Venne il giorno in cui si decise di partire dall’oasi di Biskra, di lasciare le belle Uled Nail, le loro danze, le vaghe ombre delle palme, il cavallo bianco e l’immateriale solitudine del deserto.
Alla mattina presto Abd Allah venne ad accompagnarmi alla stazione col capo incoronato di narcisi che gli pendevano lungo le tempie abbrunite, come tutti i giovani in quei giorni di primavera. Alla stazione si credeva di trovare lo stesso ottimo treno che mi aveva portato da Costantina e invece toccò salire in un altro la cui lentezza insopportabile e il traballio superavano quelli delle vecchie diligenze. Giovò tuttavia per godere dal finestrino tutta l’oasi in fiore di El Kantara: palma per palma, albicocco per albicocco.
Ma poi tutto divenne esasperante. Nella stessa vettura vi era una signora americana e si tentò di sorridere sul pessimo scherzo combinatoci dalle ferrovie francesi. Unica via d’uscita era di scendere a Batna, di andare a visitare i ruderi della città romana di Timgad e di ripartire col treno migliore della sera. La signora americana fu d’accordo con me e scendemmo a Batna, dove si noleggiò un’automobile.
La strada era buona, ogni tanto qualche rudere emergeva dalla campagna brulla, i monti squallidi erano striati di neve. L’automobile si fermò davanti ad una sbarra simile a quelle dei passaggi a livello: eravamo giunti a Timgad.
Sul terreno incolto, contro le montagne basse e desolate spuntavano innumerevoli mozziconi di colonne d’un colore d’ossa dissepolte, che ricordavano una foresta falciata dalla guerra. Il sole s’era fatto forte. Un silenzio da cimitero e una tristezza da fuggire prendeva ad ogni passo. Si percorse strade le cui pietre erano segnate dalle ruote dei carri, si entrò nelle case con le pareti monche, si scoperse un’antica latrina e si sorrise, si visitò le terme senza statue, il teatro appena capace di duecento persone, il foro con solo qualche coppia di belle colonne e un tempietto totalmente crollato. Le case lungo le strade dovevano essere modestissime; insomma una piccola città di provincia. Qualche lapide e per cortesia bisognava tradurre alla compagna di viaggio.
Quasi tutti i dodici Cesari s’erano interessati alla prosperità di quella cittadina della Numidia e al vedere scolpiti sul marmo quei nomi a bellissimi caratteri snelli, ci si sentiva riavvicinare all’Italia. Ci si sentiva come in un ambiente familiare e alla straniera venuta così di lontano si faceva tutti i più calorosi onori di casa. Le si mostrava le camere da letto attorno all’impluvio, le botteghe, i portici e, entrati in una casa po’ elevata, si volle con insistenza che facesse attenzione al mosaico del pavimento in grande parte coperto dall’erba.
Mi sentivo a casa mia e volevo suscitare meraviglie nella forestiera che difatti non faceva che ripetere: — Interessante. — E colle sue scarpine volle affaccendarsi a raspare l’erba per meglio vedere il disegno. Le impedii una simile fatica e con un coccio di un’antica anfora battei per togliere l’erba e il terriccio. I colpi risuonarono nel silenzio, il sole accaldava e non si riesciva a scoprire che piccole parti del disegno che poi era molto alla buona. Ma d’improvviso ogni nostro affaccendarsi venne distolto da grandi grida rivolte contro di noi. Un arabo lunghissimo con un mantello bianco e occhiali affumicati, seguito da altri turisti erano sbucati su da un muricciolo, tutti gridanti nel precipitarsi verso di noi. L’arabo era il custode delle rovine e i turisti erano francesi. Smesso di urlare, ma sempre agitando con le braccia il suo mantello l’arabo ci accusò violentemente di avere rotto il mosaico e di essere stati sorpresi mentre si tentava di rubarlo.
“Eccoli, eccoli questi stranieri” dicevano i francesi “vengono qui da noi col sacco alla mano a fare strage dei nostri patrimoni pubblici”. Non valse la testimonianza della signora americana, non il mostrare che del mosaico non mancava un dado, inferocito contro di me uno di questi turisti, magro, pallido con la macchina fotografica a tracolla mi gridava: “Votre carte, votre carte”, e imponeva al custode di fare subito il processo verbale e di condannarmi a una forte multa. “Mais oui, mais oui! Vous avez détruit un monument public”, gridava come una gallina inviperita.
Nonostante il sole molto forte seppi mantenermi calmo. “Ma sì, ma sì, guardino, siamo stati noi a distruggere tutta la catta di Timgad” e distesi il braccio indicando tutte le rovine all’intorno. Lo signore che erano con loro si volsero a guardare dove si indicava col braccio e si misero a ridere. Il pallore del turista rendeva il volto quasi trasparente nel grande sole. Accanito aveva preso a discutere col custode per cercare il modo di impormi una multa. Ne approfittammo per volgere loro le spalle e scendere verso l’automobile. Mi rammaricavo di avere perduto quel tempo che avrei potuto invece godere ancora a Biskra tra le gaggie e le palme in sella al cavallo bianco o disteso nel caffè moresco tra la musica araba e le Uled Nail.
Per la strada incontrammo una squadra di galeotti scortati da militari che rientravano dal lavoro nel reclusorio vicino. Volti bruciati dal sole e rugosi, camminavano con forza nel loro vestito a righe, chiusi in loro stessi.
La sera scendeva fredda e con tristezza si rientrò a Batna, lugubre e informe. Mancava tempo al treno, la signora americana andò a girare per le strade squallide, e non sapendo dove sostare andai alla stazione. Era piena di soldati algerini che andavano in licenza por festeggiare la fine del Ramadan, e per trovare un posto tranquillo entrai in una trattoria attigua, illuminata a petrolio. Si sentiva la desolazione dei monti, il freddo, una smania di partire, si pensava ai reclusorio vicino, alle rovine di Timgad simili a un cimitero e, con stizza, alla tracotanza di quel turista francese con la macchina fotografica a tracolla. Per distrarmi decisi di mangiare e ordinai qualcosa.
Mentre attendevo avvilito, la porta si aperse ed entrò un signore magro e pallido con la macchina fotografica a tracolla che subito volse il capo come per non essere riconosciuto. Passò in cucina e s’intese ordinare da mangiare. Era lui, quello che gridava al custode di farmi subito il processo verbale e si pensò con gioia che ora avrei avuto la rivincita. Dopo un po’ il cameriere venne ad avvertire che era pronto e credendo di farmi un piacere fece accomodare alla mia stessa tavola il turista che si sedette distrattamente. Venne portato uno zuppierone in mezzo alla tavola, ma nessuno osava servirsi per primo, infine con falsa gentilezza lo invitai a servirsi a suo piacimento. Accettò. Non si parlava.
Tra una cucchiaiata e l’altra volgevo lo sguardo sulla mobilia tetra della saletta. V’era una specchiera di vecchio stile, lucida e nera. E si pensava: “Prima di alzarmi devo fargli capire che ha esagerato. Devo fargli capire che non s’ha bisogno di portargli via le antichità romane. Che ne abbiamo abbastanza in Italia e che infine erano cose nostre”. Più d’una volta m’ero deciso di forbirmi la bocca, di bere un sorso d’acqua e di incominciare ad inchiodarlo, ma poi stabilivo: “No, dopo le frutta”. Vennero le frutta, servite pure queste in comune e allora fu egli che volle mi servissi per primo. Sbucciata e mangiata un’arancia: “Ecco, questo è il momento”. Mi dissi. E lo fissai in volto con tutta la ferocia possibile, ma quale fu l’immediata sorpresa nell’accorgermi che aveva due piccoli baffi spioventi che risaltavano nerissimi sul cereo pallore, mentre l’altro non ne aveva per niente. Mi subentrò una felice allegrezza che annientò noia e rancore, che mi fece sorridere gentilmente, mentre gli facevo un breve inchino nell’alzarmi per andare a pagare alla cassa.
Giovanni Comisso