“Porto Marghera. La vocazione di San Matteo” di Alessandro Cinquegrani

Porto Marghera. Cento anni di storie (1917-2017)

Porto Marghera è una piccola cittadina con un’imponente storia industriale, nel bene prima e nel male poi celebre in tutta Italia. È stata fondata cento anni fa allo scopo di sostenere demograficamente lo sviluppo industriale quasi immediato. Il polo petrolchimico con tutto l’indotto occupava migliaia di persone. Quasi tutti gli abitanti nei dintorni hanno una storia legata a quel polo. E quella storia è diventata più tardi una sequela di colpe, di delitti, silenzi, rimozioni, omissioni, che hanno deturpato un territorio dal fascino postmoderno e quasi irreale, in cui l’industria sorgeva sul mare di fronte a Venezia. Per ricordare queste storie Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron con la complicità della Helvetia Editrice raccolgono la voce di 17 scrittori e giornalisti, ai quali chiedono di costruire delle narrazioni su quanto conoscono di quel luogo: non storia, non saggi, ma racconti e poesie. Ne è uscito il libro Porto Marghera. Cento anni storie (1917-2017) con testi di Beatrice Barzaghi e Maria Fiano, Nicoletta Benatelli, Gianfranco Bettin, Ferruccio Brugnaro, Annalisa Bruni, Alessandro Cinquegrani, Marco Crestani, Maurizio Dianese, Fulvio Ervas, Roberto Ferrucci, Paolo Ganz, Gianni Montanaro, Massimiliano Nuzzolo, Tiziana Plebani, Gianluca Prestigiacomo, Sergio Tazzer, oltre alle sentite testimonianze dei curatori. Si riporta qui sotto un breve estratto del racconto di Alessandro Cinquegrani.

“Porto Marghera, Cento anni di storie (1917 – 2017)” Helvetia

“La vocazione di San Matteo” di Alessandro Cinquegrani

Sente l’odore brunito di caffè invadere la stanza, ma ancora non si alza. Aspetta Elvira tra le calde mucose delle lenzuola. Verrà a “svegliarlo”, come dice lei, dal suo torpore, non appena la casa sarà sufficientemente calda e il caffè fischierà sul fuoco. È una dolcezza che non vuole farsi mancare, da quarant’anni, anche se è sveglio da molto, se la spina della coscienza gli ha pungolato il sonno anche quella notte. “Su, è ora”, gli dice, alzando un po’ la persiana da dove entra una semiretta di luce tesa, metallica. Si china su di lui e gli dà un bacio. Non sembrano due anziani, la schiuma dell’abitudine non ha mai attecchito con loro, nonostante tutto. Dal 2 gennaio del 1974 (“perché vi siete sposati in inverno?” “Perché no?”).

Prendono il caffè. Parlano dell’ondata di gelo dai paesi nordici. Perché lamentarsi tanto, dicono, in fondo è inverno. Eppure a lui piace ancora quel freddo pungente che deposita a terra l’umidità della Laguna. Lo percepisce sulla pelle come un’agopuntura mistica, lo fa sentire vivo.

Elvira gli ha preparato il vestito marrone a quadri. Quella mattina, come tutte quelle mattine, indossano l’abito da festa, come quando vanno a messa, la domenica, nel ciclope indifferente di San Michele Arcangelo in via Fratelli Bandiera, l’ultimo confine prima del Petrolchimico.

Al reparto radiologia dell’Ospedale dell’Angelo li conoscono tutti. La Giuliana gli parla sempre con voce troppo alta, troppo allegra, per metterlo a suo agio, mentre si spoglia e indossa il camice. Gli chiede della sua nipotina, è come se la conoscesse, ormai, Bianca, coi suoi piccoli occhiali viola, la nuvola di capelli in testa. Sua moglie le mostrerà una foto dal telefonino, dopo, quando avranno finito, lui non è bravo con quelle diavolerie.

Si sdraia. Il lettino entra in quell’utero meccanico, ha un senso di repulsione e di tenerezza, ogni volta, un sapore acido che gli risale la lingua. Un fascio di raggi X gli penetra il corpo, supera la pelle come un fantasma attraversa i muri, si appoggia agli organi, si sposta, li penetra, i muscoli, le vene, il sangue. Dentro di sé ha un esercito di microparticelle, che gli dà un’insensata voglia di piangere a singhiozzi. Ma è un attimo soltanto, presto riprenderà a parlare con Giuliana, raggiungerà Elvira, fuori.

Vanno a prendere il cappuccino e la brioche al bar dell’Ospedale, come sempre. Come sempre, i loro sguardi s’incantano nel vuoto, come pietrificati, nel pensiero dell’attesa. Come sempre dicono qualche parola sulla struttura del nuovo ospedale, su quelle vetrate enormi come faglie di rocce metamorfiche cresciute per emersione dal sottosuolo. Parlano dei costi del riscaldamento – pensa solo a quello, dicono. Che hanno paura, invece, non se lo dicono. Eppure, ogni volta, quel giorno, ogni sei mesi da almeno trent’anni, Elvira ha le gambe che tremano. Ha un bel dire che in fondo alla loro età sono arrivati, che Franco sta bene ancora, che le sta a fianco, che gli altri sono morti giovani, nello strazio, che il cancro al fegato è una brutta bestia, ha un bel dire che in fondo, anche così, sono stati fortunati, che chiedere di più sarebbe perfino egoista. Lei, a Franco, vuole ancora bene, e che possa morire per questo o per altro, ancora non ci vuole pensare.

Alle 11.32 sono già di fronte alla porta del Dottor Lorenzi, l’appuntamento è quasi mezz’ora dopo. Ma preferiscono i discorsi degli altri ai propri, della gente in sala d’aspetto che racconta i malanni veri o inventati, preferiscono annuire senza ascoltare, di tanto in tanto improvvisare un’espressione stupita per cortesia. Il problema è che Franco pensa a cosa hanno provato gli altri, il Coda, Facchin, il Cìpite («no ti xè Bi-cipite, ti xéCipite e basta, ti, e anca manco»), Sandron, quando gliel’hanno detto. Si chiede cosa sia rimasto, in quel punto, nel punto in cui il medico pronuncia le parole “angiosarcoma epatico”, che cosa sia rimasto di quel lavoro minuscolo e maiuscolo di cui andare orgogliosi, quel pasto caldo da offrire ai bambini, la sera. Lui non lo sa.

Quando entrano il Dottor Lorenzi sorride, si alza dalla poltrona e li prega di accomodarsi, mentre cerca le carte. Elvira prende una mano di Franco nella sua e le appoggia sulle gambe di lui. Sente i polpastrelli stringere. Ogni sei mesi il processo, la sentenza, l’assoluzione immeritata. – Ecco qui – fa il dottore sedendosi – che dire? – dice muovendo la testa da uno all’altra, come a contraddirsi con un diniego allegro, esultante – Il nostro Franco è una roccia!

Elvira si volta verso di lui. Ha già gli occhi rossi, in un attimo, come sempre, a estrovertire il sentimento, come solo lei è capace. Lui, invece, è colto sempre di sorpresa dal disagio, come se non se lo aspettasse, come non fosse, ormai, routine. Lorenzi spiega che Franco dovrebbe essere quasi un caso di studio. Anni a scrostare il polimero nelle autoclavi, anni a faticare, con forza, e inalare veleni in quel ventre mefitico, ed è sano come un pesce, dice. Sano, si ripete Franco, ancora.

Quando escono Elvira è raggiante. È ancora bella nella sua dignità di anziana, pensa Franco, coi suoi capelli grigi, portati con una franchezza inusitata, quella schiena dritta, quella magrezza tenue dei tendini molli. Lo tiene stretto per il braccio sinistro, “ce l’abbiamo fatta”, dice, come se fosse un merito. Attraversano la grande scacchiera di luce dell’atrio lucido dell’Ospedale, scendono nel sotterraneo e prendono la macchina. Quel nido metallico scivola via tra i prati, custodisce i loro segreti, la loro distanza.

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