La piccola Parigi indocinese - Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

La piccola Parigi indocinese – Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Il monsone di nord-est arricciava di spuma il mare. Una grossa giunca cinese a tre alberi, con le sue vele ad ala di pipistrello, filava impavida al di là degli Stretti. Poi il promontorio di San Giacomo apparve brunastro e tutto definito nelle sue pieghe. Qui Imboccammo un ramo del grande fiume Mekong. Da una parte e dall’altra, oltre alle rive boscose vedemmo distendersi sterminate risaie e di tanto in tanto spiccare piccole capanne sistemate come pollai sull’alto degli alberi; nel silenzio vibrava il suono di voci nascoste.

Dopo circa novanta chilometri di navigazione, oltrepassate le paludi saettate dal sole, si arriva a Saigon, una nitida cittadina francese, sede del Governo generale dell’Indocina. Ogni razza porta con sé nelle sue colonie la struttura e le abitudini della propria capitale. A Singapore in certi angoli vi sono autentici frammenti di Londra: una casa gotica di mattoni rossi, sotto il sole equatoriale, già vista vicino a Hyde Park! Qui la pianta della città è in più luoghi una miniatura di Parigi. Ecco una Place de l’Opéra che può essere contenuta più volte nell’originale.

Le Théâtre Municipal (Unknown author)

Place de l’Opéra in miniatura

Il teatro isolato, un’Avenue con tre file di fari di fronte, e in fianco a destra, proprio come a Parigi, un grande caffè con sedie e tavolini di fuori, all’ombra delle tende e degli alberi, come il Café de la Paix. I Francesi si sono portati dietro tutto il loro bagagliaio di buoni e pratici borghesi. Una grande e fornitissima libreria, degna del boulevard di Saint-Germain, coiffeurs a ogni passo, brasseries, modisterie, chambres meublées e una bella schiera di scelte venti vendeuses eleganti. L’aria odora di Coty. Quello che manca è il popolo di Parigi. Questo è rimpiazzato da Cinesi e da Annamiti. Ma quale differenza tra Francesi e Inglesi come colonizzatori. Negli uffici pubblici e privati e nei negozi si possono vedere tre, cinque o sette bianchi occupati rispettivamente a dirigere sei, otto e dieci indigeni, là dove un solo inglese, e quasi sempre invisibile, era appena necessario per un minimo di dieci. Anche tre Annamiti che buttano ghiaia su d’una strada hanno la lussuosa sorveglianza d’un bianco. Le strade sono ottime in città, ma un po’ fuori si fanno scadenti.

Vue de l’agence Citroën de Saigon (Indochine française. Aéronautique militaire, 1930)

Tuttavia la Francia, in questa ricca colonia da cui esporta riso inesauribilmente, non ha mancato di profondere denaro per imponenti opere pubbliche, come per la Strada Mandarino, che unisce il nord col sud della Colonia e la Cocincina al bellicoso Tonchino, provincia del nord da poco sottomessa e tuttavia pullulante di associazioni segrete e di banditi che assaltano le diligenze. Sul Mekong sono stati pure costruiti mirabili ponti di circa un chilometro. E nella costruzione dei migliori palazzi pubblici e privati di Saigon si sono distinti insuperabilmente alcuni appaltatori italiani. Una linea ferroviaria si estende lungo la costa fino alla Cina; per le comunicazioni con l’interno servono i fiumi, per i quali scendono le grandi chiatte colme di riso. Manca il congiungimento ferroviario con la rete del vicino Siam: un progetto è stato compilato dall’ingegnere italiano Enrico Serra e l’esecuzione è molto probabile. La colonia italiana nell’Indocina è piccola, ma distinta e laboriosa, guardata con vigilanza dal blocco serrato dei coloni còrsi e metropolitani. Tuttavia le nostre merci hanno un promettente avviamento. Sulla banchina del porto sono numerose le automobili, di fabbrica italiana, incassate. Un forte numero di indigeni coltivatori di riso si distingue per la grande ricchezza, e quando il raccolto va bene costoro non badano a spendere.

Tuduc – Maison commune (Unknown)

L’anniversario della rivoluzione

I principali banchieri del luogo sono i famosi indiani Chetty, che prestano all’amabile interesse del 18 per cento. E le loro belle case, dipinte di fuori a colori vivaci, con brevi logge, e cinte di muricciuoli, si distinguono come luoghi sacri.

Il popolo cinese è in festa. Il ventinove di gennaio è l’ultimo giorno del loro anno. Del diciottesimo anno dalla Rivoluzione. La festa dura parecchi giorni. Ogni casa si adorna di fiori e di bandierine. Risalgono il fiume barche piene di fiori. Anche le capanne più misere portano appesi sull’atrio della porta palloncini, fiori di carta e strisce rosse con diciture di questo genere: «Il bene viene dall’onestà e dalla sincerità». Le barche e le grandi chiatte, dove sotto alla tettoria di stuoie abita la numerosa famiglia del barcaiuolo, sono pure adorne, e dalle finestrelle si vedono donne affaccendate a spennacchiare anitre e a condire riso. Le strade dei mercati sono animate come le nostre per la medesima festa. Tutti fanno compere. Negozi e negozietti infiniti, tavole imbandite sulle strade, brusio di voci e continuo ticchettio di zoccoletti, di tanto in tanto sopraffatti dagli scoppi delle castagnole accese per scacciare dagli ingressi delle case gli spiriti maligni. Sono i ragazzi che si divertono. A mezzanotte è tutto uno sparo. E alla mattina i pezzi dei cartocci rossi della polvere sparsi sul selciato, sotto gli alberi del viale, fanno pensare ad un’improvvisa caduta di petali.

In questi giorni di festa vestono tutti a nuovo. Gli uomini una specie di pigiamino bianco dalle maniche a campana o di seta nera cerata, e in testa, vivamente discorde, un cappello di feltro europeo calato sugli orecchi. Oh! molto più bello quello a cono fatto di foglie secche, usato da quelli che tirano le carrozzelle.

Femminino annamita

Nón tơi và áo dài (Vietcuongdao)

Le donne annamite tengono il capo ravvolto in un fazzoletto annodato sotto il mento, come usano le contadine del Cadore, una tunica di raso violetto o rosa o verde scuro che scende fino al ginocchio e pantaloncini. Sono piccole donne, bigie di pelle, dagli occhi dolci, dal naso schiacciato, col quale danno i loro baci come per un lieve estro di fiutare la pelle dell’amato. Il primo giorno dell’anno eccole in carrozzella, minute, impassibili ed eleganti sotto all’ombrellino rosa attraverso a cui filtra sul loro volto la luce verde diffusa dalle fronde del viale. Sul fiume strisciano le barche dal felze arcuato di stuoia: un vogatore a prua ed uno a poppa. Cappello a cono e lembi leggermente mossi dal vento nella lena del vogare. Le figure si disegnano flessibili. Si ritrovano le immagini delle usate porcellane azzurre. Un grande avvoltoio rossastro plana sulle acque sporche. Ma una cosa non si credeva di poter tanto facilmente vedere da queste parti. Nei templi cinesi di Singapore un grande demone raffigurante il vento del Nord calpesta con bile l’assassino e il fumatore d’oppio. Il Governo della nuova Cina, almeno apparentemente, proibisce con severe leggi lo spaccio del sonnifero. Ma qui in questa Colonia francese è invece apertamente permesso. In rue George Guynemer le fumerie si susseguono una dopo l’altra con l’insegna dorata in cinese e in francese. All’ingresso, dentro a uno sgabuzzino protetto da inferriate come lo sportello d’una banca, v’è un omino pallido e sorridente che tiene davanti a sé ordinate conchiglie di porcellana con la pasta color caffè. Dietro, sulla parete, stanno appese come flauti o armi, le nere canne cerchiate d’argento che servono per fumare. Allettevoli gesti e immediate spiegazioni. Nell’interno vi è uno stanzone con due lunghi pancacci, uno da una parte, uno dall’altra accosto alle pareti, come in un corpo di guardia; gente distesa e una lampada a spirito col tubo di vetro accesa accanto.

Vietnamese opium smoker’s (Uncredited photographer)

Lo stanzone dei sognatori

L’odore dell’aria è acre. Entrano uomini stanchi. L’oppio dà il sonno e nel sonno immagini gradite. Ingannevole ristoro, il cuore si affìevola, il volto impallidisce. Sono in massima parte facchini e quelli che notte e giorno trottano tra le stanghe della carrozzella. Petti incavati, occhi sbiaditi, e volti con le guance contratte simili a teschi. Si distendono sulle panche, appoggiano la testa al grosso cubo di ceramica che serve da cuscino. Il garzone porta il necessario. Con frenesia ognuno si prepara la pipa da sé. Tremano le dita sottili e adunche come artigli. Colgono con una verghetta un po’ di pasta, la riscaldano al calore della lampada e la depongono in un piccolo incavo a metà della canna. Aspirano e il fumo si diffonde abbondante come su da un incensiere e li avvolge. Gli occhi diventano lustri. Ripetono. Poi le membra si abbandonano. Disciolgono le gambe accavallate l’una sull’altra. Un braccio si distende lungo il corpo. La pipa cade dalle labbra. Gli occhi si socchiudono. Si rimuovono: un brivido come un prurito passa sul petto, ad occhi chiusi si grattano lenti, la mano si ferma, le dita pendono immobili. Dormono. I garzoni ritirano le pipe; e le lampade dalla debole luce, come vecchie lampade a petrolio, come lumicini su le tombe d’un cimitero, rimangono accanto ad ognuno a rischiarare il volto impietrito dentro a cui si dischiudono i velarii sui mirabili incanti.
Giovanni Comisso

da il Corriere della Sera del 22/03/1930

Immagine in evidenza: Down The Mekong River (Visions of Domino)
Tutte le immagini: fonte Wikimedia Commons

Share