L’anima della frontiera. Intervista a Matteo Righetto

Matteo, è uscito il 13 giugno per Mondadori il tuo nuovo romanzo, L’anima della frontiera, già richiestissimo all’estero. Come stai vivendo questo momento felice?

Con grandissima gioia. La richiesta per i diritti del libro è in continua crescita. Sono già stati venduti in Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia e molti altri paesi. E’ la fine di un lungo percorso che sto comunque vivendo con molta umiltà perché so quanto sia effimero il successo. Spero solo di avere lavorato a un immaginario che possa in qualche modo corrispondere a quello di molti altri, soprattutto in paesi come gli Usa dove raramente arrivano libri italiani.

L’anima della frontiera, Matteo Righetto

Il tema del libro è emblematico.

Oggi è il ‘tema dei temi’ basti pensare all’ultimo Salone del Libro. Il mio romanzo ha intercettato questi argomenti e forse per questo è piaciuto all’estero.

La frontiera di cui parlo, però, non è solo geografica: nel corso della storia si trasforma in un limite etico, un confine tra il bene e il è male, ragione e follia, ricchezza e povertà. Il tema cardine è, infatti, quella labile linea tra ciò che siamo adesso e ciò che potremmo diventare tra cinque minuti.

Una storia che parla di ‘identità’come sempre nei tuoi romanzi.

Sì, ma anche di formazione. In questo caso quella di una ragazza, Jole che nel corso della vicenda diventa contrabbandiera di tabacco.

E’ il mio primo romanzo che ha per protagonista una donna. Sentivo da tempo la necessità di lavorare in profondità su una protagonista femminile e ho provato a farlo.

Credo che solo le donne sappiano essere davvero così forti e determinate e quindi mi piaceva che fosse lei, la Jole, a rappresentare questo universo. Non a caso dico ‘la Jole’ : è infatti l’unico personaggio del romanzo che ha l’articolo determinativo proprio per rafforzare questa sua determinazione.

Come nei tuoi precedenti lavori, un personaggio simbolo.

Sì, ‘la Jole’ diventerà simbolo del riscatto di tutti gli ultimi, quindi si tratta anche di un romanzo sociale: uno dei più grandi problemi che affliggono questo mondo è la violenza sulle donne, in tutte le civiltà.

Il tuo ultimo romanzo Dove porta la neve è una sorta di fiaba moderna che mette a confronto due solitudini e due generazioni. La neve è una grande valenza simbolica, come ElDiaol in La pelle dell’orso e il Latemar in Apri gli occhi. I protagonisti sono persone comuni che si trovano alle prese con situazioni estreme. Tre storie diverse ma, a ben guardare, uno schema identico e altamente simbolico. Narrare significa anche indagare gli archetipi profondi e i miti?

Per me narrare significa raccontare storie universali e questo significa tornare agli archetipi. Non mi interessa la contingenza; una storia attuale può essere ambientata anche nel ‘500. L’importante è che parli di vizi e virtù, di valori, che sia quasi fiabesca, che sia in definitiva pensata come un classico. Più che la contingenza,mi interessa l’essere umano.

Ad esempio, La pelle dell’orso, e questa è la sua fortuna, tra cent’anni avrà ancora un significato, perché parla dell’ umano che rimane lo stesso pur nel cambiare tempi. E credo che tutti i mie romanzi siano delle storie senza tempo.

Soprattutto nella trilogia della montagna, c’è sempre uno sguardo intergenerazionale e il tema della ‘responsabilità’ è centrale. Ce ne vuoi parlare?

La responsabilità è un tema che io sento da un punto di vista poetico. Crescere significa assumersi delle responsabilità. Ad esempio, Domenico, il protagonista de La pelle dell’orso deve responsabilmente riscattare la volontà del padre in sua assenza. Luigi e Francesca, i protagonisti di Apri gli occhi, devono necessariamente seguire questo imperativo che ordina loro di scalare il Latemar e ricordare il figlio perduto; e infine anche in Dove porta la neve, Carlo, con l’aiuto di Nicola, deve compiere un gesto necessario per la madre. Non solo il patto generazionale, ma anche il rispetto per la parola data.

Quanti adulti promettono e poi tradiscono!Una cosa tristissima perché significa che siamo eterni bambini e non riusciamo a crescere.

Molte tue opere presentano similitudini quando ad ambientazione e stile. Che evoluzione c’è stata nella tua scrittura?

E’ stata graduale ma constante e si può misurare nella scelta di ‘calibrare’ la parola, cioè di provare ad asciugare il testo per rendere più incisivo il peso delle singole parole e frasi.

La cosa però cui tengo di più, nella mia evoluzione, è riuscire a coniugare la dimensione epica con la dimensione elegiaca.

Raccontare cioè storie epiche ma al contempo dare ai personaggi profondità intima, elegiaca, poesia interiore. Questa secondo me è la mia vera cifra stilistica. Anche ne L’anima della frontiera, questa grande avventura che pur essendo un romanzo letterario, a volte sfocia quasi nel western, la protagonista è in costante dialogo intimo con se stessa in una dimensione quasi lirica.

Si può scrivere solo di ciò che si conosce? E’ importante tramandarne la memoria?

No, non è necessario conoscere ciò di cui si scrive. Ognuno può raccontare ciò che vuole, l’importante è essere credibili e scrivere belle storie.

Io però sento il bisogno di conoscere i luoghi, i profumi, le persone, il paesaggio ambientale e umano insomma. In questo senso sono uno scrittore veneto perché racconto la mia terra. Non potrei raccontare geografie che non conosco, soprattutto perché le mie storie sono realistiche.

Tuttavia, più che sulla memoria, lavoro sull’identità, l’essenza, la bellezza di un territorio che poi diventa anche memoria attraverso la scrittura. Mi interessa questo aspetto più che la memorialistica, la storia locale. La memoria come cultura umana e sociale. Come identità appunto.

A proposito di lingua, scrivere significa trovare una lingua con cui raccontare una storia? Oppure ogni storia ha la sua lingua? Parafrasando il tuo ultimo romanzo, dove porta la scrittura?

E’ vero che scrivere significa trovare una lingua e che ogni storia ha la sua. Però è altrettanto vero che ogni scrittore ha la sua lingua, anzi io preferisco dire la sua voce. La differenza tra uno scrittore e un autore è la ricerca della voce. Io mi considero un autore e lavoro costantemente affinché la mia voce sia riconoscibile come il sound di una band. Quando un lettore legge un mio libro, voglio che riconosca la mia voce d’autore.

La scrittura deve portare a questo:al perfezionamento di una voce per chi scrive, a maturare un’estetica ma anche una consapevolezza etica. La letteratura se non ti porta a riflettere non serve a niente. Sarebbe solo esercizio di stile.

E parlando di stile, in Apri gli occhi, hai usato una sorta di voce narrante precettiva che alterna l’indicativo futuro e passato e si passa dal tu al noi, anche all’interno di una stessa frase: “Lei aveva ventiquattro anni, lui ventisette. Iniziarono a sentirsi un corpo unico. Ed eravamo felici”. I personaggi vengono visti insomma da diverse angolazioni simultaneamente. Ci vuoi spiegare questa scelta?

E’ una scelta che il critico Alessandro Cinquegrani ha giustamente definito ‘cubista’.

Il lettore, con questo tipo di tecnica,entra ed esce dai personaggi, si sente a volte partecipe e a volte e estraneo, personaggio egli stesso e  a volte inveceosservatore dall’esterno. Questo aumenta in maniera sensibilele emozioni e gli strappi emotivi di questi personaggi durante la loro storia.

Nelle tue opere è centrale la natura in un rapporto dialettico con la vita dei protagonisti, come nel caso del disastro del Vajont. Di recente hai vinto ‘Premio Ghiande 2017’ al Festival dell’Ambiente di Torino e sei diventato uno dei 100 scrittori testimonial di Greenpeace, ci vuoi parlare di questa nuova avventura e quanto l’impegno ecologista faccia parte della tua etica di scrittore e di uomo?

Le mie opere sono sempre ecologiche, nel senso che l’ecologia ha a che fare con gli equilibria volte invisibili che ci sono tra uomo e ambiente.

Il Premio Ghiande 2017 mi ha dato molta soddisfazione perché si tratta di un premio autentico, senza giurie farlocche ed è stata riconosciuta con assoluta verità etica questa mia cifra ambientale ed ecologista sincera.

Tutti questi riconoscimenti, anche l’essere diventato testimonial di Greenpeace mi hanno ulteriormente responsabilizzato,chiamato a un impegno verso la natura e continuerò attraverso i miei romanzi il lavoro di sensibilizzazione su questi temi. Tutto questo fa parte sicuramente della mia etica di scrittore e di uomo. D’altronde la questione ecologica e di grande urgenza.

E’ notizia recente che La pelle dell’orso è nella cinquina per la Migliore Opera Prima nella finale dei Globi d’oro 2017. Anche Savana padana diventerà un film. Com’è stata questa esperienza con il cinema?

E’ stata un’esperienza bellissima, arricchente. Un onore e una grande gioia per me collaborare col regista Marco Segato, Marco Paolini e Bonsembiante. Vedere un proprio romanzo diventare un’opera cinematografica è molto emozionante. Per quanto riguarda la trasposizione di Savana padana, c’è questo progetto col regista Marco Borraccetto ma è una strada ancora molto lunga e non sarà facile.

I tuoi romanzi, pur essendo così radicati nel nostro territorio, hanno avuto successo all’estero. Sono stati, infatti, tradotti in varie lingue. Diceva Sciascia che «per essere cosmopoliti è necessario non esserlo». Cosa ne pensi e che risposte hai avuto dai tuoi lettori e dalla critica d’oltralpe?

In Francia Apri gli occhi ha avuto un ottimo riscontro di critica e sta vendendo bene. In Italia invece, nonostante i numerosi premi e menzioni (Premio Cortinad’Ampezzo e menzione al Rigoni Stern e Campiello),ha avuto meno successo commerciale. E’ un libro che narra di un grande doloree il lettore italiano medio non ama i libridolorosi, legge per distrarsi. D’altronde, noi siamo il paese della commedia. Quindi è chiaro che un libro così faticoso, così duro, non può avere un successo commerciale in Italia. Di questo ero consapevole ma io scrivo libri. Dopodiché se vendono meglio, se non vendono pazienza. Ai francesi piace che sia un libro che ti pone delle domande perché sono un popolo più maturo letterariamente e questo bisogna che ce lo diciamo.

Da qualche mese collabori al Foglio. I temi che affronti spesso sono gli stessi dei romanzi: ecologia, rapporti genitori- figli, lo schiacciamento su un eterno presente, l’identità e la memoria. In loro non manca il richiamo ai nostri doveri di umani. E’ anche questa la funzione dell’intellettuale oggi?

L’intellettuale deve scuotere le coscienze, far riflettere e deve anche saper provocare, magari esagerando. Quando scrivo i miei articoli, vado sempre controcorrente, sono politicamente scorretto  troppo comodo seguire il flusso dei benpensanti, dei perbenisti, del politicamente corretto. L’intellettuale indicare un’altra strada. Deve indurre a pensare, come anche un buon docente.

Il vero compito di un bravo insegnante è questo: insegnare a pensare.

Che rapporto hai con il mondo della letteratura da docente? Credi nelle scuole di scrittura per esempio?

I programmi sono anacronistici. Si dovrebbe lavorare di più sulla promozione della letteratura e della lettura e non solo sulla storia della letteratura.

Bisognerebbe far capire ai ragazzi, attraverso la lettura di romanzi e incontri con gli autori quanto la letteratura sia viva e importante per la loro vita.

Quest’anno, nel Liceo artistico dove insegno a Padova (Istituto Selvatico), ho tenuto un corso di scrittura creativa e i ragazzi erano entusiasti perché hanno avuto la possibilità di elaborare ognuno la propria storia. Questo ha dato loro grande autostima e gioia. Più che alle scuole di scrittura, credo negli scrittori. Possono avere un’utilità nel momento in cui riescono a far emergere il talento.

La letteratura americana sembra una tua fonte di ispirazione. Uno scrittore è prima di tutto un lettore. Quali sono stati i tuoi autori preferiti?

La letteratura americana è una delle mie fonti di ispirazione perché gli americani hanno quella cifra epica e gli americani, soprattutto gli autori del sud, hanno questo rapporto con la natura, con gli spazi aperti, sconfinati. I miei riferimenti sono tanti. Tra gli italiani Rigoni Stern, ovviamente.

Non sei certo uno scrittore autoreferenziale ma quanto c’è di te nei tuoi personaggi?

Non sono in nessun modo un autore autobiografico.C’è un po’ di me in tutti i miei personaggi e negli ambienti che descrivo però.

Un’ultimissima domanda: anche tu, come il ragazzino protagonista de La pelle dell’orso, eri un sognatore da piccolo?

Assolutamente sì ma lo sono ancora adesso!

Nonostante l’età, continuo ad alimentare il fanciullino che è in me. E questo mi permette di scrivere.

Il 29 giugno L’autore presenta il suo libro L’anima della frontiera presso la libreria Lovat (Villorba, Treviso), via Newton 32. Ore 18:30. Ne parla con Elena Mattiuzzo. Ingresso libero e gratuito.

 MATTEO RIGHETTO è nato a Padova nel 1972 e insegna Lettere. Ha esordito con il romanzo Savana Padana(Zona, 2009 – TEA 2012), seguito nel 2011 dal romanzo Bacchiglione Blues (Perdisa Pop). Ancora nel 2012 Righetto ha pubblicato negli Stati Uniti d’America il racconto “Cloudy Water” (Akashic Books, New York), short story segnalata agli Edgar’s Awards. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo La pelle dell’orsoda cui è stato tratto l’omonimo film prodotto da Jole Film e Rai Cinema (candidato ai David di Donatello 2017) e per la regia di Marco Segato, interpretato da Marco Paolini. Nel 2014 il GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) gli ha conferito il titolo di Accademico. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Apri gli occhi (TEA) vincitore Premio Cortina d’Ampezzo 2016; menzione d’onore della giuria del Premio Campiello 2016; menzione speciale della giuria al Premio Mario Rigoni Stern 2016. Nel gennaio 2017 ha pubblicato da TEA il romanzo Dove porta la neve). In occasione della XX edizione del CinemAmbiente Festival di Torino, gli è stato conferito il prestigioso premio “Le Ghiande” 2017 per essersi sempre distinto con una scrittura costantemente rivolta a uno sguardo sull’azione del paesaggio e dell’ambiente nella vita dei protagonisti delle sue storie.Nel giugno 2017 ha pubblicato da Mondadori il romanzo L’anima della frontiera, accolto come un vero e proprio caso editoriale internazionale. l diritti di traduzione del libro infatti, prima ancora di uscire in Italia, sono stati ceduti dall’agente dell’autore in più di dieci Paesi del mondo, tra cui spiccano: Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Germania, Olanda.

Arabella Bertola, vicentina, è docente e traduttrice e lavora a Padova. Da molti anni si occupa di letteraturae collabora con blog e riviste letterarie. E’ l’ideatrice e curatrice della rassegna“Serravalle Letteratur@” e “Un Castello di Parole”per l’Associazione Amici del Castrum di Vittorio Veneto.  Nel 2017 è statauna delle curatrici della rassegnaSillabari_Declinare Sentimentipresso il Liceo Berto di Mogliano Venetoin collaborazione conAssociazione quarantadue Linee.

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