di una pagina,  voltiamo pagina e pronunciamo l’altra in capo alla nuova pagina, con uno iato di una frazione di secondo. Sbattute assieme – flattax – non significano nulla. E traducendo correttamente ‘aliquota unica’ (o ‘imposta secca’) non si può più disquisire ridicolmente di flat tax a due o tre scaglioni. Sui giornali si legge anche che la nostra manovra economica si deve ‘sottomettere’ (?!) a Bruxelles; sottoporre all’attenzione, cioè, presentare, proporre, mandare in esame (submit) – un’abissale differenza fra quel che vorrebbero loro e intendiamo noi. Si spera nel lieto fine: chissà perché molti ci rifilano in sua vece happy end, che significa esattamente il contrario, ‘una fine felice’, una bella morte; se proprio lo vogliamo in inglese, happy ending, non altro.

Se poi(com’è purtroppo quasi sempre il caso) l’acca non viene pronunciata, si opta per una e stretta invece di æ, e si raddoppia la pi, nasce un disastro: la pronuncia italiana più vicina di happy è ‘capi’, detto magari alla toscana, così come la pronuncia  più vicina per high è CAI, l’acronimo del Club alpino italiano, o il cài cài che si presume esclamino i cani calpestati (non l’ài di chi si punge un dito). Se mi infervoro è perché è inammissibile, specie nel Veneto: in italiano ho e ha hanno l’acca muta, benissimo, ma in qualsiasi parte della nostra regione l’esito dal latino habeo, habet è go, gà, o gastu, ghetu, gavèmo, con una bella gutturale, come avviene nelle lingue germaniche. Qualcosa dovrà pure insegnarci, su questa benedetta acca, che non è un tacito sospiro, ma un forte colpo di tosse. Con gli studenti è servito fargli memorizzare che Hamlet in russo diventa Gamlet (si potrà quindi dire l’Amleto, mai l’Hamlet di Shakespeare). L’uso dell’articolo determinativo davanti a parole simili è altra atrocità che si compie: se scrivo ‘l’hotel’ o ‘l’ho visto’,  va benissimo, perché quell’acca è muta; ma se dico e scrivo l’hot dog, qualcosa non va – come se, parlando del prosciutto, invece che ‘il cotto’ dicessi e scrivessi l’cotto (sic). E’ vero che, acclimatandosi in italiano, parole come hot dog magari perderanno l’acca, ma intanto, la perdita o confusione di significato e stile è sensibile: non posso, per ora, dire aldo per caldo.

Dall’inglese abbiamo tratto in passato fior di parole utilmente calate nell’italiano: stop (nelle sue varie accezioni), bistecca (da beef steak), corner (nel gioco del calcio), golf.  Corner viene da corner kick, calcio d’angolo, golf da golf sweater, maglione da golf; funzionano perfettamente, ma avviano alle deplorevoli distorsioni del fenomeno nell’italiano d’oggi. Di simili costrutti ci fa gusto prendere la prima parola, che è in posizione e con funzione aggettivale,  e farne  un sostantivo, tralasciando la seconda – il vero sostantivo – con risultati molto spesso oscuri o imbarazzanti. Con living si intende il soggiorno(living room), il Living Theatre, o lo standard di vita (living standard)? Per modella si dice ormai quasi sempre top (per top model; mac’è anche top gun  e  top hat: come la mettiamo?) Un altro giornale informa che il talk della sera prima è stato deludente: fatico a capire che si tratta del talk show  – ossia una delle interminabili serate televisive di sparate, alterchi, parole sbraitate in libertà. Ai limiti dell’assurdo, c’è qualcuno che ‘organizza un talent’. Le amiche agiate annunciano che vanno dal loro personal: sarà l’istruttore/allenatore privato di ginnastica (personal trainer), o il computer personale (PC)?

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Questa parola conduce a ciò che oggi ingigantisce e radicalizza il problema. Gli ormai imprescindibili mezzi elettronici che invadono e condizionano la nostra vita – mentre per i giovani sono ormai parte integrante della loro stessa persona e forma mentis, del modo di vedere e affrontare il mondo – costituiscono una rivoluzione totale come fu l’invenzione della stampa, e forse più. Loro lingua naturale è l’inglese, che sembra fatta apposta, e ne ha favorito la nascita e l’esplosione: monosillabi, abbreviazioni sempre possibili (app), un modo di procedere e ‘ragionare’, bisogna arrendersi, diverso da quello appreso con l’analisi logica dei tempi remoti. Me lo conferma un esperto del settore: il computer è figlio dell’inglese, mette tutto sullo stesso piano, ha una logica piatta,  non subordina:  è paratattico e va male per l’italiano. Ci sfida con la lingua che parla lui.

Contrastarlo è inutile. Occorre adattarsi con intelligenza, con la strana parola – resilience – che ci han fatto italianizzare quando eravamo già per conto nostro campioni di flessibilità, duttilità, adattamento.Pensare di ovviarlo od ostacolarlo lascia il tempo che trova. Il francese, ben più sovranista (il computer indica però che questa parola non esiste …) di noi, ci prova: ma ordinateur al posto di computer, parola ormai a pieno titolo transnazionale e accasata ovunque, non funziona, perché suona come il tentativo di imporre o sovrapporre la vecchia logica alla nuova, e francamente non è possibile. Il computer non ‘mette in ordine’ un bel niente, anzi scombussola, sconvolge, disgiunge anch’esso come l’inglese, fa piazza pulita delle vecchie forme mentali, è una nuova realtà, con cui si può o si deve fare tutti i conti che si vuole, ma a vincere sarà lei, anche linguisticamente. Lì sì bisogna essere ‘resilienti’ (ci sono cascato), adattarsi.

L’inglese scritto e parlato dei libri e di chi lo conosce per quel che è veramente, ha ed ha avuto molto da insegnarci: la concretezza e la semplicità dell’enunciato – l’ordine obbligato di soggetto, verbo, complemento –, frasi brevi, stringate e paratattiche, le subordinate al minimo (in parte una perdita, per tenere però in primo piano quel che conta), l’avere in sospetto i voli retorici: li denuncia persino il Bardo, che pur ne è maestro e talvolta succube. Il grande T. S. Eliot comincia un saggio su un predecessore che non ama dichiarandolo ‘grande poeta per tre ragioni’ e procede a illustrarle nell’ordine, prima, seconda, terza. L’idea-guida subito all’inizio, e poi si spiega. Fate così, dicevo o imponevo ai miei studenti, niente ‘cappelli’ introduttivi che dicono poco e non significano nulla, alimentano la retorica e il vuoto pensare di troppi tromboni nostrani (in tante scuole, ahimè, li richiedono ancor oggi, facendo giustamente rimpiangere ai giovani i computer).

Le nostre tesi di anglistica o americanistica erano, e naturalmente sono, redatte  in inglese. A qualche funzionario del Ministero non piaceva (forse perché qualche sua parente c’era male incappata) e ho dovuto lottare, espormi, anche rischiare di persona possibili guai giudiziari, per mantenerlo. Degli elaborati, preferisco correggere gli errori di inglese che non il loro italiano, ribattevo agli scettici e ai contrari; i laureandi imparano insieme una logica, un modo di pensare, e come esporre concetti lineari e concreti.

Adesso si vuole che le lezioni si tengano in inglese anche per le altre discipline. Rispunta il sospetto di ‘imperialismo’: in realtà è questione più complessa e difficile da dirimere. Non posso non condividere molte indicazioni in contrario per le materie strettamente umanistiche. Per le materie scientifiche l’inglese è di prammatica, si accetta quello che viene bonariamente annunciato ai Congressi come broken English, un inglese un po’ malconcio e disinvolto, magari un tanto al cento, non necessariamente di servizio, ma che serve. Nelle nostre università, come fanno gli altri Paesi, si vogliono però attirare e ‘integrare’ (parola equivoca, terreno minato) studenti stranieri, come una volta i chierici medievali, sia dai paesi post-coloniali che da quelli occidentali. Nel 2016-17 da noi ce n’erano quasi 13.000: non pochi. In Germania, credo fossero cinque volte tanti, e si capisce l’entità del problema.

Se è giusto aspirare ad avere (tanti) studenti stranieri, e la concorrenza sembra imporlo, allora c’è poca scelta. Possiamo pretendere, ed è giustificato, che i dottorandi di italianistica o filologia romanza, e materie affini, nelle nostre università seguano i corsi in italiano. Ma per i corsi di triennale o di specialistica (diplomi che non dovrebbero conferire lo sbandierato e inappropriato appellativo di ‘dottore’), temo che per avere una platea transnazionale, come oggi si dice, sia difficile non ricorrere (ridursi?) all’inglese.

Funziona già per discipline che chiamiamo della ‘classe morale’ – giurisprudenza, economia ed altre collegate. Col tempo, potrà funzionare anche per quelle storico-filosofico-letterarie, sebbene saranno queste a  soffrirne di più. Purché alla ragione strettamente accademica non subentri, non si sovrapponga o si imponga la ragione meramente politica, amministrativa, ‘sociale’, lì il computer potrà aiutare senza farla da padrone; ma dovremo essere noi, non gli altri, a controllarne il modo, senza lasciarlo ai politici e ai burocrati. Si difende l’integrità e la validità delle lingue e culture nazionali solo mettendole proficuamente a confronto e per  così dire ‘a frizione’ con le altre e con i dialetti; ma senza opporre lo strapaese. Questo ha limiti simili e contrari ad un internazionalismo dove ne domini una sola.

La Storia in questo non ci è molto amica e dà pochi lumi. Penso spesso a come doveva essere nei paesi periferici dell’Impero romano: che latino parlavano? Alcuni certamente perfetto, ma tanti altri? In Bitinia (lo scelgo a caso) o in paesi consimili, gli scrittori del luogo scrivevano in latino o in lingua locale – mirando al largo pubblico o alla fama nazionale? Nelle scuole, usavano il latino o le altrettanto nobili lingue del paese? Un latino malconcio come il nostro inglese italianato, che ha però favorito la nascita delle nostre lingue? Avevano problemi – tenuto conto della differenza storica, geografica, di cultura – come questi finora abbozzati? Gli studiosi di storia, filosofia e archeologia potrebbero di sicuro darcene una ragione o una risposta migliore della mia.

Da inveterato letterato posso, non conchiudere, ma accomiatarmi dicendo (im)modestamente della mia esperienza personale di anglista e americanista. Per saggi, libri o contributi scientifici (nella sua ambivalenza, la parola serve al mio scopo) trovo più confacente usare l’inglese, diretto, ‘semplice’ e concreto, si parva licet alla T. S. Eliot di cui sopra, per intenderci; e magari, vista l’espansione planetaria dell’inglese, invece che su ventiquattro lettori, potrò contare su qualche centinaio (grazie se non altro alle biblioteche di mezzo mondo e ora agli ebook: ne va tenuto conto).  Per cose più vicine al cuore, come diceva un carissimo collega, per cose più ‘creative’ – come può essere anche un articolo di terza pagina, il ricordo di un amico, un’esperienza formativa, naturalmente le traduzioni d’impegno, d’un poeta o del  Bardo  – molto mi consola l’italiano.

©Sergio Perosa

Originariamente pubblicato in Per l’italiano, per le lingue. Documento ufficiale dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, IVSLA, 2019, pp. 23-28, qui con minimi ritocchi.  

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