L'epoca inquietante

Viviamo in un’epoca inquietante: Giovanni Comisso spiega l’impossibilità del vivere felici

Ho scoperto un paese lontano dalla civiltà attuale. Non vi sono alberghi, ma qualche locanda per villeggianti poveri, senza bagno e con gabinetto esterno. Per le sue strade vi passa una motocicletta solo ogni cinque ore, rare sono le automobili. Stride ogni tanto sul terreno sassoso qualche carro di ritorno da campi, ma quello stridore è armonioso come un verso delle Georgiche. Le campane suonano e risuonano riecheggiate dalla conca dei monti con dolce modestia. Il treno passa distante, sull’altra riva del Piave, e serve col suo rumore attutito ad indicare le ore, quando il sole non le proietti con l’ombra di una lunga roccia sullo squarcio di un monte vicino: simile a una meridiana. I pochi villeggianti si avvertono appena e non hanno bambini che si chiamino Maria Luisa o Gianfranco. Le locande non hanno nome e il villaggio ne ha uno di umile che suona al diminutivo: Segusino, perché anticamente vi erano soltanto alcune segherie che lavoravano nella zona coperta di boschi.
Segusino è sul Piave tra una verdeggiante e variata cerchia di monti prima che la vallata si restringa nella direzione di Feltre, La signora Maria, padrona della locanda dove abito, è sempre cordiale e sincera nell’accogliere, ella è felice perché la sua zuppa di trippe è ricercata a tutte le ore del giorno, sogna tuttavia di trovare una macchina per fare il caffè espresso, messa in disuso da qualche bar moderno della città. Vedrò di trovargliela e gliela concedo come corruzione verso la civiltà attuale. Ma io passo grande parte del giorno sulle ghiaie del Piave dove vado attraversando i campi e mi fermo a parlare coi contadini. Mi spiegano come quei campi siano sorti dopo la tremenda inondazione del 1882, quando per salvare il paese da altri assalti delle acque del Piave fu costruita la grande diga e che quella terra è fertilissima, ma bisogna irrigarla durante l’arsura, perché creata dall’acqua ama l’acqua.
Finiti i campi incominciano subito le grandi ghiaie e il rapido scorrere delle acque del Piave che sono verdi, assorbendo come la pelle di una salamandra il verde dei monti soprastanti all’intorno. Attraverso il primo ghiaione, passo a guado un corso d’acqua ed arrivo a una isola di ghiaia dove mi distendo al sole. Sono isolato dalle acque verso la riva verdeggiante di campi col paese nascosto, l’altra riva è formata da uno spalto scarso di frane sotto a cui passa la ferrovia. Non vedo case, vedo solo i monti boscosi e le acque e le ghiaie e nessuno viene verso quelle rive. Ogni tanto un nero falco si libra sulle ali aperte scendendo verso la valle, qualche volta passa un treno snodandosi come un verme ridicolo. Sento i sassi su cui sto disteso, il sole che aumenta il suo calore, l’aria fresca che scende con le acque e il loro turbinio nei gorghi. Ho la precisa consapevolezza della solitudine e subito mi prende una gioia profonda come da tempo non provavo: sono solo, assolutamente solo, lontano, separato dalle città e dagli uomini. Da tempo avevo dimenticato questa gioia, da tempo credevo oramai che non fosse possibile disgiungersi, uscire dalla comunità umana e non subirne le sue leggi, il suo peso gravante come un incubo.

Fiume Piave

Viviamo in un’epoca inquietante, dove la lotta è generata da elementi ancora oscuri della coscienza e da altri chiari, accidentali e meccanici della vita esterna, per cui non è più felice il vivere. La vita con un andamento di angoscia non permette più come appena un secolo addietro, che risulta quale un’Arcadia lontanissima, di oziare in beatitudine tra amici saggi e divertenti.

Oggi non è più possibile per alcuno invitare nella sua casa di campagna un amico pittore perché affreschi di scherzi o di miti ogni parete, non è neanche possibile invitare alla propria tavola amici di piacevole conversazione per digerire bene. Oggi i contadini sono liberi dai feudatari oppressori, la guerra e la borsa nera li ha imborghesiti, pur in una ricchezza illusoria, le macchine agricole li hanno sollevati dagli estenuanti lavori, vivono nel silenzio salutare dei campi, eppure non sono felici, non vogliono essere felici e, eliminati tutti gli elementi d’oppressione, si sono creati altre oppressioni nelle numerose malattie che li perseguitano come non mai. I cancri che prima erano solo prerogativa di chi vive in città, oggi, sono degli abitanti della campagna, le appendiciti per i contadini sono come i raffreddori per gli impiegati, e così tutte le altre malattie, e se non riescono a provocarsele vanno a tagliarsi sulla falciatrice o sulla trebbiatrice, e se anche questo non è possibile vanno a finire sotto un’automobile appena passano dai campi alla strada. Da quando non hanno più i loro oppressori, per così dire, naturali, essi affollano come formiche ambulatori e ospedali.

Foto di Kristina Paukshtite da Pexels

Una sera mi trovavo in un villaggio, la luna era appena apparsa, in un osteria alcuni uomini cantavano accompagnati da strumenti, due giovani donne apparvero portando ognuna il proprio bambino di pochi mesi, erano sposate da poco, rientravano da una passeggiata e dovevano andare in un villaggio vicino dove i loro mariti le attendevano. Quella musica e quel canto le attrassero sulla porta dell’osteria a guardare, non sapevano staccarsi e la luna saliva nel cielo. Erano forse riprese dal senso della felice libertà del tempo, quando non erano ancora sposate, ma ognuna portava il proprio bambino tra le braccia ed era il segno che quel tempo era passato per sempre. D’improvviso dalla strada sopraggiunsero fragorosi due motociclisti coi fari accesi, quelle donne ebbero un tremito e dissero con sussulto: la polizia. Erano invece due fanatici della motocicletta che ritornavano da una gita, ma esse volevano fosse la polizia, che questa polizia fosse venuta per loro ad arrestarle e a ricondurle a casa, come colte in peccato, in tradimento.

Ma quasi comico fu altra volta. Una notte fui gentile di accompagnare un mio amico con una sua amante nella mia macchina fuori un luogo di villeggiatura in piena campagna. Scesi per una stradina e dissi loro che più avanti vi era un bosco meraviglioso. Questa donna era divisa dal marito e veniva da una grande città, li lasciai soli nel bosco. mentre guardavo le stelle fumavo ma il loro giuoco amoroso si protraeva a lungo e cominciavo ad annoiarmi, d’un tratto intesi sulla strada una macchina fermarsi e vidi spegnere i fari, andai a vedere e mi accorsi che erano altri amanti che cercavano di scendere per quella stradina verso lo stesso bosco. Allora andai dai miei amici e dissi scherzosamente per sollecitarli: che era arrivata la Celere. Non vi poteva essere questa polizia speciale in quel luogo di villeggiatura, era assurdo, eppure quella donna immediatamente credette che vi fosse e che fosse arrivata espressamente dalla città più vicina per arrestarla, per fare del suo attimo di piacere un grande scandalo. Si alzò spaventata, andò a sbattere contro un tronco di un albero, si ruppe un’unghia, sanguinò e pianse. Il mio scherzo coincideva con la sua volontà di essere oppressa nel suo momento più felice, non voleva essere felice, e si punì col dito sanguinante.
E’ strano questo punirsi della donna con una ferita al dito, conosco un altro caso. Si tratta di una giovinetta fidanzata a un uomo che ha un’automobile esageratamente grande, colla quale fanno spesso gite lontane. Forse ella non si sente degna di avere un fidanzato così ricco e che le possa dare, anche da fidanzati, la gioia del viaggiare, permessa dai suoi genitori per la serietà di lui. Un giorno decidono di andare a fare colazione in un rifugio di montagna dove sono stati altre volte. Ma ella ricordando che i coltelli di quel rifugio non riescivano a tagliare neanche il pane, decide di portarsi da casa un coltello che tagli e lo fa persino affilare perché tagli bene. Giunti al rifugio ordinano un antipasto, ella prende il suo coltello affilato e taglia il pane per spalmarvi il burro, invece del pane si taglia profondamente il dito fino all’osso insanguinando, come fosse stato versata un’intera bottiglia di vino, tutta la tovaglia. Da quel giorno sono passati tre mesi, la ferita è rimarginata, ma ella non dorme alla notte presa da un incubo che anche al giorno le scopre terribilmente i suoi nervi. Ella sa di avere premeditato un delitto forse verso se stessa, forse verso il suo fidanzato di cui non si sente degna, non vuole sentirsi degna, non vuole essere felice con lui e si è condannata.

Foto di Krishna Studio da Pexels

Una mia amica anch’essa ha voluto crearsi una condanna, donna bella, giovane, sposata a un uomo ricchissimo e giovanile, ha potuto proseguire dopo il matrimonio la sua ebbra libertà di ragazza per essere secondo le stagioni dovunque era da godere la natura nel suo momento ideale: passaporto, denari senza calcolo, automobile da lunghi viaggi, andare dovunque, essere dovunque : dove era o da cogliere un fiore particolare o da gustare un cibo d’eccezione. Venne il momento in cui ebbe un figlio, ma questa nascita coincise con la guerra, col tempo in cui le frontiere erano chiuse e fu quasi inavvertito il peso e il legame, ma dopo che le frontiere furono riaperte e già ella se ne andava per l’Europa come sempre era stato, si accorse di dovere diventare nuovamente madre. Proseguendo nella gravidanza il presagio la colse che non un altro bambino doveva nascere, ma due. Ella sentiva che se fossero stati due sarebbero stati come un rafforzare la dose del primo che era stata insufficiente, condannata a non più muoversi come aveva creduta che sempre lo sarebbe stato nella sua vita. Si fece fare una radiografia del ventre e ne apparve uno solo e fu confermata nella sua possibilità di essere ancora l’errabonda senza limite, attratta ad ogni libero estro, ma al momento del parto nacquero due bambine. Il suo presentimento, come desiderio di condanna e di limite aveva superato la scienza e quasi era riescito a materiare entro di lei quel secondo essere punitivo. Ho rivesto questa mia amica alla sua casa, non volle neanche scendere, si affacciò alla finestra dopo a avermi mandato la bambinaia con le gemelle una per braccio, ella mi disse: «Sto male, sono quattro mesi che sto male, sono piena di vita, di ardore di vivere, ma appena esco da questa camera non ho più la forza di fare nulla. Sono una donna finita». Ella è ancora giovanissima, bellissima, ricchissima, moglie adorata di un marito spensierato e giovanile, ma ella ha voluto crearsi con quel parto gemellare la rinuncia alla sua felicità. «Non lo ero prima», soggiunse, «ma ora sono diventata persino cattiva, addirittura crudele».

Un mio amico viveva in speculazioni d’ogni genere che andavano da combinazioni turistiche al mercato della pittura moderna, tutto gli era facile, tutto gli si tramutava in lieto guadagno, era un vero seduttore degli albergatori e dei collezionisti di quadri, quando doveva combinare un affare sapeva conformare lo sguardo in un modo talmente languido che nessuno resisteva. Ma sulla soglia di quest’anno che viene chiamato: Santo, pensò di stampare una guida dei santuari e delle cattedrali d’Italia in quattro lingue. Fu il primo affare che egli non abbia saputo concludere, sperava che la prendessero i vescovadi per i pellegrini, che l’acquistassero all’estero, invece i preti già vi avevano pensato per loro conto e non gli fu possibile che collocare poche copie. Fu la sua condanna, si giudicò finito come uomo d’affari, siccome non era sufficiente come condanna avere una perdita dei capitali impiegati, gli rispuntò una ernia che già gli era stata operata anni addietro e dovette ritornare ad operarsi aggravandosi di spese e di debiti.

Potrei continuare annoverando altri esempi, sono moltitudine, sono tutti gli uomini di quest’epoca che più non vogliono essere felici e cercano di essere oppressi come se la felicità non abbia più da essere una possibilità terrena: viviamo in un epoca inquietante. Ma vi sono alcune oasi nel vasto deserto, come la signora Maria di questa locanda nel celestiale paese di Segusino, felice per la sua zuppa di trippe richiesta a tutte le ore del giorno, sempre accogliente e generosa, vi sono nelle grandi e piccole città, altri trattori di moda, rosei in volto, sorridenti, accoglienti, amabili e generosi. Questi trattori con la loro cucina, dove almeno una specialità ha creato la fama, sono come altrettante cliniche risanatrici. Non vi è altro di più sincero, di più efficace nei tempo d’oggi, ad una certa ora del giorno quando la città moderna coi suoi rumori, con le sue urtanti scomodità rende vicino il tracollo, si decide di andare in una di queste cliniche che sono abitualmente indicate col nome amicale del trattore, non col cognome. Egli è come la madre, come la balia mammelluta, prodigo verso il cliente che risana. Ed egli risana come in altri tempi risanavano certe case di piacere meravigliosamente organizzate oltre i limiti oppressivi della morale allora imperante.

Arturo Martini

Ma non posso dimenticare; due altri esempi di uomini che hanno voluto crearsi una condanna essendo costoro due grandi artisti e due miei grandi amici. Il primo è Arturo Martini: dopo lunghi anni di lotta e di fatica da minatore egli era riescito a diventare dominante in Italia, io lo ho seguito in tutta questa lotta e nel suo successivo trionfo. Potè arrivare a impegnare il suo lavoro di creatore veramente come non avveniva in Italia dal tempo della Rinascenza, adonò piazze, palazzi statali e privati, chiese e ville, egli sentiva che poteva considerarsi felice, ma volle una sua condanna, rinnegò la sua opera di scultura e la scultura stessa come possibilità artistica e siccome era spicciativo nelle sue decisioni, invece di crearsi un male e languire, voltò la schiena alla vita e morì.

Filippo de Pisis, ritratto da Federico Patellani, 1950

L’altro è Filippo de Pisis, anch’egli ho seguito dai suoi primi lavori, ho visto come egli abbia saputo fare fiorire la sua poesia vibrantissima, quadro su quadro, sempre più arrivando alla perfezione della luce del diamante. Luce e colore come eterni splendori di stelle, e la gloria fu sua senza più battaglia, non aveva più nessuno da convincere, dagli umili di spirito ai grandi, tutti lo comprendevano, si inebriavano delle sue opere, lo coprivano di denaro e gli portavano via i quadri incompiuti ancora, la sua felicità si accompagnava alla sua libertà assoluta, ma alcuni malviventi del dopoguerra entrarono nella sua casa per derubarlo e imbavagliato, legato e minacciato di morte lo lasciarono sanguinante. Da quel momento egli senti il richiamo a una sua condanna e si creò un male che dovesse opprimerlo che dovesse abolire la sua felicità. Il male fu da principio un po’ di pressione e un po’ d’inssonnia, ma egli seppe aggravare l’una e l’altra sbagliando le cure, sbagliando nelle consultazioni dei medici e scegliendo i luoghi risanatori adatti invece a peggiorarlo. Oggi, egli vive in una clinica, come in un carcere. Come l’ostrica vuole la sua conchiglia e vi sta dentro, cosi gli uomini vogliono essi stessi queste carceri, questi ospedali, questi manicomi, case di ricovero e caserme che sono dure croste formate su di loro, adattate su di loro e pure in sofferenza finiscono col sopportarle.

Giovanni Comisso

Pubblicato a pag 6 de Il Mondo del 8 luglio 1950 con il titolo “L’epoca inquietante”.

Immagine in evidenza: Particolare di un manoscritto miniato a Parigi nel 1403, miniatura all’inizio delle Georgiche (Pal. 69, f. 18, Biblioteca Laurenziana) – Fonte: Wikipedia

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