Comisso e la censura

Comisso e la censura

Giovanni Comisso si toglie qualche sassolino dalle scarpe: nell’articolo che segue – pubblicato in Il Giorno del 16 dicembre 1956 – si diverte a ricordare i suoi fastidiosi incontri con la censura del regime fascista.

Diciamo fastidiosi, poiché il Nostro, di fronte alle pretese di tagli e revisioni, riuscì sempre a cavarsela senza troppa perdita di senso e testo, lavorando, come ci spiega, sulle finezze semantiche, sugli aggiramenti di significato, sulle costruzioni di concetti che la censura non riusciva a comprendere ma i lettori sì. Anzi – scrive Comisso- la necessità di purgare il testo secondo le pretese del regime, poteva diventare una opportunità per affinare l’ingegno degli autori e la loro capacità narrativa, come, esempio luminoso, riuscì al genio di Jonathan Swift che beffò il potere e i suoi censori con il suo falsamente ingenuo Gulliver.

Il filo da torcere censorio trapunta molta della produzione comissiana, a partire dal 1934, quando Vallecchi edita “Avventure terrene” in cui compare per la prima volta Cribol quel amico d’infanzia dello scrittore che tornerà con maggior rilievo scabroso molto più tardi nella narrativa dell’autore trevigiano. Ma tornando al 1934, le forbici del veto si fermano sui valori morali, sull’etica di guerra (ammesso che la guerra ne possegga una) : non potevano esistere disertori nell’esercito regio, né soldati malnutriti, né sbeffeggiamenti della retorica bellica. Si parla della sanguinosa Prima Guerra Mondiale e, giustamente, Comisso non concepisce per quale ragione la censura del regime si preda a cuore le falle di un sistema politico del passato: ma sapeva l’autore che l’italo spirito guerriero non doveva portare macchia? E infatti, quando in “I due compagni” lo scrittore traspone in racconto la personale testimonianza del drammatico fronte orientale, la censura sforbicia imperativamente sulla qualità del cibo, sul coraggio dell’italico milite, sulla empietà dei comandi; Comisso resiste, propone una versione edulcorata , ma la censura pretende di più al punto che l’editore Arnoldo Mondadori gli pone un aut-aut – o tagli o destino la carta ad altra pubblicazione. E Comisso cede. Di questo ho scritto più ampiamente nella postfazione alla più recente edizione di “ I due compagni”, Santi Quaranta 2018, dove si pubblicano inediti tratti dal citato da Comisso ‘incartamento’ riguardante la censura, incartamento/cartella presso il Fondo manoscritti dell’Archivio di Treviso. E’ interessante notare, grazie a quegli appunti mai più ripresi e integrati né dallo scrittore né da Naldini che curò una edizione postuma nel 1973 presso Longanesi, la gamma di varianti proposte da Comisso al censore, per mitigare l’effetto sgradito al regime. Nessuna delle proposte fu accolta e Comisso tagliò ampi brani.

Ma la vendetta, si sa, è un piatto da mangiar freddo: così quando nel 1941 lo scrittore pubblica con Bompiani il delizioso “ Agenti segreti veneziani”, frutto di sue ricerche nell’Archivio Storico di Venezia, la censura è messa di fronte al fatto compiuto. Il concetto che sottende quel libro, al di là dei fatti riportati, è di grande acutezza: il paragone tra la decadenza Serenissima e quella fascista, ambedue i poteri sull’orlo dell’abisso si intestardiscono su quisquilie e apparenze. Questa sottile, feroce critica al sistema resta celata tra le righe, ma un fatto invece diventa evidente a pubblicazione avvenuta: non si era accorto, infatti, l’occhiuto sguardo censorio della presenza nelle pagine di un filoprussiano ebreo sobillatore di nome Moisè Mussolin! Il libro verrà requisito ma la beffa era compiuta.
Isabella Panfido

La censura per uno scrittore può essere anche benefica, perchè lo può costringere a trovare una forma più scaltra per dire quello che vuole senza suscitare reazioni

Alessandro Pavolini (1903-1945), Ministro della cultura popolare dal 31 ottobre 1939 al 6 febbraio 1943

Quando apro il mio archivio e sfoglio l’incartamento relativo alla censura mi risulta il più divertente di tutti gli altri. Si tratta della censura subita durante il passato regime. Veniva operata da funzionari della prefettura della città dove si sarebbe stampato il libro, dipendenti dal Ministero per la Stampa e per la Propaganda. Se devo dire la verità quelle esperienze mi hanno convinto che la censura per uno scrittore può anche essere benefica, perché lo può costringere a trovare una forma più scaltra per dire quello che vuole senza suscitare reazioni. Il massimo valore di uno scrittore, durante il passato regime,. sarebbe stato di avere scritto un libro contrario, senza se ne fossero accorti. Fare come Swift che scrisse un libro micidiale contro la società umana e fu creduto un libro di diletto per i ragazzi.

Attilio Vallecchi con la moglie Pia.
fonte: Vallecchi editore

La mia prima esperienza con la censura fu nel 1934, quando Vallecchi decise di pubblicare le mie Avventare terrene. Il censore fiorentino commendatore G. Cavalocchi, alla lettura della mia novella Cribol: l’amico d’infanzia, volle venisse tolta la frase: «Poi sono riuscito a scappare dal fronte e mi sono dato disertore», perché questo non doveva mai essere avvenuto nel nostro esercito, durante la prima guerra mondiale. Ancora la frase: «Tutti giovani di venti anni e pensa che ci nutrivano con mezzo chilo di pane e un piatto di minestra», che riguardava il trattamento subito da Cribol nel carcere di Campobasso. Non sono mai riuscito a capire perché questa frase doveva essere abolita se quel trattamento era stato imposto dal regime abbattuto dal fascismo. Ma al censore non piaceva neanche il giudizio che Cribol, combattente di quella guerra, volle dare su di uno dei soliti balordi monumenti ai Caduti.

«Quella donna là dietro con le ali figurerà l’Italia, e l’uomo nudo che tiene su, tra le braccia, dovrebbe essere un soldato, ma noi non si combatteva mica nudi!». La frase doveva essere tagliata e quel monumento doveva rimanere intatto nella sua retorica.

Qualche tempo dopo fu di turno il mio romanzo: I due compagni. Avrei dovuto togliere la qualifica di “nauseante”, attribuita al rancio, distribuito al tempo dell’altra guerra, e accettai subito, perché risultava un pleonasmo, bastava la parola: rancio. Poi ho dovuto togliere tutti i passi dove si descrivevano feriti piangenti che invocavano l’aiuto dei portaferiti, o superstiti di un reggimento in ritirata, pallidi e tremanti, o altri che scappavano, altri ancora tristi e sospiranti di paura, o istupiditi come bestie spaurite. Tutto era troppo crudo, si era nell’imminenza della guerra con l’Abissinia e non si voleva fare sapere cosa è esattamente una guerra, come se l’ultima di cui appunto trattavo fosse avvenuta nel Medioevo.

Giovanni Comisso-Agenti segreti veneziani nel ‘700

Ma il fatto grosso avvenne quando nel 1941 volli pubblicare: Agenti segreti veneziani nel ’700. Mi divertii tutto un inverno a fare ricerche all’Archivio di Stato di Venezia. Il fascismo oramai declinava e attraverso le denunce di quegli agenti venivo a scoprire che agli stessi sintomi della decadenza della repubblica di Venezia corrispondevano quelli del fascismo. Già Napoleone era alle porte e gli Inquisitori si preoccupavano ancora che i nobili veneziani andassero in giro con la bautta d’obbligo e che si mangiasse pesce di venerdì, come il fascismo si preoccupava fosse indossata la camicia nera e che il saluto fosse romano, mentre si era a un passo dal crollo. Ebbi l’idea di raccogliere tutte quelle denunce che potevano rivelare la decadenza di un regime assoluto come quello di Venezia. Lo scherzo forse sarebbe passato inosservato se non fosse apparso nella collana: I grandi ritorni, di Bompiani. Sfuggito al vaglio della censura, se n’accorsero solo dopo pubblicato e vi fu il sequestro determinato soprattutto per la denuncia contro un certo Moisè Mussolin, ebreo, partitante per i Prussiani, che al tempo della guerra dei Sette Anni faceva discussioni in piazza San Marco. Se si voleva ristampare il libro, doveva essere tolto dalla collana : I grandi ritorni, e il cognome di questo ebreo doveva essere mutato. Ma il Ministero della Cultura Popolare cercò di essere diplomatico e sommerse questa richiesta, che era la principale, in mezzo a molte altre di tono morale, che riguardavano denunce di casi di sodomia, di malcostume di monache e di preti, e fu così gesuitico da suggerire nei passi più spinti la sostituzione di: ”s’invaghì” con: ”s’interessò”, e di: “amore” con: “simpatia”.
Non si può certo comprendere come gli uomini di quegli alti uffici di governo potessero credere che gli italiani fossero diventati scolaretti così sciocchi.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul quotidiano Il Giorno del 16 dicembre 1956

Immagine in evidenza: di Cornelius Hasselblatt (Wikimedia Commons)

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