"Gente della Valle del Cordevole" di Giovanni Comisso

Gente della Valle del Cordevole

Il rosa e il nero delle alte pareti di roccia in ombra si illuminano al riverbero del primo sole sulla neve. Giù nelle forre l’acqua delle cascate si è mummificata nel ghiaccio. Ogni sasso del torrente porta uno strato di neve. E il lago gelato, appena lo batte il sole, si dilata e si spacca. Sui pendii a mezzogiorno la terra assorbe la neve che finisce collo sparire. Ai lati delle erte straducole il ghiaccio si scioglie, l’acqua serpeggia, forma ruscello. Arriva un vento caldo e nel bosco si risveglia il primo canto dell’usignolo. Gli uomini escono dalle case dove hanno dormito distesi sopra alle stufe e si portano al sole davanti alla casa, che li acceca coi riverberi. Sono come i gatti che non sanno più dove andare. Nascono gli uomini in questa lunga valle del Cordevole, che da Sedico risale per Agordo e Alleghe fino al Pordoi, col violento desiderio di emigrare. Irrequieti sono gli uomini e irrequieti sono i monti di questa valle: giù all’imboccatura disseminato di rocce è il terreno, come per una furiosa battaglia tra giganti: crollarono dal monte Peron quando si ruppe, e presso Alleghe, in tempi lontani, un altro monte slittò sulla sua base e ostruendo il corso del Cordevole formò il lago verde e profondo. Come dominata dall’incubo di queste frane, questa gente freme di partire, fin da ragazzi. Guardano le acque scendere e le invidiano. Le erte cime del Civetta indicano altre mete e nascondendo il sole suscitano la curiosità delle terre che stanno dietro. Il caldo ozio della stufa crea improvvise ribellioni; obbligati dal maltempo alla piccola casa finiscono a leticare con le donne e coi fratelli. Escono per fare legna nel bosco, ma non basta: bisogna partire.

Lago di Vedana, vicino a Sospirolo (BL). Sullo sfondo il Monte Peron (foto di Fflavio74, Wikimedia Commons)

Non c’è casa che non abbia il suo emigrante. Ogni uomo di questa valle conosce al minimo tre mestieri: quello del muratore, del falegname, e del lattoniere. Da qui sono partiti più saldi minatori per le miniere della Vestfalia, dell’America e del Belgio. Si trovano i veterani di queste dure emigrazioni e sono fieri della loro vita come di alta poesia vissuta. Quest’uomo asciutto, dal profilo tagliente e acuto negli occhi, col suo dialetto che risente le cadenze di altre lingue, parla dei pozzi delle miniere di carbone di Germania, delle strade di Fremantle e di New York, come fossero i sentieri del suo paese. Un altro da San Francisco dirige per lettera la moglie che abita nell’ultima casa di Alleghe, su verso il Civetta, nei più minuti affari: “Vendi pur le patate…”. Vi sono grandi esempi: quelli che hanno lavorato al Gottardo, quelli che sono stati capimastri alle dighe del Nilo, nelle ferrovie del Congo e dell’Australia. Quelli che sotto l’Austria lavorarono alla costruzione della strada delle Dolomiti e per avere istigato al lavoro i compagni con queste parole: “Lavorate bene perché qui lavoriamo per noi” furono internati. Un altro, che è stato ferito ad Amba Alagi, e che della sua vita di guerra e di emigrante ricorda tutte le date, come fossero quelle dei primi amori, racconta del suo sdegno provato per l’uccisione del re Umberto e come quel giorno in segno di protesta egli non volle andare al lavoro nel fabrik. Egli parla dei suoi figli e vuole che siano tutti come lui: pronti a versare il loro sangue in guerra e pronti ad andare lontano a tentare le fatiche e le avventure di questo mondo.

Menelik alla battaglia di Adua (da Le Petit Journal)

Lontani per il mondo essi si arrangiano sempre e non hanno mai bisogno del console. Tipico è l’esempio di quel Mariano Callegari di Caprile che fatto prigioniero ad Adua trovò in un primo tempo modo di vivere lasciando che gli abissini lo credessero un dottore e preparando decotti di erbe senza sapere se facevano male o bene li somministrava in cambio di orzo. Ma poi giunto ad Addis-Abeba, saputo Menelik che egli era tagliapietra gli ordinò prima di fare una gradinata del suo palazzo e poi le sue vasche da bagno.

Ponte sul Cordevole in Agordino (foto di Gere72, Wikimedia Commons)

Spaccatori di pietre formidabili come per il piacere di un giuoco, quando poi si tratta di assestarle per costruire i muretti, essi hanno perfetto il gusto dell’incastro armonioso e consistente. Quello che essi vogliono è partire dal loro paese, ma poi ritornare. Anche l’andare soldato è sentito col piacere di un’emigrazione. E si adattano ad essere messi negli alpini che pur li riporta ancora tra le natie montagne solo perché in caserma si ritrovano tra compagni; ma se sott’ la naja possono raggiungere le grandi città grande è la loro gioia, come un anticipo sul futuro emigrare. Girando per questa valle in corriera o col trenino che va fino ad Agordo, tocca di incontrare emigranti che partono ed altri che arrivano, colle grandi valigie di fibra, coi vestiti di velluto, colle mani incallite e sbucciate dai lavori. Alcuni vengono da Roma dove spaccavano pietre, parlano di paghe e del sole che vi faceva quasi con lo stesso interesse, altri tornano dai confini con la Jugoslavia: parlano del vento che butta a terra la gente e di quelle terre dove gli spazi non coperti da rocce sono così pochi che bastano appena per seppellire i morti. Al rivedere le loro montagne e le acque ferrigne del Cordevole i loro occhi brillano di impazienza.

Una famiglia di emigranti

Altri emigrano più vicino, sono i meno eroici, ma emigrano essi pure e forse sono quelli che fanno i migliori guadagni: sono quelli che durante l’inverno scendono a Venezia a fare i salumai. Poi ci sono gli impagliatori e i fabbricatori di sedie di La Valle che si irradiano per il Veneto, per la Lombardia, per il Piemonte e finiscono col percorrere tutta la Liguria. Uno di questi arrivò fino in Francia e arrivato ad Agordo, felice dei lauti guadagni, nella piazza maggiore radunò gente e fece portare da bere perché tutti sapessero del suo ritorno e della sua fortuna. E non bisogna dimenticare le ragazze che non potendo più andare come un tempo nelle lingeries della Svizzera, prese dall’estro di gareggiare in vita e conquista con gli uomini, vanno a Milano e a Torino a servizio. Ma un giorno mentre mi trovavo sul lago gelato di Alleghe e il sole cominciava appena a illuminare i campi nevosi del Pizzo di Mezzodì incontrai due ragazzi poco più che decenni che venivano avanti trainando sulla neve una slitta. Uno teneva una sciarpa legata sulle guance e sopra il cappello, l’altro un berretto di pelo, aspri e accaniti come gente che abbia dormito all’aperto, mi chiesero se avrebbero potuto attraversare il lago per andare verso un gruppo di case sul pendio. Venivano dal Mas, con un carico di mele da barattare con patate. Si proponevano di fare tutta la valle, si nutrivano delle mele che si portavano dietro e nei loro occhi appariva l’entusiasmo della prima prova ad arrangiarsi fuori di casa.

Noè Bordignon (1841–1920) – Per l’America (Emigranti)

Tutta la valle, dalla stretta di Muda, dove formidabili pareti di nera roccia tutta cascatelle e zampilli mi hanno fatto comprendere la bellezza della Fontana di Trevi, fino ai vasti boschi dischiusi tra Rocca Pietore e le pendici della Marmolada, appartieni a questa gente, come il ballatoio d’una loro casa. Partono e quando ritornano, se sono ancora giovani battono i balli da un paese all’altro in cerca di nuovi e vecchi amori. Allora riconoscono che grandi sono le soddisfazioni di vagare per il mondo, ma che pure la loro valle dà piaceri profondi. Per ballare di carnevale, in una piccola stanza che si riscalda come un forno, non contano i chilometri su viottoli ghiacciati sotto le stelle che grandeggiano vivide nel cielo nero. Gli orbi e gli storpi, quelli che non si sono mai mossi dal paese, in un angolo formano la piccola e flebile orchestra. Girano le coppie e le teste si reclinano vicino ai capelli per le parole segrete. Ma la porta si apre, su dalla scala, ventilando di freddo la stanza. Una ragazza grida estasiata: “Le maschere!” Non entrano subito, ferme ai primi gradini si vedono i loro piedi battere al ritmo della musica che è qualcosa come una tarantella alpina, poi scendono e si fanno vedere. Alcune portano al capo neri scialli e al volto bianchi merletti. Sono attraenti e s’impongono come Tuareg o apparizioni spiritiche. Altre indossano i vecchi abiti che si usavano un tempo, tengono borsette o valigie al braccio e una un cesto coperto con dentro un povero gallo. Tutti si accostano alle pareti, lasciando che sole le maschere danzino alla vecchia maniera. Poi non le lasciano uscire fino a che non si sono smascherate. E allora si rivela che le più folli e frenetiche sono vecchie donne, che ancora non hanno smesso l’ardore di vivere e quelle pettorute e gagliarde altro non sono che ragazzi infuocati alle guance.

La Marmolada vista dalla Malga Contrin (foto di Giorgio Galeotti, Wikimedia Commons)

Vivono così queste sere piene di gioia, in questi balli segreti, in case sperdute ai limitari dei boschi, eludendo magari le leggi, ma essenzialmente in un’atmosfera di legge più forte di quella comandata, perché essi sono pienamente la vita. E poi perché non possono stare fermi e per loro, erranti infrenabili, è necessario ballare anche quando per gli altri sia vietato. Qui si ritraggono in questi periodi di sosta, e s’abbandonano ai piaceri, come ad un ritorno all’infanzia. Liberi e dominati dalla stessa vita che portano in sé, bastevoli sempre a se stessi, forti del sapersi arrangiare e difendere da sé, come durante l’invasione austriaca quando, mezzi abbandonati i villaggi, si ritrassero alle case di Fernazza, su sulla montagna, mettendo in salvo i loro averi e le loro provviste e si difesero a pietre dai nemici che non osarono per tutto il tempo arrivare fino al caseggiato.

Giovanni Comisso

da La Gazzetta del Popolo del 20/02/1933
Immagine in evidenza: Raffaello Gambogi, Gli emigranti, (1894), 146 x 196 cm, oil on canvas. Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno (fonte: Wikimedia Commons)

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