"Tre vivi, tre morti". Storia "noir" di una vicenda familiare. Intervista a Ruska Jorjoliani

“Tre vivi, tre morti”. Storia “noir” di una vicenda familiare. Intervista a Ruska Jorjoliani

Le venature noir si percepiscono appena, la cornice familiare conflagra nel fluire dei ricordi. Tre vivi, tre morti (Voland, 2020) è un romanzo viscerale e riflessivo, un’interrogazione sulla Storia che intreccia il tempo della Memoria. Tutto, a partire dal titolo, rivela un intento perturbativo: c’è il senso di un’esistenza unica – irripetibile quantunque segnata – l’idea di un passato rimosso che continua a determinare gli istinti, a guastare i fatti con le parole. È l’incertezza ad affascinare Ruska Jorjoliani, la convinzione che siano i chiaroscuri a dominare l’esistenza, le piccole ambiguità a sostenere i conflitti. La vita di Modesto e Aurora attraversa la storia d’Italia, scorre su binari separati sino a incontrarsi ‘lì’, dove guerra e pace si toccano, la fine e l’inizio coincidono e la parabola del destino è finalmente compiuta.

«Tutto succede e nulla si ricorda»: la citazione in epigrafe segnala che siamo sotto la stella di Borges, nel pieno ‘dominio’ della memoria e dell’oblio. In Tre vivi, tre morti il recupero dell’anamnesi è centrale, i dati fattuali si saldano in un percorso ondivago, articolato per mezzo di frazioni di un rigoroso – e impietoso – tempo dei ricordi. La strategia dei protagonisti, tuttavia, è quella della dimenticanza: Modesto scansa, Aurora rimuove. Che valore ha, nella tua scrittura, l’esercizio di tali pratiche?

Ruska Jorjoliani

Ho scelto quest’epigrafe per dare il senso di un gioco di specchi, dello scambio – e dunque della compresenza – fra memoria e oblio, proprio come piaceva a Borges. I protagonisti del romanzo ricordano tutto, scansano i dati urticanti ma alla fine portano il segno, inevitabile, degli accadimenti passati. È un po’ la cifra della mia scrittura: mettere insieme dettagli sparsi nel tempo e nello spazio, frammenti del nostro ‘io’ – che in letteratura diviene ‘noi’ – capaci di restituire una sola sfaccettatura, un’immagine sempre parziale e manchevole. A volte una di queste schegge può completare la nostra storia, altre volte genera una crisi – disgregando l’essere. Tale meccanismo è più visibile se ‘applicato’ al passato, laddove un dettaglio inaspettato (come un fiore lasciato in un libro) può sconvolgere o rappacificare l’io presente. Si tratta di elementi che lasciano intravedere qualcosa – odori, sapori, umori che creano un ponte verso la nostra essenza, illuminando aspetti che non ci erano chiari. Tutto il romanzo è costruito su dimenticanze a cui si legano i ricordi; è come un continuo rimpallo, un gioco di rimemorazioni fuggite eppur martellanti, impossibili da sopprimere.

Se potessi dare un sottotitolo a quest’opera, sceglierei L’arte dell’immaginazione. Il testo è affollato di personaggi da leggenda – quasi figli dell’oralità –, impegnati in processi di ri-elaborazione fortemente legati alla pratica creativa, dalla stesura di diari e lettere alla sovrapposizione mentale tra sogno e veglia. Il potenziamento del reale mediante l’immaginazione è una tipica lezione borgesiana, ma la struttura del tuo libro rivela ascendenze antiche, un debito verso l’epica popolare, quelle storie che si perpetuano nel tempo per la capacità di attivare la partecipazione degli individui. Che peso hanno le tradizioni (quelle che W.E. Peuckert chiama Überlieferung) nella tua storia di scrittrice?

Hanno un peso fortissimo: io sono cresciuta in una cultura legata all’oralità, è un bagaglio che porterò sempre con me. Nella scrittura si è creata un’osmosi tra questa tradizione e la letteratura italiana, tra le infinite potenzialità dell’epica orale e la ricchezza della vostra lingua. Tre vivi, tre morti è appunto il risultato di tale mescolanza. Sono consapevole delle insidie legate a questa tendenza, il rischio della ‘mitizzazione’ è altissimo, può persino accadere di sottrarre veridicità alle azioni e ai personaggi. Cammino sempre sul filo del rasoio, stando attenta a non rendere grottesche certe scene e a misurare con cura dettagli e situazioni. La pratica dell’immaginazione deriva, comunque, dalle mie tradizioni e credo si sia strutturata come filosofia della vita e della letteratura. Inventare, fantasticare, sono pratiche insite al processo creativo. Anche il ricordo è frutto di un’elaborazione, giacché la memoria non segue la realtà del passato ma si pone piuttosto come costruzione, un insieme di episodi ‘maneggiati’ dall’io rimemorante. Si tratta di un processo spontaneo, non sottoposto al controllo della volontà; certi dettagli si sommano ai dati ‘reali’ senza intaccarne l’essenza, ne arricchiscono i contorni dando vita a una costruzione altra, filtrata e modificata. È un aspetto che mi affascina molto, ed è strettamente legato alla mia idea di immaginazione. Penso si tratti di un’arte sottile, capace di creare ponti tra noi e gli altri, di leggere e interpretare meglio gli aspetti opachi della realtà.

Tre vivi, tre morti è intessuto di reminiscenze letterarie. Ogni sezione ha nel sotto-testo uno o più autori di riferimento, alcuni citati esplicitamente, altri ‘lasciati’ alle suggestioni del lettore. Con ognuno di essi sai tessere un muto dialogo e, di questo, trami infine la stessa materia. Che idea hai di letteratura?

La letteratura è per me una specie di ‘condensazione’ della vita. Reca con sé, inoltre, un fine mai dichiarato: quello di far comprendere il senso dell’esistenza – di chi legge e di chi scrive. Nel Novecento questo aspetto è stato messo da parte, quasi snobbato da buona parte della critica. Se ancora oggi si continua a leggere, tuttavia, credo sia anche per questa capacità di mostrare l’invisibile, di illuminare – come in una sorta di epifania – aspetti sino a quel momento indecifrabili. La letteratura ha sempre cercato di fornire risposte, di aiutarci a capire chi siamo e perché esistiamo.

Quello della guerra è un tema prismatico, declinato nell’intreccio fra pubblico e privato, laddove un oggi rimemorante dà voce alle lacerazioni dell’io e al disagio del mondo. I protagonisti sono segnati dal conflitto, attori e spettatori di un dramma totale. Che valore assegni a questo motivo?

La guerra è un tema che mi porto dentro, una realtà che ha segnato la mia storia. Avevo sei anni quando la Georgia fu devastata dal conflitto civile; insieme ai miei cari dovetti abbandonare casa, lasciare la regione, trovarmi sfollata. È stata quella guerra, tuttavia, a farmi arrivare in Italia, a far sì che il mio destino potesse compiersi. Quest’approdo – come il sole dopo la tempesta – è stato per me un compenso, il risarcimento di un’infanzia perduta. I colori della Sicilia sono stati un dono, mi hanno concesso di toccare con mano una rinnovata felicità. Il dramma della guerra, tuttavia, ha sempre premuto per uscire; avvertivo la necessità di scriverne, di mettere su carta quanto avevo provato, ma non ho mai ceduto alla tentazione di parlarne direttamente. In parte perché ritengo che la letteratura sia qualcosa di meditato, riflesso, destinato a ‘decantare’ e sedimentare. Essa è una sorta di cammino a spirale, ruota intorno a grandi motivi offrendo ogni volta una prospettiva diversa, frutto di slanci e meditazioni. Per non ripetere ciò che è già stato detto bisogna fermarsi e riflettere, leggere quanto hanno scritto gli altri e confrontarsi con certi temi. È un’operazione che richiede molta pazienza, una continua ‘coltivazione’. La questione della guerra era così calda da impormi uno sguardo trasversale, come la necessità interiore di una tecnica distanziante. In questo senso ho trovato nell’italiano uno strumento da ‘maneggiare’, capace di porsi come filtro ‘naturale’. Io ho abbracciato la lingua italiana, come un vestito su misura sentivo che era fatto per me – non è mai stata qualcosa di imposto.

Uno sguardo alla partitura stilistico-espressiva. L’attenzione al lessico, il racconto tattile di odori, colori, luoghi, rivela una padronanza linguistica solida, esito della completa ‘assimilazione’ della tua lingua di adozione. Mi piacerebbe sapere da dove nascono le tue immagini, quali riflessi ha avuto, sul piano espressivo, la piena immersione in questa ‘storia italiana’…

L’aderenza naturalissima tra me e l’italiano mi ha dato la possibilità di trovare immagini vivide, capaci di ‘parlare’ attraverso uno schermo. Si è trattato anzitutto di una difesa, riflessasi nelle ambientazioni e nel tempo della storia. La vicenda del mio primo romanzo (La tua presenza è come una citta, Corrimano edizioni, 2015 ndr) si svolge in Unione Sovietica, Tre vivi, tre morti prevalentemente in Italia. Non ho parlato della Georgia perché non sapevo se il mio ‘nuovo abito’ avrebbe retto alle lacerazioni; sono quindi passata sul confine, ho sfiorato certi temi grazie alla ricchezza dell’italiano. Quest’ultima opera trae spunto da fatti accaduti, ho consultato fonti, libri, un’ampia messe di materiali sulla Seconda Guerra Mondiale. Tutto l’alone emotivo, il rimescolio dei sentimenti sono però frutto del mio stato d’animo. È come se avessi impiantato il mio sguardo sullo sfondo di un conflitto altrui. Anche qui c’è stata una sorta di ri-flessione, i miei occhi hanno guardato uno scenario altro e lo hanno arricchito di esperienza personale, aggiungendo poi quanto ho appreso di rimando. Si è venuto a creare quasi un circolo virtuoso, in cui l’italiano ha funto da collante – o meglio, da cerniera – fra il mio vissuto e lo scenario italiano. È da qui che prendono vita le immagini, i racconti, l’intero impianto delle mie opere.

Tre vivi, tre morti” di Ruska Jorjoliani – Recensione di Ginevra Amadio

Si apre con la rievocazione di un sogno quest’opera di Ruska Jorjoliani finemente intessuta di reminiscenze classiche, specchio di un nomadismo ‘atletico’ improntato alla compresenza, capace di assimilare, rinnovare, proteggere. Densa di echi artistico-letterari – senza contare le stratificazioni della storia – la prosa dell’autrice mostra un debito verso la tradizione e rivela, al contempo, un’attrazione per le ‘soglie’ intese come spazio di contaminazione e incontro fra mondi.

È la stessa vicenda umana di Jorjoliani a suggerirci l’interstizio quale carattere portante: nata a Mestia, in Georgia, trentacinque anni fa, nel 2007 si è trasferita a Palermo dopo esservi giunta da bambina, quando la pulizia etnica lacerava l’Abkhazia. La scelta dell’italiano, il processo di acclimatazione che la ‘sveste’ della sua lingua risponde – forse – a un bisogno interiore, a una tecnica distanziante che sappia dar conto del patimento, del vortice di emozioni inespresse. L’idioma acquisito è per lei, tuttavia, un codice stratificato, quasi un’idea di mondo che guarda e fissa l’incontro tra le sue anime. Avvezza al confine – a questo spazio che separa e congiunge il dentro col fuori – Jorjoliani fa della scrittura un dispositivo unificante, tramato di arabeschi appena capricciosi. Coesistono in tale impianto – come in un gioco ad incastri – tracce di antichi miti e della favolistica georgiana, richiami filosofici e allusioni pittoriche, sino a inglobare la folla dei nostri scrittori: Gadda, Svevo, Parise, Morante, Berto, Fenoglio, Rigoni Stern.

Al riecheggiamento esplicito si affiancano le ombre dei modelli siciliani, quell’aria bufaliniana di magica sospensione; muovendosi sul filo della morte e della vita – rielaborando dati, Storia e storie – l’autrice fa della soglia il suo punto di osservazione, il margine da cui indagare «i sogni della memoria». L’attività onirica, più simile in realtà a una rêverie angosciosa, guida infatti il lettore tra le pieghe del testo, laddove la narrazione si articola per mezzo di frazioni disomogenee, saltuariamente identificabili ora col periodo postbellico, ora con gli anni duri del conflitto. Il procedere altalenante, talvolta rapsodico, imita un tempo della memoria sottoposto a ‘costrizioni’, stretto fra gli effetti del rimosso e l’implacabile cogito dell’età adulta.

I protagonisti di Tre vivi, tre morti si muovono non a caso in una zona innominabile, colma di fantasmi e di tormenti. Fisicamente piantati nella Firenze del ‘miracolo’ consumano la loro vita in tristi ‘stanze’ del compromesso, esito dell’incontro/scontro con il proprio passato. La strategia dell’oblio messa a punto da Jorjoliani convive – in ottica squisitamente borgesiana – con il rovesciamento del rapporto fra realtà e finzione, secondo un’idea di ‘oscurità’ rispondente, invero, al potenziamento dei fatti. Qui le lezioni apprese sono moltissime, dagli «atti relativi» di Sciascia al lavoro sulla memoria di Fabrizia Ramondino. Ciò che imprime al romanzo un carattere unico è comunque la sospensione di ogni certezza, l’impossibilità di focalizzare un profilo chiaro o un dato incontrovertibile.

Modesto e Aurora sono una coppia irrisolta, appesa a un sistema di rimozioni che sostanzia un equilibrio fragile. Conducono vite tranquille, essenzialmente separate nel loro intrecciarsi di bugie e omissioni, insidiate – e ancor più infiacchite – da ménage clandestini già dilavati. Non c’è traccia che possa guidarci a una decifrazione completa: ogni gesto nasconde segreti, ogni discorso è manipolato. A squassare tale sopravvivenza interviene una lettera, espediente finalizzato al turning point narrativo. Sotto l’eco delle minacce, Modesto tesse i fili del suo passato repubblichino ri-assaporando quell’aria di morte che gli impregna le viscere.

Il tema della guerra si affaccia, dunque, con forza distruttiva, reca con sé un potere di cancellazione che lungi dal farsi palingenesi degrada l’animo, ne guasta le pieghe come in un territorio martoriato. Qui la narrazione si fa sfilacciata, l’autrice lesina dettagli al fine di rafforzare un impianto disorganico, per sua natura alieno da linearità precostituite se non quelle concesse – appunto – dai fili della memoria. L’effetto di frammentarietà si riverbera, inoltre, sui vissuti dei protagonisti, soggetti fragili destinati a spezzarsi, tessere di un mosaico criptico e intimamente proteiforme. Come schegge di specchio, Modesto e Aurora offrono una visione parziale del proprio io introiettando sguardi ‘altri’ e narrazioni mediate.

Jorjoliani è bravissima a far coincidere i pezzi, mette in fila gli indizi per poi lasciare al lettore un margine di incertezza. Sorretta da una lingua colta, intensamente ricercata, l’autrice dà vita a un testo dolente, giocato sul filo del memento e dei ricordi personali. Ne emerge una rappresentazione straniata della quotidianità affettiva, in cui il conflitto si sposta dall’esterno all’interno della coppia secondo un processo di simultaneità. È una sfida ai generi, all’uso comune della rimemorazione: «Da cose minime possono nascere col tempo dei cambiamenti imprevisti che alterano cose che sembravano grandi grandi. La corona fatta dai bambini coi fiori strappati a qualcuno potrebbe ricordare qualcosa di triste e l’umore che cambia cambia la giornata che cambia la vita, per non parlare dell’acqua che esce dal lavandino otturato e che può allagare tutto».

Ginevra Amadio

Ruska Jorjoliani è nata nel 1985 a Mestia, in Georgia, dal 2007 vive stabilmente a Palermo. Inizia a scrivere dieci anni fa, in italiano. Nel 2009 vince il premio Mondello Giovani “SMS Poesia con un componimento dedicato a Dino Campana”. Nel 2015 esordisce con “La tua presenza è come una città” (Corrimano Edizioni), di cui nel luglio 2018 è uscita la traduzione tedesca. “Tre vivi, tre morti” è il suo secondo romanzo.

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