“Osteria di pescatori” di Giovanni Comisso

L’inverno è già passato, questo aspro inverno che ha tanto ostacolalo la pesca obbligando i bragozzi a starsene ferini nel canale, disertori del mare.

E per questa gente se non si alzano le vele e se non si gettano le reti sono tempi tristi.

Se i pescatori non pescano, non guadagnano e non possono adattarsi a fare altro mestiere, perché le loro mani non saprebbero muoversi su oggetti diversi dai remi, dalla barra del timone, dalle funi delle vele. I loro vecchi calli sono tutti formati in relazione a questi familiari strumenti, e come i calli, i loro muscoli, i loro pensieri.

Se i pescatori non guadagnano, gli osti e i bottegai della città non guadagnano pure.

I pescatori si fanno tristi, chiusi in casa, avviliti, vergognosi di farsi vedere, quasi che il non potere pescare dipenda da loro stessi, dalla loro inferiorità di fronte agli elementi, un’inferiorità a cui non abbiano saputo porre un rimedio. E poi, sono in vero vergognosi, perché in mancanza di danari hanno dovuto impegnare il loro vestito da festa e non vogliono farsi vedere coi calzoni raggiustati, e non saprebbero cosa fare in osteria senza soldi per bere, dopo che gli osti hanno già fatto credito abbastanza.

Nell’osteria v’è stato un grande vuoto durante l’inverno, veniva la vecchia signora Mena, «vedova del defunto Luigi», a prendere la sua zuppa di fagioli con la polenta, veniva il Naccari, uno dei pochi pescatori al quale facevano ancora credito, per consumare la sua stretta cena.

Elvira e suo marito, due rivenditori di roba vecchia, il signor Mario con sua moglie Cristina, la venditrice di merletti e basta.

La vecchia Gigia oziosa, accanto al fuoco spento, era desolala, quel fuoco che in altri tempi la accaldava come una fornace fino alla mezzanotte per accontentare le richieste delle comitive affamate e allegre.

E non sapeva più quale santo invocare, sperava nel lotto che potesse con un bel colpo sostituire i mancati guadagni e gli ultimi soldi messi da parte se ne andarono per questa strada. Poi impegnò gli ori e ancora trovò modo di resistere non seppe neanche come.

Resistere fino a l’uscita dall’inverno e dal gelo. Arrivarono i primi venti di marzo con qualche stentato tepore e le vele vennero dischiuse e i pescatori ritornarono nel mare.

La vita riprese come dopo un letargo, adagio, riprese sostenuta più dalla speranza che dagli effettivi guadagni. Domenica sera non vi fu con incredula sorpresa, un vuoto come gli altri giorni. A poco a poco la porta d’ingresso si cominciò ad aprire, qualcuno entrava isolato, poi entrarono comitive di tre o quattro, poi comitive di decine dì pescatori e la signora Mena, il Naccari, la signora Elvira e suo marito, il signor Mario e sua moglie Cristina vennero sommersi, dovettero stringersi ai loro posti abituali, sopraffatti dal numero vociante degli altri.

Il banco del vino riprese il suo lavoro, il solito cameriere, il figlio della Gigia, non poteva accontentare tutti, venne chiamato un altro od aiutare. Il vino zampillava dalle botti, la Gigia friggeva, arrostiva, rimestava ogni tanto, un ragazzo doveva correre dal fornaio, perché la scorta di pane era esaurita. Si accaldavano i volti, biancheggiavano i denti, lucevano gli occhi, scricchiolavano le sedie, rimbombavano i tavoli sotto i pugni violenti: erano ritornati i pescatori coi loro vestiti da festa disimpegnati, con danari in tasca e frenesia di vivere.

L’inverno, il maledetto inverno se ne era andato, e le prue dei loro bragozzi con gli angeli suonanti erano ritornate a ornarsi di spumeggianti mustacchi nella corsa veloce.

La vita riprendeva per loro, i calli ritornavano alle loro mani e dietro ad essi rinvigorivano i muscoli e dietro ai muscoli si ravvivavano i pensieri e i pensieri felici si tramutavano in canto. Cominciarono da una saletta appartata il vecchio coro: «Viva Venezia. Viva San Marco col nostro Leon», un vecchio coro che è come un loro inno personale e subito da un’altra tavola nella sala grande risposero col coro dei Lombardi, e a questo si agganciarono tutti i più famosi cori delle nostre opere. E i vetri tremarono. Poi incominciarono i duetti e da ultimo si fecero avanti gli «a soli» ascoltati attenti e silenziosi da tutti.

Reclinavano il capo, si imbambolavano gli occhi, le grosse mani modellavano con delicatezza l’aria. Non mancava qualche stonatura, ma tutti ci passavano sopra e, quando terminavano, applaudivano con calore affettuoso.

Erano comitive di tutti uomini, tutti pescatori, le loro donne erano escluse, le avevano mandate al cinematografo coi bambini, chè, nell’osteria essi preferiscono essere assieme ai loro compagni.

I compagni di lavoro e della solitudine del mare, e questi loro canti li riportano sul mare dove è la loro vita. Ritornarono a cantare i cori, la sala rintronò come a un uragano che si formi lontano sui mare.

Arrivava il vasto canto alla Gigia che stava accaldandosi al fuoco e si consolava, arrivava e stordiva i camerieri, arrivava alle case vicine e alle finestre le donne si fecero ad ascoltare. Verso l’ora tarda l’aria dell’osteria era fusa di canti, di vociare, di fumo, di odore di fritto, di odore di vino, di calore di gente forte che banchetta, che vive, fu un grande assordo armonioso entro al quale questa gente pensava solo all’attimo che viveva.

Era già tardi, dovevano fare i conti e pagare, e queste sono operazioni sempre lente, lentissime, dietro ai vetri delle finestre erano apparse le loro mogli coi bambini in braccio, avevano già battuto ripetutamente i vetri, i mariti se ne erano accorti, ma continuavano lentissimi a fare i conti e a tirare fuori i soldi uno alla volta.

Le donne batterono ancora, impazienti di andare a casa, e appressarono ai vetri, per farli vedere, i bambini addormentati.

Uno di questi pescatori, alzandosi, mi mostrò il suo bambino che in quel momento schiacciava il naso contro il vetro. « Ha diciotto mesi — mi disse ambizioso — ma già sa cantare, diventerà un leone, come suo padre».

E barcollando come se il pavimento fosse quello del suo bragozzo in tempesta andò nella calle verso la piccola moglie che fremeva nello sguardo come un animale selvatico appena catturato.

Giovanni Comisso
Il Giornale, 24 luglio 1953

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