Ofelia e altri racconti. Recensione e intervista ad Agostino Contò

Ofelia e altri racconti. Recensione e intervista ad Agostino Contò

La delicatezza che non si dissocia da una precisa restituzione del visibile, nel resoconto degli eventi, pur minimi, nel lungo racconto di formazione Ofelia e le mosche è, nel libro di Agostino Contò, il preludio di quello che il suo sviluppo testuale recherà con, testi narrativi che si succedono incalzanti all’interno della raccolta Ofelia e altri racconti, Ronzani Editore, 2021, di cui si vuole qui anche sottolineare la cura editoriale del libro.

La scrittura di Contò si distende attraverso una serie di proposizioni legate paratatticamente, indicante un accumulo di percezioni o di dettagli che precisano la descrizione della scena e degli oggetti, ma anche le azioni risultano come somma di percezioni, di ragionamenti interpretativi, quasi sillogistici, da essi conseguendo. Pensare è senz’altro pensare il dato percepito – ricordiamo sorvolando il pensiero kantiano che indica che ogni pensiero è cieco senza un dato esperienziale – e in Contò ogni restituzione è strettamente dipendente dal dato concreto: non è mai un pensiero pienamente astratto. Lo scrittore compone una scrittura teatralizzata, più che dialogizzata: le parole si mischiano con, gesti, , corpi con le cose, il dialogo diviene un’azione corale: “Noi siamo più forti. Uno con, capelli rossi di terra dice che a forza di rotolarsi con la testa per terra s’è buscato il raffreddore, e tira su di colpo il moccolo che gli pende dal naso“. È l’autore che è entrato a gamba dritta sulla scena, oscillando tra la finezza del resoconto e il ritmo di una prosa serrata, dal brevissimo respiro, tutt’azione. Ma non v’è percezione che sia degna di tal nome se non è estetica: “E il pavimento della cucina è ugualmente rosso, di mattonelle di cotto esagonali. E rosso è il cielo di questo tramonto a contrasto con il verde scuro degli alberi del parco“. Percezione che a sua volta dà, dunque, la stura all’immaginazione, sicché se una bocca mastica verdi frammenti si può dedurre che essa mastichi lucertole. Ma non solo le esperienze visive, benché principali, si srotolano sulla pagina; anche quelle dell’odorato sono altrettanto capaci di fungere da tunnel spazio- temporale per agganciare la realtà, quella realtà che in un testo letterario appare sempre problematica. In ogni scrittore, in questione è la definizione della realtà, di che tipo essa sia. La realtà esiste esclusivamente in colui che la percepisce, sicché gli odori, compresi quelli meno piacevoli o, rumori prodotti dal movimento degli elementi naturali o il suono corroborano un affresco che si disfa e si ricompone incessantemente, andando a costituire, in Contò, la vera ossatura del testo. Sebbene il racconto di formazione – che è sempre anche racconto dell’infanzia, scaturigine della personalità, disegno dello spazio esistenziale che ha segnato indelebilmente – funga da paravento, da schermo sul quale si proietta l’amarcord, è altrove, pertanto, che si svolge la vera vicenda.

Nella successione dei racconti, ciò che è percepito e che contribuisce a profilare l’importanza degli attori sulla scena ricostruita mnemonicamente, rapidamente diviene a tal punto principale che si tratta ora solo di seguire tali vivide sensazioni, sgorgate nella loro originaria freschezza e intrappolate nel flusso testuale. Abbandonarsi ad esse vorrà dire, per lo scrittore, insediarsi al centro della propria esistenza, mentre tutto il resto si allontana, andando a ricoprire un ruolo subalterno. Certamente la suddetta accelerazione si ha sull’onda dello studio del Nouveau Roman, e in particolare di Robbe-Grillet. Nel racconto Il rito vi è persino una esplicita citazione del millepiedi presente in Gelosia. Ma Contò coincide, per personale inclinazione, con la suddetta poetica esclusivamente per l’attenzione percettiva e non certo per la nitida ed elementare scrittura, poiché quella che egli produce è tanto ricercata che, dettagli descritti sono un rebus da ricomporre, più che la restituzione di una limpida visione: “di tre anni, il vetro appena brunito (a riparo da zaffi troppo intensi di luce), un corpo tornito e allungato fino all’esile collo, e l’umore d’uva, il contenuto prezioso“.

Resta l’attaccamento alla gente semplice, ai contadini, un legame sordo, sentito attraverso il corpo. Così è ora una voce adulta che racconta i temi della vecchiaia, dell’appartenenza alla terra veneta, degli amici al bar, della povertà, delle donne, ma anche quello dell’irrealtà delle convenzioni, di certe derive che l’ambiente finisce col produrre sulla visione del mondo, ma che ancora solo altri elementi percettivi possono modificare. Come dire un dettaglio-pensiero scaccia un dettaglio-pensiero fino alla riconquista di una maggiore aderenza a sé. La presenza di un certo numero di vocaboli, ‘lessa’, ‘vergognina’, attesta di un accostamento al linguaggio che prelude a un maggiore invischiamento dovuto a situazioni conviviali, mentre altri denotano la sua distanza da esso: “la quadrifora quattrocentesca con i vetri rotondi piombati sulla grande loggia” nel medesimo racconto Tolpada. Tocca i vertici di un certo straripare rabelaisiano, il lessico di El Pitor, la cui punteggiatura manchevole rende il flusso ancor più torrenziale. La ricchezza di una sintassi che racchiude anche versi: “L’oste sogghigna di sottecchi (arrossendo per l’infausto socio qual ci toccò: dunque da fregola viziosa mosso)” risplende nelle narrazioni in cui il vino è presenza irrinunciabile. I quadri di convivialità, la narrazione di incontri seducenti, allunga o raccorcia il ritmo della prosa. Ma l’indagine si fa più profonda non in relazione alle persone, spesso non comprensibili, viste dall’esterno come oggetti imponderabili, ma alle cose e ai luoghi maggiormente familiari: le porte aperte o socchiuse, le ragnatele, i chiodi, la polvere, la ruggine, le travi ordiscono una realtà che a volte, quasi per voluto errore, ha un sapore metafisico.
Rosa Pierno

L’Intervista

Rosa Pierno

[Rosa Pierno]: Innanzitutto, vorrei chiederti del tuo rapporto con la natura, che è accentuatissimo in “Ofelia e altri racconti”. È una natura legata alla tua infanzia, particolare, locale, non un riferimento generalizzato; oppure è una precondizione, qualcosa a cui giungere o da conoscere nel tempo?

[Agostino Contò]: I nonni di mia madre erano commercianti e abitavano in città, la famiglia di mio padre era invece di origine contadina, abitavano in un borgo di campagna, e avevamo molti altri zii e cugini (un po’ contadini “veri”, un po’ metalmezzadri) con stalle, campi e orti da coltivare, animali da cortile da allevare, cani e gatti che giravano per casa. E nonostante io non sia mai vissuto se non in paese e poi in città, alcune vacanze e molte visite parenti mi facevano calare in quel mondo, per me molto affascinante. I fiumi, le colline, le campagne. Anche nelle cittadine e città dove sono cresciuto c’è sempre stata la presenza di un fiume e di tutto quello che sta intorno al fiume: argini, alberi, animali. Più volte, anche da adulto, ho scelto di passare del tempo da solo in collina, immerso nella natura.

Ti sei laureato in Lettere con una tesi sul “Nouveau Roman” e naturalmente ciò vuol dire studiare la cultura fenomenologica francese, la quale, se da una parte punta a far emergere il dato concreto, visto in una sorta di epoché, dall’altra rimanda inesorabilmente allo spirituale. Tu come vedi questa polarità?

Personalmente non sono mai stato molto interessato alla spiritualità. Amo la concretezza delle cose semplici e comprensibili. E non ho amato la filosofia (al liceo l’unica volta che fui rimandato a settembre, fu proprio in filosofia). Il nouveau roman mi ha fatto avvicinare ad una scrittura concretamente relazionata con le cose, con gli oggetti. Che non è solo gioco di sperimentazione fine a se stesso (come mi sembra – ancor oggi – quella di molti narrapoetanti che scrivevano intorno agli anni Settanta). In particolare mi interessavano le scritture che Robbe-Grillet produceva in quegli anni (anche se poi, proprio dopo Topologie d’une cité fantome, la sua scrittura mi pare sia scivolata sempre più verso il “Nouveau voyerisme”, come lo definisco io). Scritture che in parte – ma solo in parte – hanno influenzato alcune delle mie pagine, soprattutto per la costruzione (o per la de-costruzione) della storia e della lingua che la supporta, lingua che a volte è essa stessa supporto di idee e di costruzioni inaspettate.

L’estetica è per te un‘esigenza: rivolgi un’attenzione al dato percepito che è ineludibile, pena la mancata relazione col mondo. Si direbbe che tu non possa nemmeno instaurare un legame affettivo con ciò che ti circonda senza averlo prima classificato nel suo valore estetico.

Scrivo di cose con le quali ho un forte rapporto, un forte legame personale, e memoriale. Che non è se non molto parzialmente autobiografico (come tutte le scritture), ma che dalla memoria dei fatti accaduti prende sempre spunto. Rielaboro, non invento. Il mondo dei miei racconti è quello con il quale sono stato in contatto, che ricordo, che mescolo con altri mondi (quello dei sogni, delle mie fantasie), che amo.

Desidero chiederti di parlarci del tuo rapporto con l’arte tipografica, vista la cura che condividi con l’editore Ronzani per essa.

Ho sempre amato i libri, che in casa nostra ci sono sempre stati, e perfino nel granaio del nonno, in campagna, c’era una nicchia con una piccola libreria con libri del Settecento, non solo libri religiosi (eredità di uno dei tanti zii preti) ma anche libri di storia, con belle legature. E ai libri (ancora prima che condividerne profumi, materiali, colori degli inchiostri, forme di legature lavorando in biblioteca), mi sono dedicato collaborando a riviste, gestendo un settimanale, un mensile, inventandomi una collana di poesia, e andando fisicamente nelle tipografie a seguirne i lavori. Ma sono i libri a stampa del quattro e cinquecento che mi hanno affascinato di più: allo studio della loro storia ho dedicato e dedico tuttora ricerche, articoli, saggi. Il rapporto con Verona, poi, è stato “fatale”. Uno dei primi lavori affidatimi, pochi mesi dopo il trasferimento da Treviso, riguardava la co-curatela di una grande mostra dedicata a Hans Mardersteig. Mi sono innamorato di questo modo di amare, riproporre e costruire materialmente i libri, alla moda antica (come si facevano i libri nel Quattrocento), una modalità che a Verona ha creato, dopo (e in parte grazie a) Mardersteig, una vera e propria scuola, che aveva coinvolto tra l’altro, anche Franco Riva, direttore della Biblioteca in cui mi sono ritrovato ad occuparmi di libri antichi. E dopo molti anni proprio nei locali della biblioteca è approdata fisicamente quella che è forse l’ultima (in ordine di tempo, almeno) officina tipografica attiva: la Chimerea Officina, con un torchio a mano, caratteri, inchiostri, carte, una storia di tutto rispetto, un catalogo di oltre cinquanta titoli. E io mi sono reso disponibile a dare una mano a Alessandro Corubolo, che l’ha fino ad ora gestita (cosa che faceva prima insieme a Gino Castiglioni), per continuare la tradizione e per creare, materialmente, i libri, proprio (o quasi) come li creava Aldo Manuzio. Da pensionato ora, al di là delle difficoltà legate al Covid, ho più tempo per farlo. Ed Alessandro è, insieme a Beppe Cantele, l’anima delle scelte di Ronzani editore di una importante collana dedicata proprio alla storia della tipografia. Il cerchio si chiude con la grande qualità che Ronzani, ispirandosi al modo antico di fare i bei libri, pone nella realizzazione dei suoi prodotti, dall’uso delle carte alla scelta dei caratteri, alla creazione delle copertine, alle modalità di confezione del singolo titolo. Bei libri che veicolano buoni contenuti.

La tua attenzione per la componente estetica della scrittura, a tutti i suoi livelli, è tuttavia secondaria rispetto a quella che privilegiando i fenomeni ritmici della poesia giunge a performance nelle quali la vocalizzazione/dizione si fa addirittura corale. Sto parlando, naturalmente, della poesia sonora a cui hai dedicato la tua carriera senza soluzione di continuità.

E’ il mio “lato B”, quello che mi porta a lavorare sulla scrittura, sulla lingua, sulla loro materialità. La poesia visiva e concreta, considerando anche le mie scarse abilità manuali per le arti grafiche, le ho ammirate ma non frequentate direttamente. La lingua/le lingue, la dizione, l’uso della voce, invece, mi hanno sempre attirato (perfino partecipando, da tantissimi anni, ormai, a cori polifonici con programmi dedicati alla musica rinascimentale). Suono, ritmo, echi, sovrapposizioni. La poesia della parola, le parole della poesia. Con una ulteriore particolarità, devo dire, che è l’uso che faccio del dialetto (anzi, della lingua trevisana); della lingua, anche nella poesia lineare, mi interessa non soltanto l’aspetto che avrà sulla pagina, ma l’effetto che farà alla lettura, e quindi da sempre ho sperimentato l’uso di un mixage di lingue, dove fanno la loro parte il latino, l’antico francese, il volgare medievale, le citazioni. Grande è poi il fascino delle letture a più voci e a più livelli, che ho sempre realizzato con l’uso di differenti tracce di registrazione. Un po’ come immergersi nel chiacchericcio del mondo.

Per quel che riguarda questo fenomeno storico di grandissima rilevanza in Italia, hai lavorato assieme ai più importante interpreti italiani e internazionali. Ce ne parli?

Sono stati degli anni belli, creativi e di rapporti con persone straordinarie. L’esperienza più interessante è senza dubbio quella legata all’attività del gruppo “Trio Phoesia”, costituito da me, Arrigo Lora Totino e Franco Verdi: un “complesso da camera per l’esecuzione vocale della poesia sonora”. Non tanto per il numero di spettacoli (che non furono molti: il gruppo, poi integrato con Milli Graffi in sostituzione di Franco, alla fine si sciolse) quanto per il notevole lavoro di studio e preparazione dei programmi, con prove che ci impegnarono per alcuni mesi, nei fine settimana, nella casa veronese di Franco Verdi. Nei programmi avevamo inserito un’ampia serie di testi legati all’esperienza futurista e dadaista, e testi di poeti sonori stranieri, oltre, ovvio, a testi nostri contemporanei. Molte altre esperienze sono legate a spettacoli tenuti, ad esempio, per Milano 80 (a cura di Renato Barilli), a Verona (alla mitica galleria Ferrari e poi a San Francesco), Venezia, insieme al gruppo de “Il dolce stil suono”, ecc. Grazie a Sarenco fu organizzata, ad esempio, una serie di serate che mettevano insieme il meglio di quanto allora rappresentava la poesia sonora: Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Bernard Heidsieck, Franco Verdi, Arrigo Lora Totino, Pierre Garnier, Paul De Vree, Eugenio Miccini; io ero una giovane matricola. Il tutto entro la fine degli anni Settanta. Ho condiviso con quei signori anche dei dischi e la presenza in una piccola collana inventata da Spatola, “Baobab”, di cassette sonore (allora strumento all’avanguardia!). Da ultimo tutti i miei testi, su sollecitazione di Giovanni Fontana (che è rimasto il più attivo e vivace produttore di testi sperimentali in questo ambito, oltre che esserne diventato lo “storico” ufficiale), sono stati raccolti in un cd (recuperati da cassette e vecchi nastri di registrazione a più piste: sono quasi cinquant’anni di cose che altrimenti rischiavano di andare disperse).

Agostino Contò – Ofelia e altri racconti
Ronzani Editore, 8 marzo 2021
Copertina flessibile ‏ : ‎ 151 pagine
ISBN-13 ‏ : ‎ 979-1259600066

Agostino Contò (Treviso 1953), già bibliotecario a Treviso e Verona. Ha insegnato Storia del libro all’Università di Verona e al libro antico ha dedicato varie ricerche in parte raccolte in Calami e torchi, Della Scala, 2003. Da sempre si occupa di poesia e in particolare di poesia sonora. Da ultimo i suoi testi sono nel cd Don’Ana e altre poesie sonore (2019) e in Merchant of mask. Poems 1974-2019, Chelsea, New York, 2020. Come narratore, ha negli ultimi anni pubblicato Storie dei Prà Longhi, Delmiglio, 2016 e Ofelia e altri racconti, Ronzani, 2021

Rosa Pierno (Napoli, 1959), architetto. Ha collaborato con le riviste Anterem e TestualeCritica. Cura il blog Trasversale. Intensa la sua partecipazione a riviste, antologie e convegni, parallela all’attività di critico d’arte, per la quale è presente in numerosi cataloghi d’arte internazionali. Ha pubblicato i libri: Corpi, Anterem, 1991; Buio e Blu, Anterem, 1993; Didascalie su Baruchello, Roma, 1994; Interni d’autore, Joyce & Company, 1995; Musicale, Anterem, 1999; Arte da camera, d’if, 2004; Trasversale, Anterem, 2006 (vincitore del Premio di Poesia Feronia, Fiano 2006); Coppie improbabili, Pagine d’Arte, 2007; Artificio, Robin, 2012. Escono nel 2020 Istoriato, Gilgamesh edizioni e Il contorno dell’ombra, Oèdipus. Ha curato il volume collettaneo Poesia e filosofia, Gilgamesh, 2021.

Immagine in evidenza: il Trio Phoesia (Agostino Contò, Arrigo Lora Totino, Franco Verdi)

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