Il pittore Armando Spadini - Giovanni Comisso

Il pittore Armando Spadini

È alta affermazione dell’esistenza dello Spirito, la forza d’avvertimento di tragiche situazioni dello Spirito stesso.
Forza che supera i limiti materiali delle cose; che attraversa le pareti delLa camera più chiusa; che non conosce la lentezza misurata del tempo né il chilometraggio del terreno.
Stamane per questa forza, contro l’ostinatezza d’un sistema, ho comperato un giornale per leggervi subito la morte del pittore Armando Spadini.

I migliori artisti trevigiani conoscono ed amano da tempo questo pittore, che può degnamente unirsi alla schiera dei pittori veneziani dei cinquecento; ultima potente manifestazione della pittura latina sul suolo italico.

Non si sa però se i non artisti all’annunzio di questo nome si ricordino di averlo mai inteso; contuttoché l’ultima Biennale di Venezia sia stata aperta al pubblico a così poca distanza da qui, con notevole ribasso ferroviario anche per i viaggiatori di prima classe.

Armando Spadini Autoritratto, 1917

Conobbi Armando Spadini nel 1919 a Roma e riferirò come, per darne in qualche modo conoscenza del suo temperamento.

Ero al Caffè Greco nella penombra fumosa e lucida di vecchi specchi. Un uomo passò con un camminare libero e impetuoso altre volte notato nei nocchieri appena giunti a terra dopo la tempesta, nell’attraversare la folla dei sedentari. Era Spadini. Lo seguiva il pittore Giorgio de Chirico che mi presentò alla sua ampia stretta di mano. Venne stabilito di andarlo a trovare il giorno dopo.

Credo non manchi di interesse sapere che Spadini e de Chirico erano amicissimi. L’uno sicuro, sereno, completo vivente nella bellezza delle forme e dei colori terreni, l’altro freddo espositore di costruzioni lunari, di immagini di sogno talvolta intense per ironia e mistero chiamate per la loro irrealtà «metafisiche». Eppure erano amicissimi e questo è una testimonianza della Serenità dello Spadini ed è anche nel fatto un simbolo della situazione della pittura in Italia.

Lo Spadini simbolizzava i concreti, l’attività operante, lo spirito classico non tramontabile.

Il de Chirico, gli astratti, i vagolanti, gli esploratori del brio, i ricercatori secondo pensiero, destinati alla consumazione e alla dimenticanza.

Mi aveva appunto il de Chirico, fatto vedere un suo quadro «L’Ermes malinconico» forte di espressione ma assente di tinte. Nel passare per una via in salita tutta ariosa, sostammo dinanzi ad un negozio dove era esposto un quadro dello Spadini. Il ritratto di sua moglie. Occhi e anima respirarono come innanzi ad una finestra dischiusa sul mare in una stanza chiusa da giorni.

Fondazione Cariplo – Spadini Armando, Nel Parco di Villa Borghese (Wikimedia Commons)

Oltre passato un quartiere eccentrico si giunse quasi in campagna sul limitare di Villa Borghese. La casa dello Spadini pareva una piccola osteria romana. Bassa ad un solo piano, una pergola di vite sopra un cortile. Ci ricevette la moglie, viva e poetica come nel quadro. Egli sopraggiunse poco dopo, ché c’era una luce straordinariamente favorevole per fissare alcuni tocchi che gli tormentavano nel cuore.

Era primavera, come ora! Uscì dalla bassa porta tutto lieto; vibrava nelle spalle e nelle braccia come dominato ancora dall’estro. Ordinò il caffè, non volle farci entrare e vedere, perché questa era la legge. Ci sedemmo sotto alla pergola. Allora prese a guardare il volto di de Chirico; un volto filosofico, raso e pallido su cui scendeva dalle foglie appena spiegate un riflesso verde, che particolarmente gli piaceva e mi chiamò ad asserire quella bellezza.

Giorgio de Chirico – fotografia di Carl Van Vechten (5 dicembre 1936))

Il de Chirico rideva e si schermiva col dire: «Mi sono appena fatta la barba». E Spadini con le sue mani gli girava la testa ora di qua ora di là. per cercare il punto dove potesse assorbire maggiormente quella luce.

E insistette a scrutare l’effetto con una tensione acuta e dolorosa. Poi si volse verso di noi e ci spiegò tutta la difficoltà di fermare sulla tela quello che si vede e ci commuove. «E’ come al tiro a segno», disse, «è questione di colpire il centro».

Bevuto il caffè in piccole tazze orlate di rosso, recate dalle mani pallide ed eleganti della moglie (vicino a Lui nella sua casa, tutto assumeva quel sentimento definito, caldo, affettuoso e delizioso che Egli ci ha affermato nelle sue opere), uscì con noi a passeggiare.

Entrammo, a Villa Borghese, e loro due cominciarono ad alzare lo sguardo verso un filare di alti platani secolari forse piantati dal Papa Borghese.

Dividevano la loro ammirazione a gara; Spadini alzava le sue grosse braccia verso certe cime che si scioglievano nell’azzurro. «Quella! Quella!», gridava, «è la parte migliore!». Poi accortisi che poco più giù sul declivio ombroso all’ombra d’un basso albero, pareva ci fosse un pittore col cavalletto, ci incamminammo per vedere cosa facesse, ed essi sorridevano pregustandosi la sorpresa d’un accademico all’aria aperta. Ma quale non fu la meraviglia quando sotto quell’albero non v’era già un pittore con cavalletto ma una poltrona a sdraio con una vecchia decrepita che sonnecchiava. «E’ l’Accademia in persona» disse il de Chirico e lo Spadini non finiva di ridere.

Rideva. Godeva di poter ridere. Anche dopo scendendo verso piazza del Tritone, rise per altre cose. Pareva che avesse bisogno di allegria. Troppo giovane è morto e l’arte doveva costargli dolore e fatica.

Ma se ingrati sono stati gli uomini che anche assai tardi decisero di riconoscerlo creatore, ingrato è stato anche Dio a far morire in primavera Lui, che tanto la adorava e celebrava per la sua santa luce.

Giovanni Comisso

da Eco del Piave del 02/04/1925

Immagine in evidenza: Armando Spadini – Il sonaglio (foto di Sailko, Wikimedia Commons)

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