Una Venezia in terraferma

Una Venezia in terraferma

Ho attraversato il Chianti per venire da Firenze a Siena, ma questa terra vinifera non è come mi aspettavo di vedere. Credevo fosse come la zona di Asti o di Conegliano dove I vigneti sono visibili come serrati eserciti pronti alla battaglia. Potrei dire un giocoso assurdo: “Ho attraversato il Chianti senza vedere una vite e senza berne un bicchiere.” Così difatti avvenne, perché le viti non stanno esposte lungo la strada, ma nascoste come in agguato dietro le colline e il vino buono lo si trova solo nelle fattorie rintanate. Sebbene non vi siano montagne da valicare, ma semplici colline, la strada ha continuato a svolgersi per erte salite e continue curve come si fosse ancora tra gli Appennini. È una strada che può essere delizioso fare d’inverno in slitta, ma non è una strada utile per godere di questo paesaggio che si accresce sempre più di una bellezza in digradante estensione. Non è un mio puntiglio ribattere sull’indolenza di questa regione, ma essa stessa la rivela facendoci attraversare su fiumiciattoli che possono essere valicati con un salto anche da un gatto, ancora ponti di fortuna costruiti dagli eserciti stranieri. E questo avviene in Toscana che ha una vecchia fama di spaccapietre e di costruttori di ponti.

Il centro storico di Siena (foto di Tango7174, Wikimedia Commons)

Siena tutta incastellata da poppa a prua sul lungo poggio come una nave tra l’alto ondeggiare delle colline ritorna incantevole al mio sguardo. Dalla prima luce del giorno è avvolta in ogni sua parte da turbinosi voli di rondini, in vero come fosse una nave da esse incontrata nel grande volo, dove sostare. Stridono nel volo precipitando tra le torri fino dentro alle strettoie dei vicoli e subito si elevano per spaziare nella grande conchiglia della Piazza del Palio. È assolutamente, dopo Venezia, la più inconfondibile città d’Italia. È una Venezia in terra ferma invece che sull’acqua. Una città tutta esistente nei suoi palazzi antichi, nelle sue chiese abbaglianti di splendore, nelle sue calli scenografiche dove un popolo vive e lavora canoro nella parlata. Ci è stata preservata dalla guerra e anche da quel pericolo ancora peggiore, che è la fantasia irrequieta dei giovani architetti. Ma subito ci s’accorge che altro guaio turba questa maestosa città: la circolazione stradale.

Il centro storico di Siena con la Piazza del Campo (foto di Krzysztof Wysocki, Wikimedia Commons)

L’acqua «mussante»

Per le strade del centro è inutile mettere semafori o stabilire il senso unico: riesciranno sempre troppo ingombre di automobili e di motorette tra la folla che esorbita ai lati pure andando sulla destra e venendo sulla sinistra. E dall’ingombro di questo traffico il susseguirsi dei fantastici palazzi finisce col venire reso occultato. Per queste poche strade del centro, che poi si possono racchiudere in un pugno, bisogna che sia presa una decisione radicale, se i senesi sono consapevoli di quanto sia raramente bella la loro città. Bisogna che per queste strade in certe ore del giorno non passi veicolo alcuno.

Ho voluto rivedere e quasi toccare con le mani ogni angolo che mi fu caro e profondamente modellante negli anni lontani in cui qui fui studente universitario. Nulla era mutato, e si riesciva ad avere la rivincita sul tempo. Tanto ero preso da questo inganno che pretendevo bussando alla casa dove avevo abitato di ritrovare ancora vivi i miei vecchi padroni dì pensione. Ritrovai invece accanto la fontana, ancora con l’acqua che scaturiva con la stessa forza d’allora e che mi fece apprendere da una ragazza che l’attingeva una bella parola di origine francese, ma sublimamente italianizzata. A me che dicevo che quell’acqua era torbida la ragazza contraddisse che era invece: mussante. Volli rivedere la chiara acqua di Fonte Branda, ma nella nicchia della piscina attigua non ritrovai più la statua di Ganimede sorridente a Giove trasformato in aquila. Il bagnino mammelluto e disteso su di una panca entro lo sgabuzzino, come un etrusco sopra il sarcofago della sua tomba, mi disse come di un mito rinnovato che un ragazzo volendo tuffarsi nella piscina si arrampicò su quella statua tra le ali di Giove e precipitò con essa entro alle acque. Quando venne la notte tutta la città con le finestre illuminate risultò ancora come una nave sull’orizzonte delle colline ondose, ma le rondini l’avevano abbandonata.

Siena, Fontebranda (foto di H2k4, Wikimedia Commons)

Da Siena in giù la Toscana è tutta un’altra. Dopo la vallata d’Arno con Fiesole e la Lucchesia e dopo il Chianti che hanno determinato un aspetto quasi rettorico di una Toscana fiorita, ubertosa, gentile, dal dolce clima e dal dolce parlare, esiste un’altra Toscana, che vorrei pensare essere la vera. Quella, la si ritrova nelle cartoline illustrate, questa, è ancora da esplorare, da scoprire e da capire. Avviene lo stesso per la Sicilia che si crede sia tutta come Taormina, Siracusa e la Conca d’oro mentre dietro a questi tocchi di belletto vi è un volto tragico e mostruoso. Quest’altra Toscana è demoniaca: atterrisce e trasumana. E’ una terra arsa con selve di quercia dove il cinghiale va ad acuminare le zanne contro il duro dei tronchi secolari e la vipera sibila e si attorcilia al passare dell’uomo. I villaggi lontani l’uno dall’altro stanno sull’alto dei colli cinti da mura come per difendersi ancora da una persistente minaccia. Le case dei contadini si succedono rare isolate anch’esse sui punti culminanti e la terra fruttisce un solo raccolto di biade generato dall’umido invernale per poi tramutarsi in dure zolle simili a cumuli di macerie..

Foto di Elia Pinzin

Fra i cipressi

Sotto a questa terra di creta e di tufo si presentono le oscure cavità delle tombe degli Etruschi e il fuoco di vulcani profondi che non sono ancora emersi. Pure il cielo si eleva in uno sfondo cilestrino con piccole nubi erranti del tutto simili a quelle che nella primitiva pittura toscana reggono rosei angeli sorridenti. E queste nubi segnano sulla distesa delle vallate ampie le loro ambre, simili a orme del passo gigantesco del mammut che nella preistoria qui errava. Ora che si attraversa questa terra ci si riconferma che qui è la consistente Italia, e se si pensa all’umido e verdeggiante Veneto di dove siamo partiti, pronto ogni giorno della solare estate a oscurarsi di temporali che lo rendono morbido nella terra, nelle biade e nei foraggi, ci risulta come una regione nordica, come una propaggine del centro dell’Europa acquatica e malinconica. Varia in questa Toscana il volto dell’uomo tra quello ispirato dal cielo, allucinato come in attesa di un’apparizione ultraterrena dovunque e quello modellato dalla terra, simile a un’antefissa etrusca beffarda e ribelle. Si devia verso il convento di Monte Oliveto tra l’argentea meraviglia delle forre che si corrodono precipitose. Tutto attorno è quasi una cenere dove si sia smorzata da poco la brace. Mutevole e sorprendente è la visuale sempre. Il convento è cinto da un bosco di cipressi dove cantano gli usignoli ravvivati dalla fresca mattina. Alcuni monaci vestiti di bianco scompaiono tra le ombre dei cipressi. Si chiede di visitare il convento per vedere le pitture del Sodoma, ma il padre guardiano dubita che il monaco addetto ai visitatori ci lasci entrare perché uno dei miei compagni porta i calzoni corti scoprendo le sue gambe da uomo. Sì ride tra noi nell’attesa e si pensa che ancora perduri tra il chiostro del convento lo scandalo del Sodoma che all’insaputa dei monaci dipingeva le sue figure ignude per poi rivestirle alle loro grida sbalordite. Ma il monaco sopraggiunto non ne dà grande importanza. Egli sembra più che altro preoccupato di fare presto, perché è prossima la colazione il cui odore già si diffonde nell’aria nauseante come nelle caserme o negli ospedali.

Il monaco bizzarro

Volevo rivedere il mio giudizio sul Sodoma. Dopo Piero della Francesca, dopo il Perugino, dopo Leonardo, dopo Michelangiolo e dopo Raffaello, egli dimostra che era diventato una cosa assai facile dipingere. La sua sfortuna è stata che tutte le sue pitture ci sono pervenute intatte. troppo intatte, se almeno si fossero in parte deteriorate si potrebbe pensare che erano migliori. Il suo merito è di essere un bravo impaginatore di episodi, ai nostri giorni sarebbe stato un pittore da pagine a colori di giornale illustrato o un decoratore del Parlamento o di locali mondani che vogliono passare per popolareschi. Il monaco è sommario e ci si accorge che pensa sempre alla colazione imminente. Nulla più ci sorprende e si decide di ripartire, ma all’ultimo momento nell’accomiatarci da quel monaco, lo si guarda per la prima volta negli occhi che non risultano affatto da religioso. Forse è uno scherzo rinnovato dal Sodoma, sembra un carabiniere travestito da monaco. Chi sarà mai stato prima di indossare quel camice bianco?
Giovanni Comisso

da la Gazzetta del Popolo del 24/07/51

Immagine in evidenza: Foto di Wolfgang Weiser

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