Il Diario di Giovanni Comisso: "Sentendo parlar chioggiotti e senesi…"

Il Diario di Giovanni Comisso: “Sentendo parlar chioggiotti e senesi…”

Sentendo parlar chioggiotti e senesi, vien da chiederci, con tanti scrittori e pittori che operano a caso, se l’arte abbia sbagliato inderizzo e sia andata a dimorare invece tra gli umili e gli anonimi.

Il gusto della precisione nella scelta delle parole non è solo dei senesi ma anche dei chioggiotti. Nelle mie esperienze fatte a Siena mi sono convinto che la precisione di quel popolo ha quasi sempre un presupposto dato dalla plastica o dalla scultura. Parlando di un cavallo un sensale, in un giorno di mercato, disse: «È buono di cervello, centinato bene e fugge come un cannone». Vi si risentiva la mano di Verrocchio e insieme un abbozzo di Leonardo. Un contadino spiegandomi come si coltiva l’ulivo mi disse: «Gli si fa una ghirlanda di muriccio… ». E sembrava già di vedere iniziata una ceramica di Luca della Robbia. Alcuni ragazzi che, vicino a Fonte Branda, giocavano con una cassa piena di stracci, nel vedere a un certo momento uscire una schiera di scarafaggi. ricordandosi, per senso innato, delle città assediate nel Medioevo, dissero: «Ecco, fanno la sortita». La parola: sortita, è un termine militare esatto e sembrava che quei ragazzi lo avessero tolto direttamente dall’Arte della guerra di Machiavelli.

Fu il cameriere della mia trattoria che mi insegnò la differenza tra formaggio e cacio, cioè che il primo riguarda le forme grandi, quelle fatte industrialmente, mentre il secondo, le piccole di fattura casalinga. Ma oramai l’uso ha fatto dimenticare il cacio e preferire il formaggio.

A Chioggia la precisione sembra invece risentire della musica e della pittura. Un mio amico che osserva ed annota gli usi e le memorie locali mi aveva elencato tutte le parole che registrano le varie tonalità del vento, usate dai pescatori. Si chiama da principio: sentimento, quella percezione cerebrale del sorgere di un vento, quando cioè Io si sente nella testa, fatta intontita. Poi viene: l’afra quando ancora il vento non si vede, ma si sente all’odore e poi: àgere (da aere) se l’aria si muove appena, senza costanza, ad intermittenza.

Chioggia, Pescatori (foto di Roby Ferrari – Flickr, Wikimedia Commons)

Il vento vero comincia con la: bavesèlla, bavetta, bavesiòla, sempre crescendo fino alla bava e alla bava fresca.

Ne segue tutta la rosa dei venti coi propri peggiorativi e naturalmente il vento di tramontana, il più nefasto e anche il più definito, perché il più controllato. Se è forte si chiama: tramontanese, se più forte ancora con nebbia e gelido: sizzara.

Mi sembrava impossibile che i pescatori usassero tutte queste varie definizioni. Ma tro­vandomi in un’osteria accanto a un clamoroso gruppo di giovani pescatori che bevevano e cantavano, in un momento di tregua, chiesi a uno di loro se sapeva dirmi cosa è la sizzara e mi rispose: «El vento de tramontana, quando la nebbia si beròndola a fior di acqua». Egli era ancora più preciso del mio amico quasi pittorico con quel: beròndola che significa rotola e nello stesso tempo fa pensare al giro dell’onda. Poi ai venti indicati me ne aggiunsero un altro; bava a la riva, che significa vento favorevole prima di partire da qualsiasi punto si trovino.

Altre parole ancora classificano i venti nelle loro modulazioni: refolo, quando il vento viene a sbalzi dolci, ràfega (raffica) se più forte, sbocaura (da bocca) quando è improvviso e mordente, scontraùra, quando il vento è decisamente contrario. Quando poi girano turbinosi tutti i venti, si dice: òrdene (per disordine) e se la situazione è tremenda allora si dice: fortuna. Strana parola che significa tanto la buona, quanto la mala sorte, in rapporto con l’origine latina, della dea omonima che la distribuiva alla cieca. Ma per i naviganti la fortuna è sempre malvagia, e rimane usata in tale senso.

Finiti i venti subentra la bonaccia e anche per questa il chioggiotto annovera tonalità diverse con la massima precisione. La bonaccia può essere bianca, quando la superficie del mare è così immobile da biancheggiare in un livido di stagno, più ferma ancora sarà chiamata: in pachea, e se è proprio cosi ferma da non agitare nemmeno la fiammella di una candela si dirà: bonaccia in candela.

Ma altre espressioni di questo popolo risentono più che la pittura e la musica, la caricatura, l’umorismo. Mustacchi: si chiamano le onde che si dipartono dalla prua quando fila col buon vento, tromboni sono quelle grandi nubi estive che covano sonori tuoni, cagnolini, quelle primaverili, piccole, tonde e bianche e cavallette, quelle piccole onde saltellanti e subito scomparenti sulla distesa azzurra con tempo benigno.

Di certo con tanti scrittori e pittori che operano a caso, viene da chiederci se l’arte abbia sbagliato inderizzo e sia andata a dimorare invece tra gli umili e gli anonimi.

Giovanni Comisso

da Il Giorno del 16/01/1957.
Immagine in evidenza: Il centro storico di Siena (foto di Tango7174, Wikimedia Commons))

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