Templi e vestigia greche: il tempio di Segesta

Templi e vestigia greche: il tempio di Segesta

Lungo la riva del mare si elevavano altissime pareti rosa in rovina e sotto, nell’ombra degli oliveti, intere famiglie sedute per terra facevano la cernita delle olive cadute. Bianchi paesi vicini e lontani verso le cime dei monti e sul mare calmo e azzurro piccole barche andavano alla pesca. Il sole era scottante accanto al finestrino, anche arrivando a Segesta vi si trovò solo la stazione ferroviaria.

Tempio di Segesta – panorama (foto di sandrino100, Wikipedia)

Un strada andava verso la valle, camminai nel pieno sole, nel silenzio e nella solitudine ed era meraviglioso.
Vicino a un ponte sul torrente un sentiero saliva per il colle del tempio che non si vedeva ancora, oltre il torrente si alzava un monte per terminare in una vetta rocciosa, dove era l’acropoli. Scorsi tra l’erba gigli azzurri d’un profumo dolcissimo, presto mi trovai su di uno spiazzo da cui apparve tutta la posizione dell’antica città e il tempio intatto, che stava solo superstite.

La varietà e il ritorno continuo delle curve delle alture che delimitavano quella valle, un giorno abitata dai greci, mi convinsero che solo un poeta o un architetto potevano avere scelto quel luogo. Qui una vita civica può subito iniziarsi e svolgersi come in un teatro la trama di un’opera.
Salii verso il tempio isolato contro lo sfondo di un’alta parete di roccia del monte vicino. Tutte le colonne erano intatte, pure il timpano e il cornicione attorno erano intatti, mancava solo il soffitto. Erano colonne di pura roccia, la roccia del monte vicino che rotolava giù e sagomate rivivevano in una compattezza imperitura, come se si fossero tramutate in un altro complesso naturale, in un’altra propaggine del monte.

Sul pavimento del tempio era germogliato uno strato di erba grassa e fiorita di calendole e di pratelline. Questa erba era umida all’ombra delle colonne, ma dove batteva il sole era asciutta e calda come il pelame di una bestia.
Mi buttai disteso col desiderio di addormentarmi, come un pastore, tra la chiostra di quelle colonne tutelari. Il grande e profondo cielo della Sicilia ventilato da tutti i mari che la circondano si inquadrava come un vetro tra quei cornicioni di roccia.

Il silenzio era grande, ma non potevo dormire: pensavo come dovevano apparire le stelle in una limpida notte tra quelle stesse pietre. Le case, il mercato, i bagni di Segesta erano crollati e scomparsi senza lasciare alcuna traccia, solo quel tempio era rimasto intatto.
D’un tratto mi scosse, come se già mi fossi assopito, un gridare acuto e vidi il cielo attraversato da un nero volo di corvi. Volteggiavano sul tempio che era forse la loro tana, mi videro sull’erba, diffidarono e si buttarono giù nella valle per scomparire.
Scesi allora i gradini del tempio e tra gli stocchi di cardo scorsi impigliati alcuni bioccoli di lana di pecore che erano passate di là, come fossero state portate poco prima al sacrificio sull’ara.

Giovanni Comisso

Pubblicato nel numero speciale della rivista “L’Illustrazione Italiana” dedicato alla Sicilia del Natale 1952.

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