Giovanni Comisso scopre Giuseppe Berto: "Trovato il primo libro del nuovo romanticismo"

Giovanni Comisso scopre Giuseppe Berto: “Trovato il primo libro del nuovo romanticismo”

E’ opera di un giovane scrittore italiano: che stia per finire la letteratura che ha reso l’uomo nemico dell’uomo?

Gli incontri degli uomini sulla terra dipendono da strane coincidenze quest’estate, dovendo trovarmi alla mattina presto sulla strada principale per prendere un autocarro che mi avrebbe portato a una città, decisi di dormire da un mio amico che abitava vicino quella strada, dormii poco e male, mi scompigliò il mio amico, l’autocarro passò senza fermarsi e dovetti attendere il primo treno. La mia decisione non era stata dunque determinata perché partissi a quell’ora e con quel mezzo, ma perché avessi da incontrare Giuseppe Berto nella casa del mio amico.

Giuseppe Berto

Avevo appena finito di scrivere i miei articoli sulla gioventù d’oggi, che in questa distrattissima Italia erano passati del tutto inosservati, e subito, al principio della nostra conversazione, mi avvidi che egli rientrava nella tragica situazione da me osservata nella gioventù di questo tempo.
La cera della sua anima era stata impressa dall’illusione apparentemente felice del tempo crollato ed ora si trovava nella disperazione delle vie chiuse, a dovere aprire soltanto con la propria forza per ricrearsi una nuova illusione. Non era arrivato però come molti dei giovani d’oggi a precipitare nella crudeltà o in situazioni aliene da sentimenti umani, né faceva sentire come estrema soluzione la morte: egli parlava con fede di un suo romanzo, scritto in prigionia, e diceva tutt’al più che se non fosse riescito a pubblicarlo e a ottenere un incoraggiamento a proseguire, sarebbe andato in America a zappare la terra.

Questi giovani mi fanno immensa pietà, a tanti che come lui avevano scritto qualcosa, avevo già detto di farmi leggere ma non vi avevo trovato possibilità di salvazione, anzi in certuni invescamento a perdersi più profondamente. Venne dopo qualche tempo alla mia casa portandomi un manoscritto voluminoso dal titolo «Il cielo è rosso», e promisi che avrei letto. Il giorno stesso cominciai col dubbio di proseguire, ma invece lessi il libro in due giorni. Insistendo fino a notte tarda per riprendere all’alba. Alla fine gridai con gioia: — Bisogna sempre sperare.

«Il cielo è rosso», (Longanesi ed. Lire 400) è un romanzo umano e attuale è batte in pieno grande parte della letteratura italiana contemporanea. Ma prima di parlare dei pregi, sgombero subito il terreno dai difetti, che inevitabilmente vi sono, ma di secondaria importanza quasi sullo sfondo. E li denuncio anche perché siano fissati nella loro giusta misura onde evitare che invidie e ottusità non abbiano a deformarli ingigantendoli. Giuseppe Berto durante la prigionia in America conobbe la letteratura contemporanea di quel Paese ricavandone un’influenza nel dialogo, che però non disturba come in certi esempi della nostra letteratura: trovo anzi che in molti punti questa maniera innestata in un temperamento narrativo Veneto (Giuseppe Berto è di Treviso) si propaga in una vegetazione nuova, facile e saporita. Me lo raffiguro come un granoturco, che importato dalle Americhe e seminato nella nostra terra fresca e mansueta si è fatto ormai nostro con una linfa diversa da quella che i grandi fiumi e le terre smisurate gli davano alla sua origine. Ancora si può segnalare che questo romanzo fatto di una narrativa descrittiva e psicologica è più riescito in questa che in quella: una figura umana è più afferrata di un paesaggio. C’è un certo squilibrio tra queste due narrative, ma limitato o pochi momenti, mentre in altri, quando si tratta di descrivere le macerie del quartiere dove vivono i protagonisti, o l’interno dei postribolo diroccato dove abitano, allora la descrizione è potente e indimenticabile come la figurazione psicologica dei protagonisti. Ancora sono da sottosegnare alcuni episodi dove intervengono come elementi accessori i soldati americani, visti come per un’illuminazione diversa da quella degli altri episodi, che li rende come pezzi steccati inseriti, non amalgamati.

La ragione sta forse nelle condizioni ih cui fu scritto il libro. Fu scritto in un campo di prigionieri nel Texas, l’azione si svolge invece nella città natale, sentita nella lontananza, al di là dell’Oceano come attraverso una lente che la ingrandisca, che faccia di essa un solo aspetto con la patria lontana, sconfitta, distrutta, ma più ancora sentita come dall’alto dei cielo con una comprensione che è più dei trapassati che dei vivi. Pertanto la luce della città e quella che domina i protagonisti ha tutta questa tonalità data da una visione superiore, una visione che vorrei dire simile a quella che si ha nei sogni, di mondo intuito, creato nella fantasia poetica.

Giuseppe Berto da frammentarie notizie giunte in prigionia vede attraverso questa lente oceanica la città nei momenti della distruzione, vede e segue la vita dei suoi protagonisti da quel giorno fino alla fine della guerra e qualche tempo dopo, fino alla conclusione della loro pratica terrena. Ed è per questo, che in quegli episodi, dove figurano i soldati americani, che gli sono invece vicini nel campo di prigionia egli non più usa di quella lente ma si lascia trasportane a descriverli dal vero. Di qui l’impressione di sentire quegli episodi come staccati.

Da ultimo dirò che l’attualità del romanzo è cosi bruciante, da lasciar il sospetto che per non essere altrettanto densamente pregno di valore di stile abbia da avere un successo della durata dell’attualità del fatto morale che racchiude. Ma forse sono in errore. Penso all’Educazione sentimentale, romanzo pure di scottante attualità, al suo tempo, ma che supera quel tempo per la densità del valore artistico dello stile. Ma forse sono in errore e me lo auguro, perché il fatto morale del romanzo di Giuseppe Berto risulta da una creazione psicologica così profonda da rappresentare già un densissimo valore artistico, che gli dà consistenza oltre ogni rapporto di tempo.
Una città è stata distrutta durante la i guerra, nel quartiere popolare diventato terra di nessuno, cinta di reticolati, per i morti ancora sepolti nelle macerie, un ragazzo e due ragazzine rimasti i soli vivono assieme in un postribolo diroccato. Il ragazzo è capo di una banda di ladri, ma lo illumina l’attesa ideale di un grande giorno di fratellanza umana senza povertà. La ragazza maggiore è la sua amante e nello stesso tempo si prostituisce con indifferenza di lui, l’altra, figlia di una prostituta, è una sensibile bambina che sa di essere stata concepita in una casa simile a quella che abitano e di essere viva per volontà della madre che è morta, mentre tutti volevano che venisse uccisa prima di nascere.

A questo gruppo viene aggregato un giovane, scappato di collegio, rimasto solo, coi parenti uccisi dal bombardamento, un giovane borghese, smarrito che non sa come e dove vivere. Il giovane capo lo protegge, ma sente che non potrà essere un ladro, la ragazza maggiore gli corrompe la sua timida purezza, ma poi lo lascia libero all’amore nascente per l’altra. Questo gruppo di quattro ragazzi che vive tra le macerie di una città distrutta, senza vincoli morali, familiari e civici, raggiunge un’armonia morale a momenti felice data da un equilibrio delle due parti: gli uni sentono di essere degli immorali, ma che si sanno reggere nella vita dura, l’altro, il giovane borghese, sente di portare seco legata alla sua carne la morale della sua famiglia distrutta e di essere per questo un incapace a reggersi nel crollo. D’altra parte gli altri, figli della prostituzione e dei furti, sentono nel debole qualcosa che è fuori di loro, irraggiungibile per loro: la purezza; e questi sente in loro, che sono come di un’altra razza; bontà, generosità e amore verso di lui.
Al vertice dell’equilibrio quasi idilliaco delle due parti felici, la corda si spezza: il capo viene ucciso in un conflitto con la polizia. La piccola che ama il giovane borghese muore di malattia, questi rimasto solo con la prostituta tra i ruderi di quella casa, tenta di strapparla alla sua vita, ma non è possibile, ella non può più diventare un’altra. Il mondo si chiude per questo giovane: perduta la famiglia, distrutta la sua casa, la sua città, il sua popolo sconfitto, crollato, morto il giovane capo che lo proteggeva, morta la ragazzina che amava e che lo amava, non vi è più domani per lui, non vi è più ragione di vivere e nella sola certezza del nulla si uccide, regalando ad ignoti i suoi vestimenti, gettandosi ignudo da un treno in corsa sotto alle ruote. Il sorprendente di questo romanzo è di avere centrato la tragedia di questa gioventù d’oggi che si trova vecchia a diciotto anni, che in pochi anni ha bruciato tutta la vita, impotente a crearsi nuove illusioni. Tra le macerie di questa città e nel crollo di un popolo sorge tuttavia la bellezza di un accordo tra le due morali di due classi sociali diverse e opposte, ma dura un attimo come lo splendore di un fiore.

Con questo romanzo incomincia quella letteratura romantica e sentimentale che ho preannunciato come necessaria alla determinazione di schemi umani agli uomini d’oggi che da mezzo secolo una letteratura per diletto ha estraniato.
Missione del romanticismo è di fare credere in un’illusione, che è come una nube su di un abisso, e, scomparsa questa e rivelato l’abisso, indurre a una sensibilità esasperata per quella illusione che è tutto il sangue della vita.
Solo nell’affermazione di questo schema a mezzo dell’arte avremo un rinnovamento umano perché la consapevolezza dell’abisso come base della vita porta ad aggrapparci alle illusioni con un rigoglio di sentimenti a ingrandirle nella disperazione di dare loro consistenza durevole, mentre i dilettevoli schemi limitati agli istinti hanno fatto degli uomini non belve, ma pietre, sorde a ogni sentimento umano, nemici della vita, negatori della vita, che è sì nulla, ma è anche tutto e un tutto enorme se viene schematizzata in un’illusione costruita da sentimenti.

Ecco dunque un romanzo romantico e va salutato con gioia. Noi possiamo incora sperare nell’abisso della vita, di questa vita, perché questi quattro giovani hanno realizzato un’Illusione nella città distrutta le hanno creduto vibratiti di sentimento umano, e l’hanno vissuta, per questo noi possiamo ancora sperare, anche se loro non sono riesciti a sperare più.
Giovanni Comisso

Pubblicato il 19 aprile 1947 sul “Corriere Lombardo del mattino”.

Immagine in evidenza: Locandina (part.) del film “Il cielo è rosso”, 1950, diretto da Claudio Gora, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto.

Share