Serradifalco, febbraio.
La famiglia del contadino siciliano penso si trovi in uno stato più o meno sensibile di matriarcato. La donna chiama il marito con un termine che quasi sembra voglia solo indicare in lui il simbolo della maschilità e null’altro: iddu (egli), oppure lo chiama: il mio cristiano.
Sposarsi a diciott’anni
Quasi mai ella chiama il suo uomo marito, cioè quasi mai lo riconosce come amministratore e padrone. Nella famiglia veneta invece la donna lo chiama: il mio uomo, ma rispetto a terzi di famiglia lo definisce come padre e pure costoro siano nipoti o spose dei figli lo chiamano cosi : padre, col ricordo del pater familias romano. L’assenza dell’uomo dalla casa per tutto il giorno crea per la donna come un’investitura di potere su questo bene, piccolo che sia, miserabile che sia. La casa è per la donna e della donna, come la campagna è per l’uomo.
Per la donna avvicinarsi al lavoro della terra è come un rinunciare al possesso della casa. Certo, ora, lavorare la terra è un compito talmente faticoso, coll’aggiunta del lungo percorso dal villaggio al latifondo, che da tutti è considerato come una condanna, e le donne si impongono a non subirla e i ragazzi sognano di fare i pastori piuttosto.
In una scuola ho chiesto ad un ragazzo contadino quale mestiere gli piacerebbe fare da grande: “Il pastore, — mi rispose —, perchè cosi non mi affatico a zappare, vendo i formaggi e guadagno soldi, e passo il giorno a zufolare“. Le ragazze si sposano sui diciott’anni; e si dice: “Fimmina a diciott’anni, maritala o la scanni“. Se i parenti degli sposi non sono d’accordo ad acconsentire, si mette di mezzo il paraninfo, e se proprio le ragioni e gli interessi non sono conciliabili, e i ragazzi si vogliono sposare ugualmente, allora fanno la cosidetta fuga. La ragazza viene rapita dal giovanotto, portata in un altro paese, e dopo alcuni giorni i parenti avvertono i carabinieri per farli ritornare al paese e allora si fanno le nozze, ma segretamente, senza invitati e con poca spesa.
Nella vicendevole scelta degli sposi si tiene moltissimo conto della posizione che occupa la loro famiglia nella scala sociale agricola. Si hanno i massarioti, contadini proprietari di terra, piccoli proprietari che con l’emigrazione hanno potuto comperarsi qualche salma di terreno, i mitatieri o mezzadri, i borgesi o affittuari, gli annalori o salariali fissi e gli jurnatari, quelli giornalieri: questa è una prima scala dove naturalmente il massarioto è il più apprezzato e il povero jurnataru rappresenta l’ultimo gradino. Ma per tante minute ragioni in seno ad ognuna di queste specie vi sono altre classificazioni.
Amore per gli animali
Così un jurnataru che lavora sulla terra è più apprezzato di uno che si occupa di cavalli, e questi d’uno che si occupa dei muli, e questi d’uno che va dietro alle pecore, e questi d’uno che fa il capraro, e questi d’uno che attende ai porci. Sicché il figlio d’un contadino proprietario di terra indebitato e misero non sposerebbe mai la figlia di un proprietario di pecore sebbene ricco. E la figlia di un jurnataru che lavora dietro ai cavalli non andrebbe a nozze col figlio di un jurnataru pecoraio o capraro o porcaro.
Non è la ricchezza effettiva che crea distinzione, ma la ricchezza per così dire morale e questo mi sembra dimostri una preziosa qualità di questa gente. Il contadino ha un grande amore per i suoi animali e dicono che la perdita d’uno di questi lo addolori quanto quella d’un figlio; egli dorme nella stalla anche perchè a volte non ha altro posto, ma anche perchè durante la notte vuole sentirsi a guardia delle sue amate bestie e pronto a difenderle e a soccorrerle.
Guardando le nuove case in costruzione la prima impressione che il contadino ha ricevuto fu che la stalla pur essendo contigua alla casa risultasse già troppo lontana per non essere essa stessa una sempre visibile stanza della sua abitazione. E si capisce la radice di questo amore: i suoi muli sono per lui i suoi grandi compagni, quelli che non solo gli dànno la possibilità di fare i lavori, ma quelli che lo portano in campagna per decine di chilometri e a casa alla sera quando è stanco e infreddolito.
Altro grande amore è quello per la sua casa, povera che sia, una casa che sia sua. Potere avere una casa propria è per lui segno di libertà più che di avere una terra propria. Non è veramente esatto così, ma è che essere proprietario di una terra riesce assai più difficile.
Per comperarsi un miserabile abituro nei passati tempi egli ha sopportato la schiavitù dell’emigrazione. Il contadino siciliano non è dedito al giuoco nè si ubbriaca, nei suoi villaggi vi è qualche caffè, ma non sono frequentati da lui nei giorni di festa; si radunano invece i contadini nella piazza maggiore e ammantellati o con lo scialle sulle spalle fanno circolo ritti in piedi per ore e ore a chiacchierare sull’andamento della stagione.
“In nome di lu Patri…”
Il sentimento religioso del contadino è principalmente rivoltò al santo protettore del paese che per lui risulta come un piccolo Dio. Gente resistente, educata ad un lavoro della terra faticoso più di ogni altra regione; allenati a salire e scendere continuamente in questa terra montana, abituati a resistere alla sete e a nutrirsi spartanamente, costituiscono l’elemento più solido delle nostre fanterie. Questi contadini siciliani cominciano ora, che le strade sono state sistemate e altre sono state aperte ad imparare, tuttavia raramente a far uso della bicicletta, ma in genere le loro gambe sono la sola loro forza motrice pura e semplice per lunghi percorsi.
Il pane è la base sacra del loro pasto e lo chiamano la grazia di Dio, per esso hanno un rispetto sommo, se cade per terra lo baciano e guai metterlo sulla tavola a rovescio; prima di fare l’infornata con la spatola fanno il segno della Croce pronunciando le parole: “In nome di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu“. Ed è bello questo pane siciliano come benedetto dai semi di sesamo, saporito fin nella mollica, tramutazione sublime di questo aureo e asciutto grano scaturito da questa terra temprata dai venti africani e da quelli del nord. Ma verrà il giorno che questo pane avrà altro sapore, un sapore felice, dato dalla gioia di averlo prodotto con minore fatica e con più serenità d’animo, gustato tutti seduti alla stessa tavola due volte al giorno, uomini e donne, ritornando nella nuova casa dai campi vicini.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 1 febbraio 1940
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale