"Storie che accadono": il tempo non invecchia. Recensione e intervista a Roberto Ferrucci

“Storie che accadono”: il tempo non invecchia. Recensione e intervista a Roberto Ferrucci

Alla fermata del tram 28 di Praça São João Bosco di Lisbona uno scrittore intreccia la sua storia a quelle che scorrono attorno, che immagina o ri-costruisce a partire da un frammento uditivo, da una conversazione carpita, dal dettaglio di un abito. Storie intrecciate a memorie felici, a frazioni di un tempo scomposto e oscillante, il solo in grado di restituire il senso di esistenze che si sfiorano, che camminano in parallelo sino a fondere gli sguardi, a dare voce al nostro stare al mondo.

Non è un caso che l’ultimo libro di Roberto Ferrucci si intitoli Storie che accadono (People, 2022), sintagma riecheggiante un passo de L’angelo nero di Antonio Tabucchi (1991) che, di questo testo anfibio, è il protagonista fondamentale e discreto. Una presenza tanto viva da articolarsi in rivoli di motivi che afferiscono all’amicizia, al debito intellettuale e umano, alla capacità di svelare – con l’arte e con il corpo – il suo amore per la vita, per la luce, per i rapporti che danno valore al tempo, che mettono in pausa il dolore.

Quello che Ferrucci traccia è un itinerario sentimentale che schiude e attraversa le stanze dell’esistenza trovando nell’oggi rimemorante un collegamento emotivo afferente il proprio destino, la propria capacità di andare oltre lo sguardo, di spiegare, almeno in parte, cosa si cela dietro un incontro, quel che significa specchiarsi nell’Altro, l’altro con cui condividere l’urgenza della scrittura, da cui imparare vivendo, perché è la vocazione alla vita il nucleo di quelle che, banalmente, chiamiamo affinità elettive.

Il tram procede, sferraglia, e già qui Ferrucci mette a suo agio il lettore perché tram e Lisbona significano Pereira, e Pereira vuol dire Tabucchi, inevitabilmente, anche se c’è tanto altro, piccoli equivoci senza importanza, sogni di sogni e fragilità, pezzi di vita che restituiscono la sensazione di un’eco, laddove l’autore racconta e Tabucchi continua a parlare, oltre i suoi testi, in una dimensione umanissima.

«Spesso mi succede di fare quel pensiero ozioso, un po’ inutile, mi chiedo cosa avrebbe scritto se. Me lo hanno anche chiesto, troppe volte, come se possedessi chissà quali titoli che mi consentissero di sapere e, naturalmente, ho sempre glissato, senza mai dare risposte sensate». È questo pudore la cifra dell’opera di Ferrucci, che adotta un linguaggio a prima vista austero ma gravido di tenerezze e scoperte, in linea con l’indicibilità di una relazione, con il rispetto che impone di scegliere le parole, di averne cura dinnanzi al mondo.

Un testo anfibio, si diceva, poiché la scrittura disegna un continuum tra generi, un esercizio di equilibrio tra la forma diaristica, il racconto di viaggio con inserti autobiografici, il romanzo di formazione. Difficile governare tale materia restando nell’alveo della funzione referenziale, senza trovare un equilibrio fra tesoro tematico e partitura espressiva; si perderebbe il respiro, il non detto, ogni parola spezzata in gola. Soprattutto non ci sarebbe quell’atmosfera, quell’impalpabile dolcezza che percorre tutte le pagine, che si stende sui ricordi, sulla rievocazione dell’ultimo incontro a Vecchiano, nel 1990, quando Ferrucci consegna all’amico scrittore la sua tesi di laurea: La nuova narrativa italiana. Daniele Del Giudice. Antonio Tabucchi.

Un’altra presenza, quella dell’autore di Atlante occidentale, silenziosa e dirompente, che prende corpo, accanto a Tabucchi, in una splendido scatto di Zé, Maria José de Lancastre, capace di fissare l’anima del marito e quella dell’amico in controluce, come dietro un velo, perché la complessità dei sentimenti non può svelarsi fino in fondo, e le immagini spesso mentono, a meno che non si rimuova la loro patina traslucida. Ferrucci lavora con vere e proprie sonde emozionali per guidarci alla comprensione di un viaggio che è insieme scoperta e rimemorazione, omaggio e letteratura pura, impastata di sentimenti e dubbi, guidata da un occhio privo di giudizio, che si sofferma a lungo sulle cose cogliendone l’essenza e i margini slabbrati.

Così il viaggio di Ferrucci sull’elétrico 28 è un’immersione nella «Lisbona sfavillante di Pereira e di Pessoa, la Lisbona europea del Trattato, la Lisbona multietnica, la Lisbona capitale di un Portogallo con una sinistra vera», oggi miraggio sbiadito per gran parte d’Europa, sicché il Tabucchi civile – quello degli interventi su “la Repubblica”, su “El País”, su “Le Monde” – torna a parlarci senza ombre, senza ambiguità, con una lucidità di analisi che in parte lo accomuna ai grandi ‘polemisti’ (Pasolini, Sciascia) e in parte ne svela il lato autonomo, controcorrente, di chi pensa che il «compito della letteratura sia quello di “ficcare il naso dove cominciano gli omissis”».

Una volta aperto – meglio, rievocato – nulla può interrompere il dialogo tra i due scrittori, impegnati, pur con tempi e in modi diversi, ad affrontare la sfida della modernità narrativa, quella necessità di dire un po’ di più, di abbandonare il contenutismo: di farsi, insomma, equilibrio di forma e senso.

L’intervista

Partiamo dalla curiosità più immediata: il tuo rapporto con Antonio Tabucchi. Più che un omaggio o una testimonianza, Storie che accadono appare un lungo viaggio sentimentale, un itinerario denso di immagini e ricordi, di riflessioni che crescono le une sulle altre, stimolate – anche – dal vostro confronto diretto…

Roberto Ferrucci

Sin dalle prime pagine affermo che il libro racconterà essenzialmente del nostro rapporto, di quello che questa amicizia ha significato. Come è iniziato – anche se l’inizio arriva alla fine di queste pagine –, come si è evoluto nel tempo, come si sia basato curiosamente su equivoci, coincidenze, casualità, al pari di quanto accade nelle sue opere. Parlando con chi lo ha conosciuto ho scoperto che avere a che fare con lui significava proprio questo, giocare e scontrarsi con il caso. Era una sua peculiarità. La nostra relazione è stata discontinua a causa della distanza, io ho viaggiato poco negli anni in cui ci frequentavamo. Il contatto, però, c’è sempre stato, e si è intensificato a partire dal 2008, quando ho pubblicato Cosa cambia, il mio romanzo sul G8 di Genova. Si deve a lui l’uscita del testo in Francia [Ça change quoi, Seuil, 2010, N.d.R.] con una prefazione talmente bella da emozionarmi. C’è qualcosa di inspiegabilmente bello nell’essere letti così, dal proprio autore di riferimento. Anche se, a dire la verità, a me lusinga ogni lettura. Sapere di aver donato qualcosa, di essere apprezzato da chi si dedica alle mie pagine.

Ti è mai capitato, in questa prospettiva, di innescare una sorta di circolo ermeneutico? Con Tabucchi immagino ci fosse uno scambio fittissimo di idee, di interpretazioni, di ipotesi.

L’amicizia fra scrittori, anche di generazioni diverse, fa supporre un rapporto fondato su conversazioni impegnate, ruotanti attorno ai libri, ai massimi sistemi del mondo… non è così. Noi parlavamo, inevitabilmente, Tabucchi era curioso di sapere cosa facevo e lui stesso – a differenza di tanti altri – amava parlare di sé, dei propri progetti. Non era geloso delle sue opere, delle sue intuizioni. Tuttavia, l’amicizia e lo scambio tra noi passava attraverso altre forme, altre parole. Non serviva – o meglio, non si avvertiva l’urgenza – di discorrere di poetiche, di strutture narrative, di definizione di personaggi. La nostra relazione, come quella tra altre scrittrici e altri scrittori, passava per racconti e immagini quotidiane, dal suo modo di cucinare le orate agli incontri fatti durante il giorno. Ogni conversazione con Tabucchi, come scrivo nel libro, prendeva le forme di una masterclass. Aveva il grande talento di essere sempre narrativo, tutto per lui poteva diventare una storia potenzialmente sviluppabile. Non c’erano mai momenti in cui andavo a lezione da Tabucchi: tutto è stato una lezione, per me.

Storie che accadono è in effetti un testo di dettagli, di flash memoriali che si affiancano a fotografie, paesaggi, interni di abitazioni. È questa attenzione per le piccole cose, per ciò che restituisce il senso del quotidiano, a unire la letteratura alla vita. È bello il racconto dei vostri incontri, dei piccoli imprevisti. La materialità del cibo, delle scale da salire, come se un solo dettaglio raccontasse già quel momento…

A pensarci, nessuno dei miei incontri con Tabucchi è stato programmato, ad eccezione di quello in cui gli ho consegnato la tesi. Questo ha contribuito a rendere ogni occasione speciale e, soprattutto, naturale. Non sono mai andato da lui con l’intento di registrare dati o fatti, di comportarmi in un certo modo, di chiedergli una cosa specifica. Eppure, nonostante tutto, tornavo costantemente arricchito, come avesse risposto a tutti i miei dubbi, a tutte le mie richieste. Ecco perché ricordo i dettagli: la mia mente era libera dai pensieri, aperta alla ricezione. Questo può permetterlo solo la casualità. È stato bellissimo quando, nel corso di una presentazione di questo libro a Bruxelles, un ragazzo mi ha detto: “Ci ha raccontato cosa le ha donato Tabucchi, ma lei cosa pensa di avergli lasciato?”. Si è trattato di una domanda emozionante, incredibile, alla quale ho risposto candidamente: “Spero di avergli lasciato il mio libro”. Per me è un gesto di riconoscimento verso la sua generosità spontanea, sincera, capace di accogliere gli scrittori più giovani spronandoli ad andare avanti a coltivare il talento. Una qualità rara, un atto di fiducia.

Dalle tue pagine emerge il ritratto di un uomo discreto e altruista, profondamente sé stesso eppure in grado di porsi sulle frequenze del suo interlocutore, perlomeno di colui che – come te – condivideva il suo orizzonte.

Mentre scrivevo ero consapevole di andare incontro al rischio del racconto agiografico o della biografia romanzata. Eppure, forse perché autore parco, con una media di un libro ogni quattro anni circa, ho voluto sfidare – e in parte ignorare – ogni preoccupazione di sorta. Non mi importa delle polemiche strumentali, dei pettegolezzi editoriali o letterari, come del resto dimostra la mia collocazione spaziale, poiché Venezia è sostanzialmente esclusa dai circuiti di quel mondo. Qui, oltretutto, non faccio parte di alcun salotto e quando parto mi reco all’estero, non vado né a Roma né a Milano. A me interessa scrivere ciò che sento, quello a cui tengo, e lo faccio nella massima sincerità, senza calcoli di sorta. Per fortuna le opinioni dei lettori mi hanno restituito, anche stavolta, il senso di ciò che faccio. Mi hanno permesso di capire di essere compreso. Quello che volevo passasse era sì un ‘omaggio’ a Tabucchi ma anche soprattutto al potere della letteratura, a ciò che ci resta dentro dopo aver letto un libro, alle storie che ci hanno forgiato, anche indirettamente. Storie che accadono è forse, soprattutto, un ringraziamento alla lettura e alla scrittura. Mi sono permesso di inserire le citazioni di Tabucchi nel mio racconto anche per offrire a chi legge un quadro delle due scritture, per dar loro la possibilità di ‘sentirle’, di intuire come l’una (la sua) sia confluita nell’altra (la mia).

È come se tu avessi aperto le stanze della memoria, dei cassetti da cui sono emersi dialoghi, racconti e immagini.

Esatto, anche per questo il libro ha una struttura ‘anti-romanzesca’, nel senso che non presenta un ordine specifico, né cronologico né formale. A ogni fermata del tram corrisponde una storia, sale un personaggio che lascia qualcosa e poi va via. Volevo fosse un libro sul narrare e sull’osservare. Tiziano Scarpa una volta ha scritto che io faccio parte di quella linea del ‘vedere’ che parte da Flaubert e arriva a Calvino, a Del Giudice. Io son sempre dell’idea che esistono autori con cui si avvertono affinità ma poi è da quelli più lontani che si impara meglio, che si può plasmare la propria attitudine narrativa.

Il tram, da questo punto di vista, oltre a fornire una spia di riconoscimento per i lettori – che lo riconducono istintivamente al mondo di Tabucchi – è un osservatorio privilegiato sulle cose, sulle persone. Un ‘non luogo’ che viene trasformato in uno spazio vivo, pulsante, che assorbe la vita di chi trasporta.

È un vero e proprio personaggio del libro. A pensarci, tram riporta alla mente il tram-ite, un tramite narrativo che consente di orientarsi nel caos della memoria. Si tratta, del resto, di un mezzo su rotaia, che segue dunque un percorso prestabilito e, involontariamente, fa ordine tra le storie, tra ciò che accade senza un principio, come diceva Tabucchi, e che è poi ciò che chiamiamo vita.

Roberto Ferrucci – Storie che accadono
Editore: People; New edizione (17 marzo 2022)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 176 pagine
ISBN-13: 979-1259790361
Peso articolo: 210 g
Dimensioni: 20.6 x 1.6 x 14.2 cm

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