Donne e uomini eccellenti: Giotto pittore

Donne e uomini eccellenti: Giotto pittore

Gli esperti speculatori della critica quando vogliono parlare di inizio della pittura italica, partono quasi sempre da Giotto. Una ragione di superficiale misura li trae in questo inganno , così come, quando volendo parlare d’un grande genio della pittura vanno a cadere assolutamente su Raffaello. Giotto è ben sì un fenomeno grave, ma non è un fenomeno puro, né un fenomeno primo.

Il teatro: questa smisurata passione della folla non era adeguatamente soddisfatta al suo tempo. Giotto da astuto scopritore dei popolari gusti, volendo piacere si accese d’una smania, centrale in tutte le sue opere, per l’episodio sceneggiato. Sistema d’espressione detestabile in cui l’autore dichiara apertamente di voler stipulare il proprio contratto di comunicazione spirituale della folla: la pesante bestia incapace di salire ma capace di far scendere giù al fondo e di travolgere chi la vuole sollevare ad un’ansia d’ali e di azzurro.

D’altronde è possibile riscontrare un’intima relazione tra l’identica insistenza nell’episodio sceneggiato in Dante e in Giotto, in rapporto alla loro grande amicizia e reciproca considerazione; ma ritenendo, che soprattutto l’esigenza popolare abbia influito su entrambi, Non vogliamo sussurrare indiscretamente che il povero villico oltre ad essere stato imbrogliato dal facile estro dell’istinto che lo ha fatto cadere nella più dura delle prigioni: la pittura, abbia per timidezza e obbedienza soggiaciuto alla loquace incantatura d’un Dante, per fare così, come a lui piaceva di fare. ma non serve accrescere indagini per scoprire l’origine d’una debolezza che esiste incancellabilmente.

Come si può considerare la vita sempre soltanto per un interesse di avvenimenti e di fatti. Questo vien da pensare proprio, trovandosi in Assisi a camminare tra gli olivi mentre scende il giorno e tutta l’atmosfera assorbe nel viola la terra convincendosi della presenza di potenze più unificate operanti sullo spirito. Dolce amorevole è la vita dinanzi le sfaccettazioni dei nostri sensi ma più grande e sola essa è all’incrocio delle nostre vie interiori. E più grande e sola è l’espressione, anche pittorica, quando parte da questo incrocio per proiettarsi sul mondo onde arricchirlo di sostanza e non viceversa. Occorre guardare la ”Sacra Maestà” di Duccio di Boninsegna per riconoscere come ciò sia possibile.

Duccio di Boninsegna – Maestà del Duomo di Siena

Ecco questo che noi vediamo, non appartiene alla vita dei nostri sensi; il Paradiso è espresso strapotentemente da questa immobilità perpendicolare dei nostri santi seduti. E non è da credere che tale rigidezza sia in Duccio un manierismo bizantino; egli è il più grande nemico del bizantinismo, colui che è riescito a sopraffarsi e a vincerlo col soffio ardente della tragedia. Giotto invece dice ciò che era facilmente dicibile, perché appartenere al mondo già creato.

Quale necessità in lui di fissare la vita svolgentesi sotto ai suoi occhi? Credeva che essa non avesse a giungerci eguale? Così dimenticò di tramandarci la sua vita, quella che è sparita con lui. Da Assisi a Padova, a Firenze, la sua cura prima è di indagare le alterazioni della forma umana in dipendenza di tormenti o di gioie dell’anima, e di fissarle per farcele capire. Ma in suffragio di che questa fatica? D’un piacere infantile che si soddisfa come a ricercare le illustrazioni in un libro piuttosto che leggerne le parole. Non a questo scopo doveva essere adoperata tutta la sua potenza.

Giotto – Fuga in Egitto

Ah! forza del tempo e degli uomini a incatenare sempre l’uomo! Ah! forza del dono di natura troppo ricco, a gonfiare e impoltrire il volere costruito dell’uomo! Fin a qui la perdizione di Giotto. Dove egli si salva, e là, quando dipinge veramente ad occhi chiusi un’armonia di angioletti in volo attorno al Cristo morente, oppure questa Madonna che viaggia sulla groppa dell’asino ed ha gli occhi incantati (stanchi da traballio) od anche questi soldati stanchi, ripiegati come burattini che dormono e russano come noi dormimmo e russammo in guerra, uno addosso all’altro, oppure questo Cristo che scappa dal sepolcro in punta dei piedi con gli occhi contentissimi di averla fatta ai soldati di guardia, o questo mantello di Giuda tutto tradimento nelle pieghe e nel rosso fondo di botte, o queste donne completamente padovane alla Porta d’oro oppure questo Papa che ascolta, con la frequente attenzione dei capi, senza capir bene l’incredibile discorso di San Francesco o questo Cristo che con estro tutto femmineo lava i piedi agli apostoli. Queste pur essendo tutti argomenti della vita camminante, sono espressioni toccanti di grande intuizione, rivelazioni di difficil situazione sfuggente al nostro controllo ordinario, e che si impongono con affermazione di sentimenti nuovi. Forme ed aspetti non sono mete del desiderio. come per l’uomo che sa di essere nato per morire non è desiderio perfetto la luce del sole. Oh essa è ben poca cosa nell’infinito e sulla terra essa è privatizzata! Ma è meta lo Spirito o il mistero, che pochi sanno, che non sempre sentono. Che solo per rari istanti appare impressionante, nei profondi silenzi che susseguono a intense foghe d’assorbimento del mondo tangibile; quasi per la stessa ragione che per avere una piccola misura di certi metalli occorre prima la consumazione di centinaia di tonnellate di altra materia.

E questo Spirito è presente nell’Annunciazione di Sant’Anna. Una cameretta a verdi pareti solitaria e medianica (il verde dà quasi il senso d’una abitazione subacquea), una bianca tendina alla finestra, appena mossa e una semplice donna allibita come per una paura meridiana: l’Angelo ha rotto la parete ed è sbucato nella stanza colla potenza e durezza della gemma che scoppia. Quando Carpaccio dipinse l’Annunciazione a Sant’Orsola, non fece altro che accrescere di silenzio e di mistero questo frammento dell’infinito compreso ed espresso da Giotto con la sua anima e su dalla sua anima.

Presente e ancora lo Spirito nella resurrezione di Lazzaro. Tra Cristo, solido, dalle spalle massicce, dal gesto e dall’occhio tesi (come un nocchiero che drizza la nave) e Lazzaro putrefatto, stretto nelle bende, con gli occhi del tifoso, riaperti, passa nell’aria quello stesso flusso di freddo-caldo generato nel transito dalla notte al giorno. Presente è ancora lo spirito nella morte di San Francesco in Santa Croce. Il Santo è disteso tra i suoi fratelli. Un labaro nero si reclina appena dai piedi e pare quasi uno specchio in cui il vero non sia che l’aspetto della morte specchiata. Il Santo è morto in questo momento, e tutto il cielo che spicca fresco di luce su dal limite della parete di confine è lì per testimoniare l’assunzione. Ma tanta perfezione di elementi composti quanto non è guastata dall’intromissione dei soliti elementi di ragione volgare! Questi due angioletti, che portano via per il cielo l’anima del Santo come un piccolo pacco… Ah, Giotto pittore!
Giovanni Comisso

da L’Eco del Piave del 15/07/1925

Immagine in evidenza: Giotto – Noli me tangere (part.)
Tutte le immagini: fonte Wikimedia Commons

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