Giovanni Comisso - Venezia senza maschera (Parte 2 di 2)

Venezia senza maschera (Parte 2 di 2)

Storie vecchie e nuove di una città che per tre mesi l’anno diventa la capitale del mondo

Venezia senza maschera (Parte 1 di 2) | Venezia senza maschera (Parte 2 di 2)

Qualche buona notizia affiora sulle placide acque lagunari. È di questi giorni che s’è saputo che il governo ha promesso di inserire il progetto per l’autostrada da Venezia a Monaco di Baviera, tra quelle di serie B, cioè contribuendo per il quattro per cento della spesa annua per trenta anni. I lavori verranno iniziati prestissimo, in modo da realizzare in qualche anno il primo tratto Venezia, Treviso e Conegliano. Il tratto montano nel valicare le Alpi sarà dei più ardui, passerà per Cortina e Dobbiaco, filando direttamente su Monaco senza deviare per Innsbruck e per questo trova una certa ostilità nei tirolesi.

Il difetto dei veneziani è che s’accorgono dei loro problemi vitali e ne discutono appena finita la stagione estiva nell’angoscia che i milioni di forestieri non abbiano più da ritornare a portare il loro oro. poi arrivata l’estate, vedendo che ritornano ugualmente, non ne parlano più fino all’autunno. Per quarant’anni si discusse se si doveva o no fare il ponte stradale per collegarla alla terraferma e quando s’aperse il grande viale del Lido, che dalla Laguna porta al mare, Pompeo Molmenti s’indignò perché era stato abolito l’aspetto romantico di quell’isola. Costruito il ponte lagunare, grande parte del piazzale Roma che avrebbe dovuto accogliere le macchine in arrivo è stata occupata da baracche con caffè e uffici che potrebbero stare altrove. Così d’estate, ma anche nelle altre stagioni le macchine devono parcheggiare lungo il ponte fino a un chilometro dal piazzale. E nei periodi di massima punta le guardie civiche di Mestre devono da qui avvertire le macchine straniere che non giova arrivare a Venezia, perché non troverebbero posto per parcheggiare. Da anni è stata ideata vicino al piazzale Roma un’isola, chiamata del Tronchetto, che verrebbe collegata col piazzale, ma disegnata sulla carta e col perimetro di pietre sul pelo delle acque, sarà compiuta solo entro l’anno, perché il Comune non è riuscito ad avere con sollecitudine la concessione da parte dello Stato del possesso di quella mediocre area d’acqua. Questo problema che è uno dei più importanti perché riguarda quelle condizioni dell’arrivo a Venezia, che riescono determinanti per la fama della città, è stato considerato ozioso. Oggi, nelle condizioni attuali, si possono ospitare in tutto 3.700 macchine, mentre vi sono già seimila veneziani che hanno la macchina ed entro dieci anni saranno sedicimila, ma con la nuova isola si potranno parcheggiare 14 mila macchine.

Venezia – Ponte della Libertà, 1933 (Alainauzas, WikImedia Commons)

Nel complesso problema della viabilità d’accesso a Venezia, vi sono due correnti: l’una, quella interessata solo al movimento di forestieri ricchissimi ed eletti, vorrebbe impedire od ostacolare il più possibile l’accesso al grande turismo di massa. L’altra invece pensa che non si può più opporsi a questo turismo e che nello stesso modo che si facilita a entrare, si facilita a uscire evitando tanti ingombri soffocanti durante l’estate. Questa corrente sembra la più giusta e così si dovrebbe completare la strada costiera adriatica da Lignano a Punta Sabbioni che agevolerebbe l’afflusso temporaneo a quei milioni di stranieri che vanno a bagnarsi in quelle spiagge. Certo Punta Sabbioni dovrebbe essere collegata con navi traghetto al Lido, il quale verrebbe ad avere una vita estiva meno isolata dell’attuale. Altro inconveniente che lascia indifferenti i veneziani è il collegamento tra piazzale Roma e il centro della città per via d’acqua. Durante l’estate il Canal Grande e il Rio Novo non sono sufficienti e con qualunque mezzo s’impiega dal centro mezz’ora, tre quarti d’ora e certe volte anche un’ora, mentre con un collegamento direttissimo attraverso il canale della Giudecca s’arriverebbe a piazza San Marco in dodici minuti, ma per deciderle ci vorranno i tradizionali quarant’anni di discussioni. Finalmente dopo aver esperimentato per qualche anno certi barconi rudimentali per il traghetto delle macchine dal piazzale Roma al Lido, si sono decisi a mettervi delle navi traghetto, ma sono così lente e così poche che servono scarsamente. Quasi un secolo addietro i veneziani erano più veggenti degli attuali: dovendo provvedere alle comunicazioni lagunari, pensarono di andare in Olanda per vedere cosa si era fatto in quel paese che ha una configurazione analoga e vi ordinarono una flottiglia di quei vaporetti, che il popolino chiamava caffettiere, le quali, per il collaudo, dall’Olanda vennero via mare attraverso lo stretto di Gibilterra. Se adesso andassero di nuovo in Olanda potrebbero apprendere in quale modo si devono usare le navi traghetto.

Circa un altro problema, quello delle costruzioni, bisogna dire subito che Venezia, per risultare autentica non deve essere tenuta in un trasandante abbandono. I restauri alle case vecchie, tipiche nello stile veneziano, e agli antichi palazzi si sarebbero doverosamente fatti anche nei secoli lontani. Adesso si viene a sapere che il crollo del campanile di San Marco non fu dovuto all’invecchiamento del suo corpo, ma all’incuria dei preposti alla tutela i quali non s’erano accorti che la scala interna con le sue murature era marcita, e precipitando dall’alto aveva fatto una forte pressione alla base procurando lo scoppio e il crollo. Adesso se qualche palazzo crollerà por l’immanente incuria, i soliti speculatori saranno ben felici per potere costruire al suo posto un palazzo moderno.

Il Canal Grande e il Ponte di Rialto a Venezia (foto di Martin Falbisoner, Wikimedia Commons)

I palazzi di maggiore importanza si reggono nella loro manutenzione per una vitalità artificiale, solo perché sono occupati da banche, da enti industriali o di cultura o di pubblica amministrazione. Ma i soliti speculatori vorrebbero che si creasse un quartiere direzionale tra i Tolentini e piazzale Roma, con grandi palazzi di nuova costruzione per accogliere una grande parte di quegli enti che ora occupano gli antichi palazzi. Si pensi, se questo si facesse, come si ridurrebbero quei palazzi rimanendo disabitati e privati di quella manutenzione che già ora non è del tutto esauriente. Venezia è stata rovinata la prima volta da Napoleone, il quale cacciandone via i frati, ha messo a disposizione del popolo i loro conventi, coi grandi orti e giardini, per farne tristi abitazioni amorfe. A Napoleone successe l’on. Luzzati con le sue case popolari che finirono di snaturare il bellissimo e tipico quartiere della Giudecca e di quelli vicino alla stazione e al piazzale Roma. E i primi a dirne male sono gli stessi inquilini operai che vi si trovano come in campi di concentramento, i quali sarebbero disposti a rinunciare alla semigratuità dell’alloggio, pur d’avere un’abitazione meno reggimentale.

Secondo l’opinione di esperti, attualmente non vi è bisogno di nuovi appartamenti a Venezia, ma è necessario che si sistemino gli esistenti. Invece ogni giorno o con la scusa che una casa sta per crollare, o che assolutamente vi è gente che non sa dove abitare, ora in un posto ora in un altro, si scoprono i soliti sventramenti con costruzioni moderne orrende.

Proprio l’altra sera, attraversando a piedi una parte della città, mentre nel buio apparivano sorprendenti come scenari ideati dal Veronese, da Tiepolo, da Guardi, ora palazzi arabescati che sembravano fatti per reggere le stelle, ora facciate di chiese di semplici mattoni con pochi decori in marmo che risultavano come gioielli sul petto d’una donna, ora case umilissime, ma misteriose: d’improvviso, ai Tolentini, la linea dei vecchi palazzi era stata interrotta per castruire una casa tollerabile appena a Sesto Calende.

Francesco Guardi – Piazza San Marco a Venezia, ca. 1760, Accademia Carrara, Bergamo

Altro problema che dorme ormai da tempo è quello di dare a Venezia un’attrazione turistica invernale, come l’aveva nei tempi aurei. Ma in quei tempi esisteva un carnevale veneziano con feste pubbliche, spettacoli teatrali e concerti musicali nelle sue sale adatte. Nel Seicento la Venezia teatrale e musicale aveva sedici teatri a sua disposizione e alcuni grandi conservatori musicali. Nel Settecento aveva quattordici teatri, ora ha solo un grande teatro: La Fenice, per l’opera lirica e per i concerti, mentre per la prosa, la patria di Goldoni e dei Gozzi, ha il teatrino del Ridotto di trecento posti. In queste condizioni se la città di Venezia volesse uscire durante l’inverno dal suo letargo con rappresentazioni del teatro di prosa, non può perché nessuna compagnia importante va a esibirsi nel solo teatro esistente capace solo per recite di burattini. E questo perché il teatro Goldoni a San Luca, del 1661, che appartenne alla famiglia patrizia Vendramin, come tutti gli altri ad altre famiglie che volevano farsi onore, fu espropriato dal Comune per tenerlo chiuso da anni per essere a sola disposizione dei topi.

Interno del Teatro La Fenice visto dal palcoscenico (foto di Orric, Wikimedia Commons)

Durante l’inverno un forestiero non va a Venezia se non vi si riesce a organizzare niente di gaio come un tempo e il Carnevale deve essere considerato come una stagione di penitenza. L’unico spettacolo gaio è quello dell’acqua alta con la sua intonazione da diluvio universale, con le gondole in piazza di San Marco, con le passerelle improvvisate e coi sancristofori trasportatori sulle spalle da un punto asciutto all’altro, ma questo spettacolo è organizzato dalla natura la quale lo esibisce senza preavviso.

Foto di Helena Jankovičová Kováčová

A proposito di questo fenomeno che viene a ripetersi ogni anno con sempre maggiore frequenza quasi si debba riservare per Venezia, già sorta dalla schiuma delle acque, di finire per essere risommersa, s’è voluto interpellare l’ingegnere Eugenio Miozzi che da anni studia la situazione speciale di questa città in rapporto all’edilizia. Egli è stato ingegnere capo del Comune quando sì trattò di risolvere il problema dei ponti dell’Accademia, degli Scalzi e del Rio Novo. Si deve a lui la geniale risoluzione di sostituire il vecchio pente in ferro dell’Accademia costruito dall’Austria, con quello attuale in legno, che non solo ricorda felicemente i primi ponti costruiti in Venezia, ma che s’ambienta e si adatta meravigliosamente all’acqua che valica. Anche il ponte grande e alato, in pietra, degli Scalzi, che sostituisce altro ponte in ferro di fattura austriaca, fu ideato e costruito da lui e completa la sua gloria. Le idee di Eugenio Miozzi, in un primo momento per un uomo, per così dire tolemaico, destano stupore e rendono increduli. Ma se facciamo astrazione dal ritenere che la nostra terra sia al centro dell’universo, come un eterno, inalterabile e solidissimo palcoscenico per il regno assoluto dell’uomo, tutto risulta chiaro e convincente. Egli sostiene che come nel Polesine le frequenti alluvioni attuali sono dovute a un abbassamento del terreno causato dalle assidue estrazioni del metano in quelle zone, così in Venezia uno stesso abbassamento si è verificato incominciando dall’apertura, nelle isole attorno e nella terraferma immediata, di pozzi artesiani che, estraendo l’acqua sotterranea creano il vuoto e la depressione delle falde freatiche. Questa depressione è ancora maggiormente aumentata da quando la zona industriale di Marghera estrae migliaia di metri cubi d’acqua al giorno dal terreno sottostante, invece di procurarsela per deviazione da qualche fiume vicino. Per documentare questa depressione egli mostra alcune fotografie di case veneziane che in periodo normale di marea hanno la soglia della porta di canale sommersa dalle acque e di certe rive che si sono dovute rialzare di 87 centimetri, perché ridotte sotto al livello normale dell’acqua. Dire queste cose ai veneziani, a questi tolemaici irreducibili, li fa ridere e allora per cercare di convincerli devono essere citati innumerevoli casi analoghi avvenuti nel Texas e in California dove è stato positivamente provato che estese irrigazioni prodotte a mezzo di pozzi artesiani hanno provocato abbassamenti del terreno fino a novanta metri e che dal governo americano fu non solo vietato questo sistema, ma provveduto, dopo studi adeguati, a una riammissione di acqua nel sottosuolo, ottenendo soddisfacenti risultati di risollevamento del terreno. Certo che fa ridere dire queste cose ai veneziani che per asse­stare il selciato di una calle sembra che debbano mettere a soqquadro l’orbe terraqueo, ma speriamo che un giorno non abbiano amaramente da pentirsi di non avere sollecitamente attuati i rimedi proposti da Eugenio Miozzi e da lui esposti quest’anno all’Istituto Veneto.

Auguste Charpentier . Ritratto di George Sand

Altra curiosa situazione di Venezia è che durante l’estate la smania epidermica dei giornali e di tutti gli altri mezzi di informazione e di richiamo fa andare in esultanza appena arriva qualche semplice attrice, come se si trattasse d’un ritorno di George Sand, o di un effimero attore il cui valore consiste solo nella tecnica del bacio, quasi egli sia o Wagner o Mann, ritornati per accrescere col loro genio la gloria di questa città.

Tanta esultanza elettrizza la folla che più si educa con l’istruzione obbligatoria, più perde il senso esatto dei valori dell’intelletto, mentre nessuno parla e quella folla non sa di pochi uomini, che anch’essi meriterebbero di essere salvati da quell’ipotetico incendio della città, i quali vivono a Venezia e lavorano e creano, pure in campi diversi per una gloria che sorpassa la laguna e tutti i confini.

Uno è Gregorio Sciltian il quale dopo avere consegnato alla cattedrale di Echmiadzin, la città santa dell’Armenia sovietica, una grande pala d’altare rappresentante la Madonna dell’Armenia, è venuto dall’estate a stabilirsi a Venezia e ha preso studio alla Giudecca vicino alle Zitelle. Qui egli lavora assiduo e ignorato a grandi quadri destinati alla chiesa di S. Giovanni Battista che verrà presto inaugurata a Campi Bisenzio allo sbocco dell’autostrada del Sole. Fu a lui affidata la decorazione delle nove grandi pareti con un quadro centrale fitto di figure rappresentante il battesimo di Cristo e alle otto altre pareti figureranno otto angeli simbolici, trattati su una base di bianco e nero con lievi velature colorate che dànno un nuovissimo effetto.

Di lui se ne sono accorti solo gli abitanti della Giudecca che gli servono da modelli molti dei quali si sono sacrificati, naturalmente dietro giusto compenso, a lasciarsi crescere la barba.

Gregorio Sciltian Con la moglie, 1955

Un altro è l’ingegnere Carlo Semenza che ha modellato le dighe più ardite per gli impianti idroelettrici nelle vallate del Piave, col magico tocco di un antico vasaio e che dal Giappone all’America viene chiamato per dare il suo prezioso consiglio.

L’altro ancora è l’austriaco Benno Geiger, veneziano dalla giovinezza, che dopo aver tradotto in versi tedeschi il Canzoniere e i Trionfi di Petrarca, in questi giorni quasi ottantenne, ha finito di tradurre tutta la Divina Commedia. Dopo tanti tentativi di tradurre Dante in tedesco, egli ha portato con questa traduzione, all’orecchio germanico, intatta la musicalità della terzina dantesca senza corrompere il contesto, e l’Accademia Tedesca di Darmstadt lo ha riconosciuto con un premio solenne.
Giovanni Comisso

da L’Espresso Mese, numero 3 Marzo 1961
Immagine in evidenza: Foto di Frans van Heerden

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