“La rosa di Conegliano” di Giovanni Comisso

Conegliano è una città come una rosa alla rovescia nella sua struttura. Nei secoli si evolve in petali che diventano sempre più vitali alla periferia, mentre quelli del centro appassiscono e decadono.

Un tempo era formata dal castello sul colle e dal borgo medioevale sottostante come appare negli sfondi dei quadri di Cima.

Poi ingrandendosi venne attraversata da una strada gloriosa di palazzi ed era la strada d’obbligo per tutti i viaggiatori da oriente e occidente e viceversa. Più avanti nei secoli ebbe un altro petalo, un’altra strada sottostante che assai presto si consolidò urbanamente.

Di recente fu necessario tagliarla fuori dal grande traffico ed ebbe una ultima strada che parve fatta per raccordare le zone industriali mentre già si matura per diventare parte della città.

Conegliano è stata già rovinata abbastanza nella zona delle sue colline e ville che formava il corrispettivo visivo del suo nome molle e dolce.

Conegliano ha nei punti nevralgici delle sue strade caffè con pasticcerie che sono luoghi di ritrovo dei benpensanti della città.

Seduti ai tavolini decidono sui futuro di Conegliano, mentre le signore con le labbra a ventosa afferrano le paste che schizzano zabaglione e cioccolata. Vi fu un tempo in cui volevano il grattacielo nel centro per essere degni della fama internazionale della loro industria ma non glielo lasciarono fare.

Adesso smaniano per avere una piazza che sia un poco appartata dal traffico incessante che rende Conegliano una città assai poco silenziosa.

L’internazionalismo della città di Conegliano comincia dalla sua scuola enologica centenaria dove hanno affluito da sempre studenti di tutto il mondo, dall’Argentina, dalla California, dai paesi balcanici e mediterranei e perfino dall’Abissinia.

Questo istituto genera una tradizione industriale, dai vini e dai distillati a tutte le attrezzature necessarie per lavorare e conservare i vini, come le famose botti in legno.

Una fabbrica di queste fa pensare all’arsenale dei Veneziani come lo vide Dante e i recipienti da 500 ettolitri sembrano proprio chiglie di galere impostate negli squeri. Il rovere di Slavonia emana il suo profumo che poi si ritrova nei distillati che ha covato nel tempo.

I bottai picchiano sui cerchioni di ferro girando ritmicamente attorno alla botte. Sotto le grandi navate della fabbrica tutti si muovono ordinatamente nello svolgere il proprio compito.

Dopo la prova fatta in questi anni, che il vino non può riposare nelle vasche vetrose di cemento, tutti i paesi vinicoli sono ritornati all’uso delle botti per la conservazione dei vini pregiati. Per questo a Conegliano è ritornata l’antica arte del bottaio. Altra attività industriale è quella delle macchine enologiche, dai filtri ai refrigeranti ai torchi esportati in tutto il mondo con organizzazione perfetta.

In una piazza vi è una specie di tempio greco-egiziano che non si sa se è un teatro o un museo e porta scritta questa parola solenne: Accademia.

Due sfingi laterali nutrite del buon foraggio pedemontano hanno sviluppato il petto molto più di quelle di Luxor. I soldati si fanno fotografare accanto a questi simboli materni.

A notte tarda in un caffè si vedono due giovani ufficiali in attesa di essere serviti al banco da una ragazza quasi mascherata da grandi occhiali da sole.

Sembra si sia messa quegli occhiali per non essere abbacinata dalla presenza di quegli ufficiali perfetti nel portamento da giocatori di tennis con divise impeccabili, rasati meticolosamente al collo e alle tempie, sembrano i Dioscuri viventi come avessero lasciato di fuori i loro cavalli.

Erano così perfetti che in altri tempi avrebbero potuto entrare conquistatori trionfanti in questa città e pretendere i più begli ostaggi. Nessuno si era accorto della loro presenza e la ragazza non rispondeva alle loro richieste di bere qualcosa e annientava le loro emanazioni attraverso gli occhiali da sole.

Erano come certi fiori esotici e fantastici che si vedono da certi fiorai di notte e non vi è neanche una mosca che porti il polline dall’uno all’altro.

Giovanni Comisso

Il Giornale d’Italia, 1 settembre 1964

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