Vicolo dell’immaginario. Intervista a Simona Baldelli

Lo sguardo di Amalia si perde nel profondo del letto del Tago, così come Clelia non poteva non fermarsi ogni giorno a rimirare le acque dell’Enza.In una scrittura fluida, Simona Baldelli affronta temi importanti come il rimpianto e il rimorso; non i abbandona mai alla banalità e consente a lettore di entrare sulla scena, come se i personaggi si trovassero di fronte, a parlare in cane ed ossa. L’intuizione del dramma vissuto da ognuno dei personaggi consente di apprezzare una narrazione snella. È liquido il tempo della narrazione, sono intrecciati i piani spazio-temporali, è unico il racconto senza soluzione di continuità, in una climax di coinvolgimento emotivo e acquisizione di consapevolezza del sé. Incontriamo due donne, due anime complementari, una, Clelia, incatenata dagli obblighi familiari, dai sensi di colpa e dalla solitudine del suo grido inascoltato, zittito da lei stessa; l’altra, Amalia, libera da ogni vincolo, in una assolata e bellissima Lisbona, povera, dalla quale tutti scappano ma che lei sceglie. Amalia è sempre accompagnata da una piccola ombra che le giocherella intorno ai piedi, che si emoziona con lei. Le vicende si snodano in un arco temporale ben delineato, di circa venti anni, tra stragi collettive e rivoluzioni pacifiste.Gli uomini sono degli interlocutori e la riflessione è declinata al femminile: il lavoro, i diritti, l’emancipazione, il percorso verso l’autoconsapevolezza. Amalia decide di svolgere due lavori per mantenersi: uno come badante alla mattina di una donna molto anziana che sembra incaponirsi a restare in vita in attesa di una promessa, e un secondo come cuoca in un’osteria a Beco do Imaginário. A gestire la locanda c’è Tia Marga, una donna, con un destino più grande, che prepara casse e casse di baccalà per il rito della nebbia.

Amalia “non riesce a capire come si possa sopravvivere sotto il fiume, ma lei stessa sta respirando vapore e nella luce d’oro di Vicolo dell’Immaginario, tutto è possibile”.

Intervista del 27 febbraio 2019

Come nasce ‘Vicolo dell’Immaginario’?

Vicolo dell’immaginario nasce perché qualche anno fa due amici, lei cantante, lui chitarrista mi chiesero una cornice, un contenitore, un filo per cucire uno spettacolo che avevano in mente. Stefano suona qualsiasi cosa abbia delle corde, Isabella canta musica popolare di tutto il Mediterraneo, anche antica, con una particolare predisposizione per il fado. Era l’inizio del 2014 e ricorrevano i 40 anni dalla ‘Rivoluzione dei garofani’ e il ventennale della pubblicazione di Sostiene Pereira. Ho suggerito loro di pensare a qualcosa di ispirato al testo di Tabucchi, che già contiene al suo interno ovviamente il fado, la canzone popolare italiana, in particolare quella napoletana, per la presenza di Monteiro Rossi che la canta alla festa, quando conosce Pereira e poi ci sono anche gli echi della cultura ebraico-sefardita dati dalla signora senza una gamba che Pereira incontra: ecco praticamente la tessitura dello spettacolo.

Loro, entusiasti, mi chiedono di aiutarli a realizzarlo, facendo la riduzione del testo di Tabucchi.

Mettiamo quindi in scena questo piccolo spettacolo di parole e musica, dal titolo ‘Venti garofani rossi’ e la sera della prima mi vien detto, prima che andassimo in scena, che in platea c’era seduta la signora Jose Maria Lancastre, la vedova di Antonio Tabucchi, la quale era di passaggio a Roma.

Diventiamo buone conoscenti. Qualche mese dopo ho l’opportunità di rivedere la signora Lancastre a Pisa dove noi eravamo stati chiamati con lo spettacolo ad un congresso di lusofoni al quale la signora, che è anche traduttrice, partecipa e lì conosco una ragazza di Livorno che ora vive a Lisbona, Clelia, anche lei impegnata all’archivio Tabucchi. 

Sia Clelia che la signora Lancastre avevano letto Evelina e le fate e quindi per l’immaginario, le fate e per tutto il resto Clelia mi invitò, come sua ospite, a visitare Lisbona. Io riuscii a recarmi lì solo dopo più di un anno, nel settembre 2015.

“Il giorno sorge dietro il promontorio e scivola sulla lastra d’acqua: Lisbona si copre di squame bianche, una montagna di sale, che taglia e ferisce lo sguardo.  Un coltello di luce le colpisce il viso. Il sole, sopra la città, ha vittoria facile, acceca, ricaccia le persone al chiuso delle mura e cancella le ombre…”

Il primo elemento che trovo è questa Lisbona che scoppiava di sole, non so il 25 o 26 di settembre del 2015, ma c’era ancora una temperatura e io avevo perso gli occhiali da sole a Fiumicino e sono arrivata in questa città inondata di sole con le strade bianche, i muri bianchi, laddove sono ricoperte di solenge, piastrelle e maioliche quindi era tutto un luccicore, tanto da dover rimanere con gli occhi coperti, con le mani sugli occhi fino a che non mi sono ricomprata gli occhiali e forse era, non so, la vista offuscata o non so, ad un certo punto ho visto attorno a me un alone di nebbia e quindi ho chiesto a Clelia come fosse Lisbona con la nebbia.

“…era una storia del 1500, figurarsi. Il tipo, Sebastiano primo, aveva detto la ragazza allungando la parola, era morto in guerra ma il corpo non era mai stato ritrovato. La nonna lo attendeva ancora, e con lei migliaia e migliaia di portoghesi, perché quella era una malattia collettiva…”

E lei mi domanda sei anche io fossi malata di sebastianismo. Lì per lì non capisco, poi mi ricordo degli echi di Pessoa e capisco a cosa facesse riferimento, tuttavia non era quello, non capivo perché d’un tratto mi fossi ritrovata in mezzo alla nebbia. Qualche giorno dopo sono sull’eléctrico, probabilmente il 12. Ci stiamo avvicinando alla Calçada de Santo André, una strada in salita, che si restringe. Ad un certo punto un piccolo veicolo occupa i binari del tram e il tram ferma.

Aspettiamo un po’, aspettiamo ancora n po’ e il tranviere apre le portiere del tram, scendiamo e io finisco entro quella cosa che nel romanzo chiamo ‘un buco fra le case’ perché sarà stato lago un metro e mezzo, forse profondo due metri, una casa, una parete sulla sinistra, una sulla destra, di fronte a me un muro e quindi vedo queste minuscole porticine, dentro questa specie di muro, alzo gli occhi e leggo la targa e c’era scritto ‘Beco do immaginario’ e penso a ‘Vicolo dell’immaginario’: un titolo meraviglioso per un romanzo!

Subito dopo io mi vedo circondata da figure che cominciano a raccontarmi una storia, alcuni di loro mi chiedono di raccontarla quella storia, quindi io accendo la telecamera e a quel punto ho fatto a piedi il tragitto che avrei dovuto fare con il tram e sono arrivata, attraversando la città, proprio sulla riva del Tago e a quel punto già la storia dentro la telecamera era stata raccontata.

Leggendo il libro si percepisce la nostalgia e vien voglia di visitare Lisbona, con il suo ambiente che di per sé sembra onirico, magico

Io l’ho scritto avendo voglia di tornarci!

Il libro non è partito in capitoli, nessuna interruzione si frappone al racconto, concatenato, delle storie di Amalia, a Lisbona, e di Clelia, in un paesino italiano dell’Emilia Romagna, tanto che fin da subito il lettore si chiede quale sia il rapporto che le lega, se siano la stessa persona oppure no. Le due storie sono talmente ben intrecciate che il lettore finisce per essere catturato dalla liquidità della tua scrittura, ne viene avvolto, come a finire immersi nell’acqua del Tago…quest’acqua che è il primo elemento a comparire. Ti sei accorta di rendere questo effetto al lettore? Quanto tempo hai impiegato a ragionare sulla parte italiana e quanto per la stesura del libro?

Guarda, il libro è stato scritto veramente in pochissimo tempo perché la parte di Lisbona andava soltanto trascritta. Però già a Lisbona, mentre mi raccontavo questa storia, io sapevo che ci doveva essere una parte italiana e quindi se ho impiegato un po’ di più perché la parte italiana si incastrasse con quella portoghese ma comunque in qualche modo avesse una vita propria, un suo svolgimento, una storia che ha un inizio, una climax e quasi una fine. Credo di aver impiegato tre mesi o poco più, considerando però la documentazione inclusa, perché anche se non è un romanzo storico vero e proprio, tuttaviaavevo bisogno di avere ben chiaro il disegno, anche da un punto di vista burocratico perché il tutto è accaduto in un periodo abbastanza vicino a noi, però la Strage di Piazza Fontana, le rivendicazioni, anche le questioni sindacali dell’epoca, di cui poi non ho scritto tanto ma di cui volevo avere chiare le vicende.

“… Non aveva una richiesta precisa da consegnare al fiume o un desiderio particolare, lasciava sgocciolare nell’acqua semplici sospiri, perché venissero trasportati verso rive sconosciute…”

Cosa rappresenta la seconda ombra di Amalia, che fin dal principio della storia si vede e che è socievole, che l’accompagna, che parte dai piedi ma poi guizza da una parte e dall’altra. Può essere considerata un aiuto, un sostegno?È forse parte del magico della vita di tutti i giorni, come le anime del fiume che hanno qualcosa da raccontare?

“…Due ombre possiede Amalia e, se la prima volta che aveva visto la piccina, nuova, aveva provato una stretta di paura, ora se la tiene cara e ogni mattina la cerca per essere certa che il giorno non l’abbia sciolta…”

Non si tratta di magia. Qualsiasi azione si compia nella vita ha delle conseguenze, ma proprio qualsiasi, ecco se io ti dessi uno schiaffo o ti facessi una chiarezza ci sarebbero delle conseguenze perché a seconda dell’azione che io esercito su di te, tu andresti a casa con un’emozione e ti comporteresti di conseguenza, quindi figuriamoci la presenza di una persona, senza stare a citare ‘La vita è una cosa meravigliosa’ di Frank Capra, ‘vedi se tu non ci fossi stato, il mondo quanto sarebbe diverso’, figuriamoci, è chiaro che anche le azioni delle persone che non ci sono state hanno delle conseguenze su di noi, senza pensare a condottieri, inventori, quello che ha scoperto un vaccino, diciamo che le vite dei morti, vite anche non così da libi di storia, sicuramente senza i nostri bisnonni non ci saremmo.

Dopodiché, anche se non volessimo pensare alla piccola ombra in questi termini, non è magia, è un dato di fatto, è azione-reazione; se noi pensiamo a quanto è magico ogni istante che noi viviamo perché lo diamo come fatto tridimensionale, quando invece ogni nostra azione è mossa da un altrimenti indefinibile che hai dentro di te, possono anche essere sinapsi nervose, però poi entrano anche le emozioni, le aspirazioni, i sentimenti, positivi o negativi che siano, tutta roba che non poi descrivere, non puoi catalogare, non sai se ha un peso se ha una definizione, ma è una cosa fantastica se non magica e io credo che la vita sia estremamente piena. Io ho avuto modo di passare lunghi periodi in America Latina, dove è normale che tu entri nelle case dell’ateo più incancrenito da un punto di vista ortodosso, ma tu entri in casa e immediatamente dietro la porta trovi gli ahoja, che sono vasi abbastanza lunghi con il coperchio e dentro ci sono le anime dei parenti morti e la gente va lì e porta il piattino con il cibo che gli piace, la fettina di torta, se apre una bottiglia di qualsiasi cosa che contenga alcol, il primo goccio va versato lì per il santo, per non parlare di piccoli o grandi momenti di possessione eccetera, quindi sono abituata a questa commistione di piani diversi e comunque mi piace moltissimo e fa parte della mia formazione culturale e per formazione culturale perché io sono felicissima, quando mi dicono, fin da Evelina e le Fate, che sono l’erede del realismo magico.

Come reagisci all’essere considerata l’erede del realismo magico?

Ho visto con sconcerto i miei romanzi girare per l’America Latina con la fascetta che diceva: ‘la Baldelli reinventa il realismo magico’. Però io vorrei aver scritto Cent’anni di solitdine, vorrei aver scritto una roba così ben costruita, così folle, con un ingranaggio così meraviglioso, ma la mia formazione per quello che riguarda una certa facilità a questa commistione mi viene da Calvino, dal Visconte dimezzato, dal Barone rampante, dal Cavaliere inesistente, mi viene dai funghi di Marcovaldo, ma soprattutto mi viene dal binomio Zavattini-De Sica, mi viene da Miracolo a Milano, mi viene dal Giudizio universale, quando arriva la voce di Dio che comincia a fare l’appello e poi seguiamo questo giudizio universale in televisione ma non c’è un momento in cui io ho visto queste cose, le ho viste da bambina e nonostante fossero film censurati, la Rai comunque li dava all’epoca e il mio immaginario si è formato lì. E per me è normale che Dio ci parli attraverso la televisione e i poveri diseredati di Miracolo a Milano se ne vadano in bicicletta per il cielo o che qualcuno decida di vivere su un albero e nonscenda più ed è normale che stia là e che tutti gli altri parlino da sotto e quindi io non vedo una frattura.

Come potemmo appassionarci per un libro o per un film se non ci fosse un qualcosa che va al di là della tridimensionalità delle cose?

Quando Clelia affronta le prime delusioni, si legge questa espressione che colpisce: ‘Iniziò da quel momento, l’impressione delle pietre’. La protagonista comincia a caricare lo stomaco di pietre. Possiamo dire che la sensazione sia una conseguenza delle situazioni che affronta ma che allo stesso tempo sia la pesantezza stessa ad influenzare le scelte che prende?

Riguardo all’immagine delle pietre, ho scelto un terreno abbastanza frequentato perché tutti quanti potessero pensare ad una personale sensazione di questa cosa, come si usa dire ‘avere lo stomaco duro come la pietra’.

Il dolore aiuta, se vuoi è anche la piccola ombra. Se noi non avessimo dei dolori e dei dispiaceri e dei dolori ai quali reagire e molto più spesso sentimenti così dolorosi che muovono all’azione, ma fossimo mossi solo da allegria, o dalla felicità, il più delle volte non faremmo niente, al massimo un balletto dentro casa. Altri sentimenti ti spingono, non fosse altro, che a fuggire da questo dolore e quindi a fare delle cose; diventa un modo per dare una spinta; diventa un catalizzatore.Per quello la piccola ombra non fa paura fin dall’inizio, con tutto che se dico l’opinione mia mentre scrivevo della piccola ombra era come se il rimorso e il impianto che sono i temi fondanti e anche il senso di colpa, temi fondanti del romanzo fossero sgocciolati dal corpo di Amalia e quindi avessero disegnato questa piccola pozzanghera, dopo di che, siccome io metto sempre qualche elemento fantastico come‘le fate morelline’, ‘Mr.Giovedì’, ‘la nuvola d’oro dalle dita roventi’, io ho cominciato a pensare che faccio, vabbè la dico sta cosa, faccio come Hitchcock: mi metto dentro la storia ed è come se io stessi là a seguire da vicino la vicenda, allora mentre scrivevo ero convinta di scrivere della pozzanghera del rimorso, però poi non ci stava lei, quindi ho detto forse sono io che vado a vedere che è successo, vai vai , forse mi metto là dentro così.

Interessante. La narrazione, che appare visiva,fruibile e consapevole, procede per simboli, per oggetti portatori di forti significati e l’intuizione del lettore viene solleticata.  Questa tecnica, secondo la quale sono presenti più suggestioni che esplicite ed elaborate riflessioni, c’è anche negli altri libri? E soprattutto da dove deriva?

Siccome si scrivono i libri che si vorrebbero leggere, allora io faccio questa cosa che viene suggerita che, secondo me, funziona non solo per il cinema o per il teatro, ma anche in narrativa: fallo vedere, non me lo raccontare… Io metto in scena questi elementi. In quanto a commistioni per forza il teatro mi riguarda, mettere in scena un personaggio che non potrebbe esistere altrimenti mi permette, in questo caso la piccola ombra, di far agire Amalia anche in assenza di altri personaggi, comprimari, perché la piccola ombra ha anche un apporto comunque fisico, di azione, una guarda, l’altra si arrotola, sparisce, ritorna. C’è comunque azione e ho la possibilità di raccontare lo stato d’animo di Amalia senza entrare nella descrizione dello stato d’animo, semplicemente nel rapporto che lei ha con questo personaggio che si chiama piccola ombra. E la precedente formazione e produzione teatrale ha inevitabilmente influenzato la narrativa.

Leggendo ho apprezzato la tua scrittura lineare, semplice e consapevole, secondo un registro mai banale. Quanto hanno importanza le parole?

Io impiego molto più tempo a scegliere le parole che non a inventare la storia. Le parole, io cedo che ogni storia abbia un suo proprio linguaggio, pur avendo uno stile, però il linguaggio è diverso, se uno scrive gialli o fantasy o narrativa di genere, io non scrivo di genere ma ogni storia ha bisogno sia perché è ambientata in luoghi del mondo diversi, oppure diverso è se è ambientata in una città o in un paese, sono realtà o dialetti diversi che escono, dove la gente ha ritmi diversi e quindi dialoghi diversi e questi condizionano poi anche la narrazione e poi ci sono delle parole diverse che rendono, un conto è dire ‘terrazzo’ e un conto è die ‘verone’ ed è chiaro che ogni personaggio, che pronuncia uno di questi sinonimi, è differente.

Per me le parole hanno un’importanza fondamentale e anche questo mi deriva dalla formazione teatrale: ci deve essere un ritmo e ci deve essere un suono, una cadenza, semplici ma ricercate.

La tua ricerca sul linguaggio emerge con consapevolezza della gestione della stratificazione linguistica e questo anche a livello divulgativo. Quanto è importante dare un ordine ai pensieri attraverso il linguaggio della finzione letteraria contemporanea così che si avvicini a sempre più lettori.

Ci sono i condizionamenti esterni, che sono tipici di un’epoca, che influiscono anche sul linguaggio, sulla comunicazione. La prima cosa che dico ai professori quando entro nelle scuole è di avvicinare i ragazzi alla lettura dapprima, all’inizio del percorso con l’ottima narrativa per ragazzi e solo successivamente leggere i classici, come I promessi sposi perché i ragazzi si spaventano e se si sentono in difficoltà non vorranno ripetere più quell’esperienza.

La divulgazione è fondamentale, per avvicinare i giovani anche con delle cose a loro più consone. Per questo i social prendono tanto piede, per quanto ne siano ad oggi coinvolte tutte le generazioni, ma soprattutto lo sono i ragazzi perché parlano di loro.

Come puoi competere a livello di interesse? Quindi bisogna parlare di loro attraverso anche il loro linguaggio. Ciò non vale solo per i ragazzi, ma anche per gli adulti. Il linguaggio è la prima cosa e frutto di una ricerca, accessibile a chiunque, ma non buttato là, non quotidiano se sembra rimasticato: è, per quanto mi riguarda, una forma di rispetto imprescindibile nei confronti del lettore.

Riguardo ai riferimenti storici di ‘Vicolo dell’Immaginario’, per i quali ti sei documentata nel dettaglio degli avvenimenti, quindi la rivoluzione dei Garofani e la strage di Piazza Fontana, che valore hanno e quanto è stato importante farne menzione?

Credo che quel momento sia stata una perdita di innocenza collettiva, come più recentemente, a livello interplanetario, le Torri gemelle, io credo che coloro che furono testimoni diretti, se non altro perché erano davanti al giornale, così come per le torri gemelle, tutti si ricordano cosa stavano facendo in quel momento. E i miei rimpianti e rimorsi non sono solo privati, ma sono pubblici, politici, in senso più ampio della polis. Noi abbiamo tantissime occasioni perse o giocate male o trasformate in violenza. Lo stesso Concilio Vaticano II, di cui io metto dentro delle eco, come il ‘discorso alla Luna’ di Papa Giovanni XXIII, con l’invito di tornare a casa e dare una carezza ai bambini, anche da quel punto di vista lì sembrava un momento di apertura culturale e sociale, che la Chiesa improvvisamente pensasse di fare un passo avanti nei confronti dell’umano e quindi tante cose che sembrava stessero per accadere o non sono accadute oppure si sono sprecate.

Pensiamo alle rivendicazioni del ’68, che non sono certo da buttare: se la gente chiede giustizia, equità, chiede diritti per tutti, mica era sbagliato, ma poi sono scivolati in metodi che poi hanno dato spunto a tentativi di restaurazione.

Quindi qual è il compito dello scrittore che si rende conto che una memoria storica è importante? Quanto è importante per chi possiede il mezzo e il metodo per poterla veicolare?

Io sento una responsabilità civile, come essere umano, sennò continueremmo a perdere occasioni.

Poi c’è anche chi sta bene ritagliandosi il suo angolo e in qualche modo è legittimo, ma io non lo scelgo quel modo di essere, senza giudizio per altri. Mi ritengo molto fortunata di aver sempre potuto fare delle cose che mi permettessero, come quando ho fatto teatro, non ho mai fatto avanspettacolo, ma sempre delle cose che spingessero a riflettere e la stessa cosa cerco di farla con i romanzi, contemporaneamente intrattenendo, perché la gente ha diritto di sentirsi raccontare delle storie gradevoli e di farsi una risata. Rientra anche questo nel rispetto del lettore, instauro con te un dialogo come farei con una persona che ho scelto.

Quindi è vero che ‘La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta’?

Come per il riferimento al magico di cui abbiamo detto prima: per la quasi totalità del tempo, quando non siamo impegnati in attività primarie, il mangiare il bere, il sonno, tutto il resto del tempo lo passiamo a dar seguito a bisogni che non sono concreti. Anche l’avidità, il bisogno di denaro lo è.

Noi corriamo dietro a bisogni che non sono apparentemente vitali e la letteratura ti dà un codice per leggere quelle cose, per capire, per capirti, per focalizzare un pensiero, uno stato d’animo che non si riusciva a definire: lo fanno i quadri, figuriamoci se non lo fanno i libri.

Grazie, Simona


Simona Baldelli lavora per lungo tempo in teatro, come attrice, regista e drammaturga. Si occupa di direzione e organizzazione di numerosi eventi di cultura e spettacolo. Lavora in radio come conduttrice e autrice.
Pubblica Evelina e le fate (Giunti, 2013), finalista Premio Calvino e vincitore Premio Letterario John Fante. Nel 2014, sempre per Giunti editore, esce Il tempo bambino, finalista Premio Letterario Onor d’Agobbio. Pubblica La vita a Rovescio (Giunti, 2016), vincitore del Premio Letterario Città di Cave. Nel 2018 esce L’ultimo spartito di Rossini, (PIEMME). A gennaio 2019 pubblica Vicolo dell’Immaginario (Sellerio). E’ autrice dell’audioserie La notte che caddero le stelle (Emons, 2019)


Arianna Previtali, nata a Roma il 14/05/1986, mi sono diplomata al liceo classico ed ho proseguito gli studi letterari all’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Mi sono laureata in Lettere Classiche nel 2011. Ho collaborato con la redazione della Rivista Dante, a cura del Dipartimento di Italianistica, presso la stessa Università. Attualmente sono impiegata presso un istituto e la mia più grande passione rimane la lettura.

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