Giovanni Comisso - Le statue nude

Le statue nude

All’ingresso delle sale, dove stanno le copie in gesso delle statue di Antonio Canova, a Possagno, suo paese natale, vi sono cartelli che vietano di fumare e di toccare. Fumare in casa d’altri è sempre irrispettoso, ma non capivo a che cosa si riferiva l’altro divieto, quello di toccare. Quando entrai e vidi quelle statue che esibivano senza pudore il loro nudo formoso, davanti e di dietro, compresi che i visitatori potevano essere attratti dal desiderio di accarezzarle.

Nell’epoca del facile spogliarello esiste ancora grande parte di questa umanità così insoddisfatta da commuoversi davanti al nudo delle statue ed essere presa dalla tentazione di toccarle.

La galleria canoviana è una specie di Museo Grevin con documentazione esatta in gesso, invece che in cera, di quello che è il nudo umano, fino negli angoli più riposti. Nelle bianche sale i visitatori allibiti sostavano con lo sguardo teso per avere a loro disposizione tanta carnosità scoperta e immobile, così da scoprire quel dettaglio che i bagni di mare non possono concedere.

Il timido Canova aveva finito per diventare uno stimolatore della fantasia sensuale. Tutti i soggetti apparivano nudi, perfino Napoleone; facevano eccezione: la vecchia madre, principessa Letizia, il papa Rezzonico e qualche altra statua religiosa.

Anton Raphael Mengs, Johann Joachim Winckelmann (1755 circa); olio su tela, 63,5×49,2 cm, Metropolitan Museum of Art, New York

La storia del nudo nella scultura tra il finire del 700 e il sorgere dell’800 può essere spiegata pensando all’atmosfera rivoluzionaria che non tollerava più né parrucche, né palandrane e doveva necessariamente spogliare gli esseri umani. L’uomo doveva mutare la pelle come le biscie fatte più grandi e questo veniva confortato dalle idee di Winckelmann, il quale, riscoperta attraverso gli scavi, la scultura greca e romana, sosteneva che la forma di quella scultura rappresentava il massimo delle possibilità estetiche.

Si era come sempre nell’equivoco generato dal tempo e dal moltiplicarsi degli errori suscitati dal gusto. Quella scultura greca e romana che sopravviveva intatta nonostante i secoli di sepoltura aveva finito per essere ritenuta magistrale, mentre apparteneva a una decadenza. La grande scultura greca aveva avuto il suo splendore nel periodo arcaico, sostenuta dalla fede religiosa quando si credeva timorosamente negli dèi e ad essi venivano offerte le immagini dei giovani figli giunti alla maturità, come voto per la protezione. La decadenza della fede portò la scultura greca al compiacimento per la forma, tramutando le statue in leziosi soprammobili. Conquistata la Grecia dai romani, per i quali valevano più i sensi che la visuale dell’intelletto, quella terra venne saccheggiata portando a Roma e a Napoli bastimenti carichi di Veneri mammellute, di atleti equilibrati, di efebi sorridenti e danzanti, mentre i solidi kuroi e le pure kore, incompresi vennero lasciati come materiale di difesa delle acropoli dalle invasioni barbariche. Tutti quei soprammobili rubati da Siila, da Attico, da Cicerone e da Nerone approdati in Italia furono moltiplicati in copie così numerose da resistere alla distruzione del tempo fino a stupire Winckelmann.

Antonio Canova – Teseo e il Centauro

Cicerone vedeva la bellezza del Discobolo nel rallentamento che fissava l’evolversi di una posizione di equilibrio e non riesciva ad andare più oltre. La decadenza greca aveva creato anche quel gusto scenico raggiunto nelle sculture del Toro Farnese, del Lacoonte, delle Niobidi e queste opere a Roma ebbero il loro pubblico entusiasta per arrivare intatte a solleticare anche il contadino di Possagno. Canova se fosse rimasto al suo paese natale avrebbe finito per fare come suo zio solo buone statue per giardini, ma caduto nell’ambiente e nel gusto della società veneta dovette subirla e fare quello che questa desiderava con il presupposto di apparire, nel momento della sua decadenza, più grande e immortale. Passato poi in mezzo alla società curiale di Roma, istruita dalle idee di Winckelmann, fu ancora costretto a seguire il suo gusto. Per questa Roma, il povero Canova riesci a ridare un ermafrodito reclinato sotto forma di ninfa. A completare la sua opera sostenuta dagli equivoci doveva anche capitargli l’arrivo della società napoleonica per la quale andava benissimo presentarsi nella forma della scultura greca e romana che assicurava superficialmente l’immortalità. Cosi Napoleone piccolo e panciuto fu presentato ignudo come un Apollo, sua madre assisa come Agrippina e sua sorella procace come una Venere. In un’epoca quando gli stallieri di-ventavano marescialli e duchi, Canova doveva ritrarli seguendo gli schemi delle statue che raffiguravano gli imperatori romani. Il semplice scultore di Possagno si trovò a vivere tra questi pazzi, ma fu la sua fortuna, perché non ci si sarebbe altrimenti ricordati di lui.

Antonio Canova, Paolina Borghese come Venere vincitrice (1804-1808), Galleria Borghese, Roma

Sorprende che nella sua vita, egli con tutto il suo adattarsi al gusto del nudo non abbia mai avuto la possibilità di averlo in proprietà attraverso una moglie o un’amante. Si sa che giovanetto quando fece le statue di Orfeo e di Euridice per volontà del patrizio veneziano Falier, ebbe come modella per questa, una servetta isolana, ma gli fu concesso di ritrarla nuda circondato come da gendarmi: dallo zio, dal prete del villaggio e dai padroni committenti. Deve essere stato per lui come una martellata che gli impresse il divieto di toccare una donna per sempre. “Guardare e non toccare”, come oggi e ordinato al pubblico che va a vedere le sue statue. Paolina soleva dire che aveva posato nuda davanti a Canova senza alcun timore. L’ambasciatore veneziano a Roma, che gli aveva dato come studio il granaio di Palazzo Venezia, vedendo che vi salivano di continuo ragazzacci trasteverini e popolani energumeni, trovò l’abitudine un poco compromettente per l’ambasciata e raccomandò a Canova di frenare quell’afflusso. Lo scultore arrossendo gli contraddisse che non poteva cercare i suoi modelli tra le nuvole. Se la Curia infatuata di romanità, se l’imperatore, se Winckelmann, se la società del tempo, se tutti volevano la scultura fatta di nudo, egli doveva pure vederlo e studiarlo. Di certo nel rivedere oggi questo nudo di Canova, quello delle donne appare sempre uguale, come suggerito da una sola modella, mentre per quello degli uomini vi è maggiore varietà, usandoli in espressioni di forza e di lotta. Fu per Canova un ben atroce destino nascere scultore in un’epoca che doveva falsare il suo gusto naturale di bravo artigiano e finì per contagiarlo con idee di grandezza come i suoi padroni. Così nel piccolo villaggio dove era nato volle costruirsi un grande tempio classico come un Pantheon tutto per sé perchè non gli bastava quel paesaggio tra il Grappa e i colli degno degli Dei.

Possagno: sullo sfondo si scorge il Tempio Canoviano (foto di Ludo, Wikimedia Commons)

Nella visita a quella galleria provavo una nausea profonda e avrei fatto a pezzi quelle statue di gesso che già la guerra aveva sapientemente mutilate con le granate. Mi apparivano ridicole e non ebbi la minima tentazione di toccarle. Ma nella notte una di quelle ninfe mi apparve seducente nel sognare come una vivente servetta portandomi fino a un estremo delirio. Cosa avranno sognato nella stessa notte gli altri visitatori di ogni età e di ogni sesso ai quali era stato proibito di toccare, ma avevano visto?

Giovanni Comisso

Pubblicato su n. 37 de “Il Mondo” del 14 settembre 1965.

Immagine in evidenza: Antonio Canova – Naiade, 1820-1823, marmo, originale, National Gallery, Washington, USA.

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