Un viaggio fra i territori di confine di "Verde Eldorado". Intervista a Adrián N. Bravi

Un viaggio fra i territori di confine di “Verde Eldorado”. Intervista a Adrián N. Bravi

Adrián Bravi è scrittore di dettagli, coltiva il piacere della minuzia, dell’atmosfera evocata per sottrazione, tra il prelievo onirico e il gusto del quotidiano. Come nelle sue opere migliori – da L’inondazione (nottetempo, 2015) a L’idioma di Casilda Moreira (Exòrma, 2019) – anche in Verde Eldorado, da poco uscito per Nutrimenti, risaltano le suggestioni dell’ambiente, di quel Rio de la Plata così mitico e leggendario, familiare e distante insieme, in cui i nomi mantengono qualcosa di perturbante, che avvicina e al tempo spiazza.

Educare il lettore all’apertura, allo sguardo dal margine, ecco il segreto di questo bellissimo, agile romanzo basato sull’opposizione di chi esclude i deboli – commerciando con il potere – e l’onestà degli emarginati, che scoprono la dolcezza alla fine del mondo, dove albergano altri discorsi, ‘regole’ che prescindono dall’impostazione comune. Si respira, tra queste pagine, un senso di mistero e di prodigio, come se l’autore avesse convogliato il meglio della letteratura sudamericana – a partire da L’arcano di Juan José Saer, sulla spedizione di Francisco del Puerto al seguito di Juan Díaz de Solís – in un dispositivo intessuto di citazioni che spaziano da Celati a Tabucchi al fine rendere evanescente ogni realtà e mostrare quanta confidenza occorre avere con la finzione per afferrare il senso ultimo delle cose.

In tale prospettiva, il richiamo a Saer non vale soltanto come garanzia di contesto (è del 1516 la spedizione spagnola lungo il Rio de la Plata) ma è spia della natura prismatica del reale, della necessità di ricorrere agli artifici per svelare l’invisibile, giacché la letteratura – secondo Sciascia «la più assoluta forma che la verità possa assumere» – esprime per vie indirette ciò che la norma rimuove o nasconde. Così Ugolino, figlio di un mercante di stoffe veneziano, è spedito a forza nel Nuovo Mondo da chi non tollera la sua deformità, quell’intarsio di cicatrici lasciato sul volto da un vasto incendio, quando un’ala della sua casa «è andata a fuoco insieme ai mobili, al tetto e alla libreria». Sfigurato, con «la pelle sgualcita, le mani deformi, un ciuffo superstite e indecoroso di capelli sulla nuca», egli non ha altra identità se non quella, ormai bruciata, di rampollo nascosto dietro a un cappuccio, come se il suo occhio sbilenco potesse urtare gli sguardi dabbene – minare irrimediabilmente la credibilità della famiglia.

È solo, Ugolino, perso nelle pagine del Peripyseon di Scoto Eriugena, sospeso tra amore filiale e lacerazione da abbandono, lui che non ha slanci né ambizioni ma piuttosto si adatta al contesto, cronista di bordo per Sebastiano Caboto in un viaggio fra cose e colori descritti con densità pittorica, dove niente può accadere e intanto tutto accade, scartando le isole Molucche per puntare verso Rey Blanco, una città d’oro e d’argento a monte del fiume Paraná. È in questo contesto che Ugolino si scopre umano, venerato dagli indios che lo catturano in un’imboscata mentre i compagni vengono squartati per crescere in potenza, manipolando la carne umana al fine di garantirsi energie vitali, una rigenerazione della forza che passa attraverso l’atto fagico.

Sono splendide le pagine in cui Bravi descrive il banchetto, ricche di immagini vive, tratteggiate con penna tattile, in un abile crescendo di ironia e allucinazione teso a svelare le virtù di Ugolino, la sua natura unica e speciale, assimilabile agli dei. Qui sta la forza del romanzo, in un rovesciamento di segno che fa dell’alterità una porta d’accesso al valore umano, una strada per l’accoglienza che passa attraverso le cicatrici, si imprime nei graffi che scavano il volto e l’anima. Non è un caso che il protagonista si chiami Ugolino, come il conte della Gherardesca che Dante colloca tra i traditori, supplicato dai figli di cibarsi delle loro carni e che qui, in un testo che parla di crescita e lacerazione, difende sé stesso dalla personalità paterna, trovando – alla fine del mondo – un posto dove restare, in cui essere degno d’amore.

Resa lieve dall’eccezionalità del protagonista, con una prosa sapientemente orchestrata, quella di Verde Eldorado è la storia di un ragazzo alieno dalle qualità virili, impegnato a coltivare la tenerezza e il desiderio, a cercare un contatto ‘umile’ tra i corpi, sciolto da schemi prefabbricati, libero dal senso di vergogna, di nullità dinnanzi al mondo. Un romanzo che è insieme tante cose (racconto di formazione, di avventura, riflessione etno-antropologica), sostenuto da un’impalcatura corposa, meravigliosa, in perenne equilibrio tra forma e senso.
Ginevra Amadio

L’intervista

[Ginevra Amadio]: Partiamo dal titolo, Verde Eldorado. Vi sono racchiusi gli echi di un tempo altro, sospeso, e di un luogo mitico per eccellenza. Ma c’è anche la musicalità, che è cifra della tua lingua, e il verde, riferimento chiave alla natura. Come sei arrivato a questa scelta?

Adrián N. Bravi

[Adrián N. Bravi]: È stato il titolo che ho scelto da quando ho iniziato a scrivere il libro. Mi piaceva l’accostamento cromatico, il richiamo alla natura selvaggia, la polisemia di Eldorado (abbreviazione dello spagnolo El indio dorado). Insomma, avevo l’impressione di convocare in nuce tutti i temi che avrei voluto sviluppare: la ricerca di una città leggendaria che man mano che i navigatori avanzavano sul fiume si spostava sempre oltre il filo dell’orizzonte, l’illusione, l’assenza e, soprattutto, lo smarrimento. Inoltre, bisogna aggiungere, ci sono stati diversi Eldorado nel corso dei viaggi e Ugolino, l’io narrante della storia, ne trova uno, personale, che lo vincola al verde della natura. E poi, come hai segnalato, c’è una musicalità nascosta che è quello che mi interessa di più: la storia, in fondo, è un pretesto per cercare una voce. Ecco, credo che il punto sia questo, la ricerca di una voce, di una musicalità interna, di un timbro, che possa adattarsi a quello che si racconta.

Ugolino è un escluso, un soggetto fuori norma. Diverso, come gran parte dei tuoi personaggi. La sua deturpazione – stigma sociale in patria – funge da filtro espressivo alla sofferenza, al dolore della marginalità, e insieme svela le ipocrisie di un mondo teso a respingere ciò che è anomalo. Perché hai deciso di innestare la sua storia sul tronco di una vicenda reale, quella dell’impresa di Caboto?

L’impresa di Sebastiano Caboto è stata abbastanza studiata, per quanto non disponga di una fitta bibliografia, pur essendo tra i primi esploratori delle Indie. Si conoscono i suoi percorsi, i suoi spostamenti, ma mancano i dettagli (a differenza dell’impresa di Magellano che a bordo della sua ammiraglia aveva con sé un Pigafetta). Questa mancanza di particolari è stata, in parte, la spinta che mi ha portato a colmare quel vuoto, o meglio, a costruire la storia che ho scelto di raccontare (la scrittura è un modo di creare una cornice intorno al vuoto delle nostre vite e di quelle che ci hanno preceduto). Mi sembrava bello, oltre che plausibile, che durante il percorso ci fosse un cronista di bordo e che potesse essere un quindicenne con il viso e il corpo deturpato da un incendio. Mi interessava creare questo personaggio che, da una parte, nel Vecchio mondo, è escluso ed emarginato dalla sua stessa famiglia, sempre per via del suo imbruttimento, mentre, nel Nuovo mondo, viene accolto quasi come una divinità. Comunque, incastrare una storia sulla base di una vicenda reale mi interessa, penso che la finzione abbia bisogno di punti fermi per poter divagare.

Lo sguardo degli indios, la loro lingua tattile, la ‘purezza’ di chi non ha memoria o rimorso perché il tempo scorre e le cose si nominano per la prima volta, sempre, come se niente fosse immutabile, definito. Come hai lavorato a questa visione, che è poi uno dei fuochi della tua narrativa, sempre attenta al rapporto tra segno e realtà, ai diversi modi di ordinare il mondo?

Sarebbe bello per un attimo osservare il cielo e le piante con gli occhi degli indios. Non potendolo fare, ci appelliamo alla scrittura. In questo senso, essa non ha confini in quanto a temi e ambiti di discorso, l’importante è che la voce narrante sia credibile, nella singolarità e nella necessità di una forma. Sono sempre stato attratto dall’etnografia fantastica, se vogliamo chiamarla così. Dunque, provare a ipotizzare come poteva essere la loro lingua e la loro visione della realtà, mi affascinava parecchio. La nostra vita è un incessante tentativo di mettere ordine, il che presuppone che tutto parta dall’indeterminato. In tale prospettiva, immaginare in quale modo un gruppo di nativi persi in mezzo alla foresta riesca a dare forma al mondo è una sfida che ho voluto intraprendere. Mi piaceva immaginare che gli indios, per esempio, usavano abbandonare i morti sul fiume affinché questi potessero raggiungere una determinata cascata per poi giungere nell’aldilà.

Reportage, diario di viaggio, riflessione antropologica, racconto di formazione: Verde Eldorado dimostra ancora una volta come il meglio della letteratura risieda in territori di confine. Tu, del resto, sei solito situarti in spazi ‘intermedi’: tra le lingue, tra i generi, tra le culture. Da questi interstizi, forse, si riesce a guardare meglio, con sguardo obliquo e ‘depurato’…

Il fatto che io scriva in una lingua acquisita, tra l’altro imparata da adulto, mi colloca in uno spazio interstiziale e da questa postazione, un po’ solitaria e marginale, cerco di coniugare i mondi che mi sono toccati in sorte. Il genere della cronaca, che mi sta a cuore, era coltivato ai tempi della conquista e serviva a informare. È rilevante non solo per la sua natura storica e il suo rapporto con altri generi, ma anche per essere, come sottolinea Gabriel García Márquez nel suo discorso durante il conferimento del Premio Nobel, il germe dei romanzi sudamericani. Sono un misto di saggi, narrativa, libri di viaggio e poesia epica, scritti con lo scopo di dare notizia di un continente insolito dove non solo la natura, le piante e gli animali, ma anche i costumi degli aborigeni, le loro mitologie e cosmogonie erano insolite, e fornivano, nella loro nebbiosa lontananza, materia fertile per far volare l’immaginazione.

Ugolino sbarca in una terra lontana, non sua. Il rapporto che instaura con gli indios è fatto di scambi, di lente scoperte, a mostrare come l’alterità possa svelarsi generativa se non la si ingabbia in schemi predefiniti, solitamente identitari…

Ugolino potrebbe chiedersi: “Come si misura la lontananza quando ti trovi in una terra che non sai di preciso dove si trova? Quali sono i legami affettivi che stabilisci?” All’inizio, mentre si addentra a colpi di remi in quello spazio sconosciuto che lentamente sembra inghiottirlo, sa che quelle terre sono infestate da cannibali (conosceva bene la storia di chi lo aveva preceduto, il capitano Juan Díaz de Solís, morto sopra una graticola insieme ad altri marinai). I mari non badano alla pelle degli uomini, gli dice un giorno Caboto, ma nemmeno i nativi, che sanno cogliere la diversità. Ognuno di noi è una molteplicità di cose, nel senso che abbiamo tante sfaccettature, e quando qualcuno ci individua come storpio o sfigurato o monco, non fa altro che estrarre da quella molteplicità che siamo un elemento, uno solo (la storpia, la sfiguratezza o la moncosità) e sostituirlo con il tutto. Ecco, in Verde Eldorado questo non succede, anzi, quel singolo elemento, la deturpazione nel caso di Ugolino, diventa un valore aggiunto, perché, come dicevo prima, in quel imbruttimento gli indios leggono i segni degli dei del fuoco, i Karai.

“Verde Eldorado”
di Adrián N. Bravi (Autore)
Editore: Nutrimenti (17 giugno 2022)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 176 pagine
ISBN-10: 8865949031
ISBN-13: 978-8865949030
Peso articolo: 210 g
Dimensioni: 22.6 x 1.7 x 14.3 cm

Le immagini a corredo sono di Lorenzo Romagna (Generative AI Art)

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