La techné di Giovanna Frene

La poesia di Giovanna Frene è il luogo – sì! è un luogo! – dove pensiero e parola si incontrano, nella certezza della perfettibilità di entrambi, e nella certezza – una seconda – che la parola si approssima al pensiero. Questo luogo è ampio quanto la Storia, quella con la maiuscola, e non può essere altrimenti: Giovanna Frene ha bisogno di percorrere la Storia, indagarla, per ricostruire le trame della vita stessa, che non è certo lineare.

L’etica della e nella storia è la poetica di Giovanna Frene sin dagli esordi; ma mai come questa volta, in quest’ultima raccolta, Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago Itaca, 2015), il dialogo è così sentito. Bisogna scavare nella storia, sembra dirci la poeta! E non è un semplice invito: è un monito, è un ordine etico preciso. Perché, non neghiamocelo, dimenticare sappiamo cosa significhi; non interrogare la storia sappiamo cosa comporti.

E se l’Occidente riportato sin nel titolo affonda, affonda proprio perché non ricordiamo, non interroghiamo. Demandiamo.

Ecco perché è necessaria una tecnica per sopravvivere. Giovanna Frene ha trovato la sua strada nella riflessione attraverso la poesia, ossia quella forma d’arte che riflette sulla parola quanto la filosofia ma in modo diverso, a volte contrario alla logica. Ma è necessario scardinare ciò che appare logico (lezione ereditata dalla frequentazione come lettrice e come amica di Andrea Zanzotto) sin dall’individuazione di crepe nella lingua:

si sovrappongono come separazione naturale e mutabile,
approfittano della scissione scindendo, ma tutto è già avvenuto:
frattura misura solo frattura, circoscritta all’intero pavimento
chiamando potere la rovina del tempo. piove.
o non piove, se la pianta della città è la carta
del mondo, se la radice è nemica alla radice, che è.

Viene recuperata così dalla Frene l’idea di una manifestazione della storia per “barlumi”, come fu per Giovanni Raboni, nella quale si innesta pure la lezione zanzottiana (da Galateo in bosco in poi): una sorta di crasi per la quale la storia si manifesta a punti illuminati nell’immensità di una zona opaca (definita con questi termini dalla nostra poeta nella riflessione, Storia come allegoria, che segue le poesie).

Il nodo centrale è dato dalla definizione di storia e dalla sua necessaria proiezione verso il futuro, per non isterilire ogni discorso; per non renderlo un nulla di fatto; per non rendere vano il passato. Ed è un po’ come se si fosse proceduti alla stesura di un romanzo storico, non di stampo manzoniano. No! qui, di poesia in poesia, ci si rende conto di come la storia conosciuta sia il terreno dal quale far emergere il taciuto, il non raccontato; sicché paradossalmente all’invenzione poetica spetta il compito di dare voce alla verità taciuta delle vittime, per esempio.

Vale anche per Giovanna Frene perciò la definizione data da Anna Mara Curci alla poesia di Francesco Filia e alla sua ultima fatica, La linea rossa: una “restituzione linguistica della storia” in poesia, quella restituzione che ormai non pare più possibile per altre vie, sempre più inficiate da letture di parte che vanno ben oltre al fatto, incontestabile, che la storia sia pur sempre scritta da vincitori:

inimmaginabile il pericolo del fango, non se ne parli.
esige, una mappa, il secco materiale, seguire
l’avanzata se è rapida, e più rapida ancora la traccia
se disegna in anticipo la falsa coincidenza, che
conta, si sovrappone, sembra collimare:
non piove, ma non è mai così.

Ed ecco qui che emerge la stratificazione, la sovrapposizione di materia – ogni materia – che fa tracimare tutto e rende impossibile il riconoscere, il riconoscersi come cellule della società, come individui. E proprio attraverso questa stratificazione materica si comprende pure l’assenza di un io ipertrofico, così comune ormai a certa poesia contemporanea: l’io è ammesso perché – ma forse ‘solo se’ – parte del tutto possibile. Nessuna concessione al lettore nel facilitargli la strada alla comprensione, perché non è questo che preoccupa l’urgenza poetica di Giovanna Frene: spetta alla parola tentare la strada (e la parola è logos), trovare la tecnica, osare ogni forzatura dell’allegorismo e del linguaggio metaforico (Dante è più contemporaneo di quel che non si creda quando ci si trova innanzi questa poesia, e con Dante intendo tutti i poeti che nel fiorentino si sono riflessi nel corso del Novecento).

L’urgenza nella Frene mi ricorda – non me ne vogliate voi che leggete, non me ne voglia lei per prima – la medesima urgenza alla base del discorso storico di Tommaseo nel suo tentativo di offrire un’alternativa al romanzo storico in generale, e non solo a quello di stampo manzoniano, ossia dare voce a quanti la storia documentata ha tolto voce: ai protagonisti maggiori o minori non documentati, a chi ha vissuto la storia. Certo, al letterato dalmata premeva ricostruire i sentimenti della storia in un tentativo di restituzione dei valori positivi e progressisti insiti nell’idea stessa, tutta ottocentesca, di storia.

In Tecnica di sopravvivenza il ruolo della storia si spinge, come già detto, nel territorio dell’allegoria assoluta, sicché la Grande Guerra e, in essa, la partecipazione del nonno assumono tutta la valenza simbolica di una tale (non)ricostruzione: i fatti, gli eventi, gli accadimenti, tutto partecipa alla dissoluzione perché la storia stessa è parte della dissoluzione: la storia, in sostanza, nulla insegna; la storia si ripete nei suoi errori/orrori.

Ciò che «affascina sempre di più» la Frene nella sua riflessione è «cercare di capire davvero la natura della traccia di ciò che ci arriva di questa dissoluzione»; una fame di sapere di chi sa come «nel gorgo dell’oblio si sia tutti destinati a cadere». La poesia, in sostanza, raccoglie in suoni e con maggiore accuratezza in parole ciò che al poeta arriva dal passato (Storia come allegoria).

Si fa più alto perciò l’appello etico proprio mentre si abbassa, per esempio, la lingua quando si parla di un altro primo caduto (ché non esiste solo quello sereniano); si mantiene alto per elevarsi ulteriormente quando è il tono quasi epico quello che assume la poesia, tono epico per i non-eroi anteposti agli ‘eroi’ di quella storia che tutti noi conosciamo a grandi linee, ma che non è la Storia così come ora è intesa dalla Frene.

È facile così convincersi di come l’attualità di Dante risieda proprio nella concezione, tesa e armonica come una corda di violino, di una poesia che sappia unire etica ed estetica nel dare voce a chi voce non ha avuto.

Tornano perciò alla mente i nomi dell’Enzensberger di Fine del Titanic e della Bachmann di Tutti i giorni (Alle Tage): il primo perché nella fine del mondo annunciata nella sciagura del Titanic dà voce alla fine quotidiana del mondo, per piccole e inesorabili dosi; la seconda perché «la guerra non è più dichiarata,/ ma proseguita» (trad. di A.M. Curci).[1]

La scelta linguistica è una scelta di campo nella poesia della Frene: parte da un espressionismo in grado di materializzarsi storicamente per ragionare, con i mezzi della poesia e la prodigiosa – nei tratti felici – unione di procedimenti logici e analogici, sulla tragedia che si è manifestata cento anni fa, quella Grande Guerra dei ‘nostri’ nonni; perché pure il mio nonno paterno è stato il mio testimone, la mia finestra su quegli eventi, come lo fu il nonno della Frene. E allora mi torna alla mente anche Patres di Anna Maria Curci (da Nuove nomenclature e altre poesie) che in pochi versi si fa epifania per singulti, strappi, continui di quella stessa storia, anche se semplicemente evocata come Geist. Lo spirito della guerra e lo spirito della storia.

E allora è ancora più chiara la forza evocativa dell’immagine offerta da quei «denti digrignati», della poesia Bronzo di Augusto Murer (riportata più sotto), nella quale si specchiano, si (in)frangono perché «più digrignati di altri», la «bocca digrignata» della ungarettiana Veglia e le «bocche infrante» di Grodek di Trakl.

Le allitterazioni in questo componimento della Frene hanno una tale gamma di modulazioni che non lasciano spazio al dubbio di ritrovarsi innanzi a un gioco fine a sé stesso; l’espressionismo linguistico conduce allo scavo, all’andare a fondo nella forra che incapsula e chiude la «poltiglia», perché la Frene sa andare alta, sa procedere e sa che deve misurare il respiro, perché si inerpica sulle mulattiere del fronte alpino, e nel contempo si cala con corde di uso non immediato nelle caverne e nelle grotte carsiche di memorie, radici, scheletri delle cassapanche di famiglia.

La techné di Giovanna Frene è una solida risposta dantesca e umanistica al pensiero heideggeriano.[2] È un compito non semplice, perciò, quello che ci si è assunti con questa nuova raccolta: quello di indicare una via diversa, antitetica e autentica, a quella poesia che esautora il linguaggio per ridurlo a pura rappresentazione di sé, a qualcosa di meramente concettuale e spesso troppo eclettico anche per un’arte, com’è la poesia, posta sempre ai margini. No! ciò che Giovanna Frene ha intrapreso è un percorso che conduce a una strada maggiore di cui Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda è la prima tappa.

[1] Non poche considerazioni sulla poesia di Giovanna Frene contenute nella seconda metà di questo contributo sono il frutto di un proficuo scambio con Anna Maria Curci, cui va tutta la mia riconoscenza e gratitudine.

[2] «L’essenza della tecnica non è nulla di tecnico» (cfr. Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik (1954), tr. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 27.

Sentieri partigiani sul Monte Grappa
(quattro testi sul dubbio della memoria)

  1. Bronzo di Augusto Murer

monumento ai denti digrignati, che non sono tutti uguali: ci sono

denti più digrignati di altri, la lirica di massa, informe, poltiglia:

denti paterni e superiori VS denti figliali e inferiori

denti allineati e solari VS denti aspri e intricati

– e non hanno identica Patria, o non sono per la Patria uguali denti?

a morsi, a frammenti mai ricomposti il basso striscia proteso in alto

legato sopra la porta stretta, estrema retta di coraggio,

retta anche la posta in gioco – sì,  ma a quale tavolo?

non si ricorda una memoria, che è così con-divisa

anche così si rimuore e solamente

ma anche così il morire è sotto sotto

solo un morire

  1. A colui che per primo uscì, ferito, dalla galleria di famiglia

inizia da qui la fine del sentiero, con un colpo di fucile, ma a fine gara:

per il primo che esce dalla galleria un premio eterno, la lapide

invece è temporale, all’imbocco del tunnel sul Monte Frontal

…cambiarla, e non c’è occhio che non guardi più la vita, colpito busto:

una condanna verosimile seppellita come la bottiglia di un naufrago

sgomento di fronte all’effettivo costo di disvelare questa verità

che spesso è colpita anche nell’immagine, nella forra, in fondo

anche col segno è giusto perseguire ogni nero di qualcosa, tra fibbie

d’argento e orbite più scure della stoffa, che non ha mutato colore: non può

esistere pietà per tutti i morti perché uccisi

anche se il morire è solo il morire

le colpe strattonano solo i piedi colpevoli

[in memoria di Aldo Torresan, 19 anni. Scrivo il tuo nome per ricordare il tuo essere]

III. Simulacri di libertà o della patria sbagliata

Dal punto di vista degli assassini, le immagini di tortura valgono probabilmente come uno scudo iconico contro un nemico invisibile.

(H. Bredekamp, Immagini che ci guardano)

diviene egli stesso immagine, di sé, il corpo morto, e appeso: un monito oscuro

contro un chiaro preavviso che niente può più durare, e che

“questo non è un bandito” solo perché non lo è proprio

mentre chi attesta che il duro fatto è riconosciuto, ma dalla

parte avversa – qualcuno glielo faccia presente (al Ben) questo

passato che si invera ogni volta che per l’Italia si muore invano:

dietro al nome di ogni partigiano non c’è il “PRESENTE” di un museossario,

ma solo una pietra di montagna, o una fredda perifrasi

di pelle che cigola di notte a vuoto

nei viali percorsi dal vento, e non cambia

questa morte che è solo una morte,

la morte non cambia per niente

  1. Il massacro del Monte Grappa

(…) Poche raffiche bastarono per uccidere n. 4 banditi. (…) Una nostra pattuglia

prende prigionieri n. 5 individui nascosti nel bosco di cui uno confessa

d’essere stato il barbiere dei banditi. Pernottamento.

: morti che la terra deserta non salva, da quei passati scoppi

non arriva più un cammino sotterraneo, ma un pullulare

scoperto e dal lato opposto, infine a cerchio, a morsa

: morti che la morte non salva, perché non serve, e se non altro

voi, che avete resistito credevate come i vostri padri, non avevate padri,

non erano quelli, forse, i vostri padri, pietre dure,

non questa, la vostra Patria ……………………

: noi non avremo il vostro perdono

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