Senza la prosa di Comisso saremmo ancora dannunziani

Treviso, novembre

Giovanni Comisso vive come se fosse un genio. Prima viene la distrazione.

Un giorno, a Este, andammo in comitiva in una villa, credo di americani. Comisso mi vide sotto le colonne e mi chiese: « E’ lei il proprietario? ». Dissi di no, che ero un giornalista. Naturalmente Comisso mi conosceva, per avermi incontrato parecchie volte al giornale o a qualche cerimonia. Nella stessa occasione domandò all’avv. Raffaello Levi, suo amico da molti anni: «E lu chi xelo?». E Levi rispose : «So mi, Giovanni, no ti me conossi?». Comisso ebbe un gesto di costernazione: è distratto.

Poi viene la mancanza di tatto.
Giovanni Comisso

Comisso possiede un orto davanti a casa sua; e lì, come faceva Faulkner, va a zappettare, a potare, a innestare le piante. Una volta si recò a fargli visita una contessa amante della letteratura. Lo scrittore non si turbò; le porse una pala e le disse: « Mi dia una mano, intanto chiacchieriamo » Verità o menzogna? Figallo, lo autista di Comisso, giura che un fatto del genere è realmente accaduto.

Ultima viene l’eccentricità.

Io stesso, con i miei occhi, ho visto una fotografia di Comisso travestito da Nerone, in tunica bianca e con una corona di alloro sulla testa, mentre dipinge una tela. E’ bene ricordare, per spiegare il travestimento di Comisso, quello che Nerone gridò ai pretoriani che lo pugnalavano: « Ah, quale artista perde il mondo!».

Sono andato a cercarlo nella sua città, una mattina di questo autunno. Treviso mantiene tutto il suo verde dietro il velo a perdita d’occhio delle piogge;

Comisso abita fuori mano, in una straduzza di campagna, poco prima della chiesa di Santa Maria della Rovere. Lungo la strada, ai bordi, corrono rivoli d’acqua limpida, sotto cui affiora, aggiungendo verde al verde, una vegetazione nana. Sono gli agenti della Stradale a indicarmi la casa del « dottor Comisso, lo scrittore ». Lo conoscono (mi dirà poi Comisso) perché si incontrano nella stessa osteria.

E’ davanti al cancello, vestito di grigio, con una catena d’argento che spunta da sotto il maglione. « Avevo mandato un mio vassallo — dice — ad accoglierlo alla curva, ma lei ci è arrivato da solo ». Comisso fa strada in giardino; domando se le galline e i conigli, chiusi nelle gabbie, sono allevati da lui. Appartengono ai vicini; lui, se potesse, alleverebbe i maiali, che sono pulitissimi.

Lavora nella stanza da letto, a un tavolo senza pretese, carico di fogli, di elastici e di frantumi di rocce adoperati come fermacarte. Il tavolo è sotto la finestra, a destra della quale, sul muro, Comisso ha incollato l’immagine di un letterato molto noto, scrivendogli accanto queste parole: « Razzista e criminale di guerra ». Lavora dunque all’ombra del suo peggiore nemico; ma non parla subito del proprio lavoro. Prima vuole sapere se ho notizie della Sicilia; e a questo punto capisco perché, quando sono arrivato, mi ha detto che aveva mandato un « vassallo » a prendermi alla curva.

Comisso non si sente più trevigiano, ma siciliano: è duca di Casalnuovo di Gela, principe d’Aragona e marchese di Flores. Mi fa vedere anche il blasone: « un cervo passante al naturale in campo rosso, caricato di una stella d’oro ». L’unico suo dispiacere è che il cervo abbia le gambe deboli e non sia rampante. « Ho saputo di essere feudatario — dice — dall’Ufficio centrale di araldica di Firenze, che ha svolto una meticolosa indagine in Sicilia ».

Legge a voce alta: « Le attive e accurate ricerche condotte attorno alla famiglia Comisso allo scopo di far Iute sul suo passato, le sue origini e il suo sviluppo attraverso il tempo, ci hanno dimostrato trattarsi di casata assai antica e illustre la quale può vantare secoli e secoli di onorate memorie e dì privilegi di nobiltà di vecchia data. Dicono gli storici che il nome della famiglia sembra essere derivato dal comune di Comiso… ».

Diritti feudali

Un’aria baronale s’è impadronita di Comisso. Vuole rivendicare i diritti feudali, fra cui le terre dei suoi avi: si è rivolto a un legale e costui lo ha assicurato che ci sono buone speranze poiché i diritti feudali non si prescrivono. Se tutto va bene, Comisso rientrerà in possesso di mezza provincia di Gela, dove è stato trovato il petrolio. « Nel mio ultimo viaggio in Sicilia — dice — una sera, a Enna, mi trovavo al ristorante con Bocelli, Falqui e Navarria. Ho dovuto rimproverare il cameriere che ci trascurava. Gli feci presente che sono duca, principe e marchese; gli chiesi anzi, che, per decoro, mandasse un paggetto a servirci».

Giovanni Comisso, tuttavia, non giustifica il viaggio in Sicilia solo con ragioni feudali. Ci sono di mezzo anche ragioni letterarie. Egli ha una sua teoria, un ibrido fra il poeta Orazio e il fisico Einstein. Orazio sosteneva che un libro prima di essere pubblicato deve invecchiare almeno nove anni in un cassetto. Comisso è d’accordo; ma ritiene che, alla luce delle nuove scoperte scientifiche, essendo spazio uguale a tempo, sia possibile fare invecchiare un libro viaggiando: da Treviso a Enna sono, a occhio e croce, millecinquecento chilometri; circa nove anni, mese più mese meno. Così, artificialmente, ha invecchiato l’ultimo suo romanzo, quasi finito, che s’intitola provvisoriamente « Cristobol » e si svolge nel Settentrione, in un luogo imprecisato. Insisto che mi faccia leggere almeno l’inizio del libro; mi fa sentire qualche parola, con voce diffidente. E oggi sono in grado di offrire una primizia ai lettori; il nuovo libro di Comisso comincia così: «Era da poco finita la guerra…».

Si apre invece volentieri quando parla della sua pittura, alla quale tiene molto, forse più che ai romanzi. Cambiamo stanza per vedere; entriamo in una camera arredata con ottimo gusto, più spaziosa e luminosa della precedente, dove prevaleva una rusticità campagnola: tavolo rozzo e scurito, mura ingrigite, nessun tentativo di decoro esteriore. Ma qui le pareti sono verniciate di chiaro, i mobili lucidati: sui quadri che Comisso ha dipinto per diletto (così almeno pensiamo) batte una luce violenta. Sono fondi di un azzurro acceso, turbati dal colore di fiori difficilmente riconoscibili in natura: probabilmente fiori giapponesi o di un altro mondo.

Non sono pochi gli scrittori che la domenica lasciano la penna per i pennelli.

Comisso però non accetta la definizione di « pittore domenicale »: se stroncano un suo libro, passi; ma guai a parlar male della sua pittura. Si duole sinceramente, fra l’altro, che qualcuno abbia insinuato che i quadri sono opera del figlio del suo autista, un ragazzino di dieci anni .« Il ragazzo — dice — mi prepara le tele, passandovi sopra una mano d’azzurro. Il resto lo faccio io ».

Figallo, il vassallo rosso e congestionato in volto, con baffi alla Errol Flynn, annuisce facendomi rilevare che certi quadri di Comisso, dipinti nel 1910, anticipano il De Chirico metafisico. Ed è vero: le stesse colonne spezzate, le stesse statue che si muovono. Non è chiaro, tuttavia, come faccia un autista a parlare di pittura metafisica. La spiegazione è semplice: Comisso non ha un autista qualsiasi; Figallo è uno scrittore, conosciuto per « Una donna al giorno », un romanzo che suscitò a suo tempo grande scalpore. Alcuni critici dissero che tutti i libri di Comisso messi insieme non raggiungono il vigore narrativo di « Una donna al giorno ».

Ma Comisso non è geloso, tanto che ha adottato, proprio in questi giorni, i due figli di Figallo, che ora porteranno il doppio cognome Comisso-Figallo. Il ragazzo va già alle scuole tecniche; la bambina fa ancora le medie, niente è stato deciso per il suo futuro. « Io non mi preoccupo — dice Figallo — Lascio che faccia lui. Ah, che uomo! Un uomo di genio, con il cuore grande così. In macchina abbiamo girato insieme l’Europa, quanti paesi abbiamo veduto ».

Treviso è l’approdo, il centro del mondo: dal Giappone, dalla Cina, Comisso vi è sempre tornato.

In viaggio ha scritto « foglietti » splendidi; qui, nella provincia, ha pensato ai suoi indimenticabili libri, vi ha lavorato a lungo, riempiendo grossi quaderni con la sua scrittura larga: tutto con la biro blu; in rosso le correzioni i ripensamenti, le varianti.

I trevigiani lo rispettano, forse per paura di ricadere nell’errore che fece loro considerare stravagante Arturo Martini. Quando Comisso si recò all’Intendenza di Finanza, nei giorni scorsi, gli domandarono quale ditta rappresentasse. Lui rispose: « Comisso ». E allora dovette girare, accompagnato da un funzionario, per tutti gli uffici. « Abbiamo l’onore — diceva quello — di servir Giovanni Comisso, lo scrittore »

Più maleducati

Magari potrebbe diventare sindaco della città: ma non ne ha voglia. Non vorrebbe essere neppure assessore alla Pubblica Istruzione. Comisso abita a Treviso solo per l’aria che vi si respira, per il suo orto che gli consente di zappettare quando ne ha voglia, cosa che a Milano sarebbe impossibile. Le notizie dal mondo gliele portano i giornali. I francesi — secondo un’inchiesta Gallup — hanno dichiarato che Brigitte Bardot è la persona con Ia quale vorrebbero trascorrere un minuto tète-à-tète. Il fatto, per Comisso, è assai più grave della fiducia dimostrata a De Gaulle.

I giovani scrittori? Non sono diversi da quelli della sua generazione: sono sol tanto più maleducati. Ma Comisso, se può, li aiuta ugualmente.

Forse preferisce la provincia per sfuggire al puritanesimo dei letterati di città, timorosi anche della propria ombra preoccupati di non cadere nel« cattivo gusto », inquisitori per vocazione. Comisso non teme il provincialismo, il cattivo gusto: ci corre vicino e se ne ritrae all’ultimo momento; così come un tempo corse vicino a D’Annunzio per diventare, in pratica, un « antidannunziano storico », secondo la definizione di Elsa de Giorgi, alla quale Comisso è grato per avergli essa detto una volta che

« senza Comisso oggi si scriverebbe ancora alla D’Annunzio».

La sua distrazione, la sua ironia, il suo stare al gioco fanno parte del rischio, dell’immersione della provincia.

Vive, tutto sommato, come se fosse un genio, « come se »„ naturalmente: i posteri diranno se lo è davvero. Quanto a Comisso non se ne preoccupa: egli persa come coloro i quali credono che non è tanto importante l’esistenza di Dio, quanto vivere come per Dio esistesse.

Emilio Isgrò
IL Gazzettino, 22 novembre 1962

(*) Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale

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