A tavola con Giovanni Comisso. La cena di Trimalcione

Gran finale di una serie di articoli dedicati dal nostro Scrittore alla convivialità. Ci eravamo salutati da Alfredo, ai Tre scalini, ci ritroviamo oggi ad assistere ad un incredibile banchetto che si svolge proprio sul Ponte di Bassano. Accomodatevi, non rimarrete delusi…

Sul Ponte di Bassano

Bassano accoglie con un viale acutamente profumato, non la rivedevo dalla primavera dell’ultimo anno di guerra quando per le sue vie le divise blu chiare dei soldati francesi si accordavano con quello delle violette lungo i fossi delle strade di campagna, e il cannone ogni giorno tentava di colpire i ponti sul Brenta.

Il ponte della canzone degli arditi! Il magnifico ponte di legno rossastro del Palladio, con le sue balaustre e la sua tettoia che lo rende simile ad una vasta terrazza sospesa sulle acque irruenti del fiume.

Sul ponte di Bassano
ci sta una bella mora
tutte le sere ’la vien fora
cogli arditi a far l’amor.

Non ci si dimentica di questa canzone che era la poesia d’una realtà di quel tempo e una squadra di vecchi combattenti che sono arrivati in bicicletta da lontano, appena giunti nell’ombra del ponte, hanno fatto sosta e si sono messi a cantarla.

Vecchie glorie

Ma vecchia gloria di Bassano  è l’arte dei da Ponte, i famosi Bassano. Erano sei: Francesco, il vecchio, il figlio Jacopo e i quattro figli di questi, Francesco, Leandro, Giovambattista e Gerolamo.

Il grande è però Jacopo e le sue opere migliori sono quelle lunghe tele dove sembra voglia sviluppare in liriche sinfonie i motivi delle ceramiche locali che sono altra gloria di Bassano. Sinfonie delle stagioni, delle opere e dei giorni, con un senso di umanità attentissimo e delizioso.

Ma queste opere sono assenti dalla sua patria. Molti sono i quadri dei Bassano qui nell’ordinato museo, e alcuni assai belli, tutti di soggetto religioso.

Questa terra sublime di colli, di pianure e di acque, con contadini tra le vigne o sui solchi, con pescatori sulle rive del fiume, con pastori sulle pendici dei monti, con fabbri, falegnami nelle loro botteghe, con mercati che popolano le piazze, era maggiormente sentita da Jacopo ed egli la ricomponeva felicemente nelle sue tele popolose, dove, tutti i mestieri, tutte le scene del vivere, dall’amare al mercanteggiare, al lavorare e al dormire, si fondevano armoniose come viste dall’alto di un colle.

E’ stata restaurala la sua casa, tutta affrescata alla facciata da lui stesso: urbis decori, viatorumquelaetitiae.

L’altra gloria di Bassano sono le ceramiche, gloria di antichissima data. Questa arte di origine artigiana si tramandò di padre in figlio; famosi furono i Passarin, i Baroni, i Bonato, gli Antonibon, i Viero. Il massimo splendore fu raggiunto nel Settecento. Le fabbriche sorsero in Bassano e nel vicino paese di Nove.

Si fecero porcellane, maioliche, ceramiche e terraglie, imitando secondo i gusti del tempo le creazioni di Rodi, di Faenza, di Delft. L’originalità delle fabbriche di Bassano fu nei piatti con scene delle stagioni o di mestieri, ve ne sono alcune del Seicento schizzate con gioia e (strana coincidenza) mi ricordarono certi kakemoni giapponesi della stessa epoca, d’uguale soggetto, pennellati cogli stessi tocchi rapidi e facili.

Altre originalità locali sono le grandi zuppiere coperte fatte a forma di verze, di oche, di galline o di poponi, i vassoi o i vasi traforati come fossero fatti di vimini e le terraglie di tinta avorio. Bassano e Nove lavoravano soprattutto per Venezia, per Venezia settecentesca rifornendola dei famosi servizi per caffè e di quelli da tavola.

Alla vista di questi servizi viene voglia di immaginare, con un estro alla Jacopo da Ponte, un fastoso banchetto di numerose dame e cavalieri, magari all’ombra ventilata della grande tettoia del ponte palladiano.

Fantasia

Ecco, una decina di paggi che portano uno dietro all’altro in fila gli scherzosi zuppieroni che fanno pensare alla cena di Trimalcione: sono oche incuriosite, galline in atto di covare, verze scoppianti, si alzano i coperchi e viene servita ai convitati plaudenti and dolcissima minestra di riso e piselli.

Alle zuppiere di porcellana rosa, dove sono dipinte scene d’amore e di caccia, si accoppiano i vetri di Murano che vengono subito colmali e vuotati del vino dei colli vicini.

I cani al profumo della minestra si agitano abbaiando nella pretesa della loro parte. Nella cucina  attigua, al principio del ponte, i cuochi imberrettati di bianco si sbracciano attorno a grandi pentole bollenti e i ragazzi con delicatissime dita, accuratamente lavate, stanno sbucciando un centinaio d’uova sode.

Dall’altra parie del ponte una orchestrina unisce la musica al mormorio del Brenta contro ai piloni di legno e alle chiacchiere vivaci dei convitati, accentuate da impetuose risale che si propagano per tutta la tavola.

Arriva la seconda pietanza: sono gli asparagi di Bassano che la buona terra venata dalla sabbia del fiume facilita a sorgere grandissimi.

Sono portati fumanti in grandi vassoi, dove solo sono visibili ai margini decori di pesci, di uccelli e di farfalle, ma appena vuotati appaiono al centro buffe caricature disegnate con un sol tratto di pennello.

Tutto nel Brenta

Arriva la terza pietanza: pollastrelli arrosti con insalata di ogni specie e per condirla vengono portate in tavola le saliere di tinta avorio che sembrano lavorate da discepoli di Cellini: tutte figure e animaletti. Una  rappresenta un carro trainato da buoi e sopra sono due ceste per il sale e per il pepe un’altra; un somaro affaticato nel salire un’erta con due bisacce e il conducente che lo frusta; un’altra, un veliero su frangente di un’onda; un’altra tre grazie danzanti tra due tripodi, ed altre ancora che si confondono nella lunghezza della tavola.

E i piatti sono azzurrini a imitazione di quelli olandesi di Delft, alla loro volta imitati dai cinesi. Azzurrini con peonie e crisantemi che fanno corona paesaggi con pagode e cinesi in portantina.  I ani hanno finalmente ossa da rosicchiare e dame e cavalieri non usano forchette, ma prese colle dita o coscie od ali mangiano avidissimi. Vini e musiche sono cambiati, sono più forti, più piccanti, assecondando il crescendo delle conversazioni.

Sui colli stanno i pastori col loro gregge, e dalla strada che va dentro alla valle avanza una fila di carriaggi polverosi. In capo al ponte i mendicanti divorano gli avanzi e i ragazzi di cucina si sono messi a giuocare alle carte. E arriva la  quarta pietanza: sono turriti pasticci di interiora contornati da mura di tenera polenta tutta bagnata di succo saporito di sedano, di carote e di cipolle, e i piatti sono variopinti d’ogni colore con alati amorini tanto per non accrescere la sovrabbondanza del cibo.

Dopo vengono i dolci imbevuti di liquori serviti su piatti a screzi verdi, marrone e rossi, e le frutta: le prime ciliege, coi piatti delle stagioni e dei mestieri.

Il banchetto finisce col caffè, e le sue tazzine senza manico, per imitare quelle cinesi, fanno scottare le dita rosee delle dame.

Nell’attesa che il caffè si raffreddi, esse scagliano i noccioli delle ciliegie sui cavalieri preferiti e questi rifanno schermo agli occhi coi piatti delle stagioni. Da ultimo resi frenetici dalla musica che insiste su un minuetto i convitati non attendono i paggi che sparecchino, afferrano stoviglie, sedie e tavole e lanciano ogni cosa nelle acque del Brenta vorace, per prendersi le dame inebriate e  danzare come pazzi.

Giovanni  Comisso
Gazzetta del Popolo,  3 luglio 1937   

     

Share