Isabella Panfido intervista uno dei tre finalisti del Premio Comisso 2019 Sezione Narrativa
Nella sezione narrativa del Premio Comisso 2019 troviamo tra i tre finalisti uno scrittore di lungo corso, dalla penna lieve e incisiva allo stesso tempo: Paolo Maurensig con il suo ultimo romanzo ‘Il gioco degli dei’, Einaudi edizioni. La vicenda ambientata tra India coloniale, Gran Bretagna e Stati Uniti segue la vita di un personaggio esistito veramente, un enfant prodige degli scacchi, Malik Mir Sultan Khan. Il nome roboante non tragga in inganno, il protagonista, che vediamo bambino all’esordio e che seguiremo fino alla morte, è un indiano di casta molto bassa, rimasto presto orfano, dotato di un dono naturale eccezionale: una rara abilità nel gioco del ‘chaturanga’, l’antenato indiano degli scacchi. Grazie all’interessamento di un potente sultano – di cui il ragazzo prende il nome- il nostro Malik si affina nella strategia scacchistica al punto da diventare un campione imbattuto.
La vicenda è condotta con uno stratagemma narrativo: è il 1963, un giornalista americano, inviato del Washington post nel Punjab sulla frontiera di guerra indo-pakistana, si mette sulle tracce di Malik che ricordava come scacchista di fama mondiale, scomparso in un oblio dalle tinte fosche. Il romanzo, agile e stilisticamente ineccepibile, comprende nel suo evolvere aspetti significativi della storia coloniale e della presunta superiorità del modello occidentale.
Chiediamo all’autore da dove nasce il suo protagonista.
“Conoscevo il personaggio da quando ero ancora ragazzo, ma poi me ne ero completamente dimenticato. Avevo ormai deciso di non parlare più di scacchi, mi restava però l’impressione di aver trascurato qualcosa. Era, appunto, la leggendaria figura di Sultan Khan. Ho cominciato così una lunga ricerca per cercare di scoprire dove avesse passato gli anni della guerra e quelli successivi, fino alla morte. Sono riuscito in tal modo a ricostruire parte della sua vita, esponendola in maniera romanzesca.”
Il protagonista è indiano, quanto influisce sulla vicenda l’imprinting castale/religioso?
“Il punto di vista del narratore (Sultan Khan) è fortemente influenzato dalla propria religione e dalla casta a cui appartiene.
Accetta il talento che gli è stato donato, ma allo stesso tempo non ne approfitta: sa di essere, come ogni altro uomo, una pedina nelle mani degli dèi, e di far parte di un gioco che coinvolge tutta l’umanità.”
Il gioco degli scacchi le è molto familiare (ricordiamo il suo romanzo di esordio ‘La variante di Lűneburg’ del 1993) che funzione ha nel meccanismo del romanzo? Oltre che rivalsa sociale è anche strumento di meditazione?
“Molto spesso mi hanno fatto questa domanda: qual è l’aspetto che accomuna il gioco degli scacchi alla scrittura? I punti di contatto sono molteplici e sarebbe inutile tentare di elencarli tutti.
A me – scacchista inveterato – piace pensare che la scrittura sia una partita a scacchi con l’inconscio. Rotta la prima superficie di ghiaccio (che è l’abbozzo di una storia), non si sa fino a quali profondità abissali riusciremo a scendere.”
La società britannica esce con le ossa rotte dalla sua narrazione, con le sue trame di spionaggio e controspionaggio internazionale. Alla luce dei fatti di cronaca, delle minacce di una nuova guerra tra India e Pakistan, secondo lei quanta responsabilità ha la politica britannica/americana su quel confine tanto travagliato?
“Non sono un esperto, per cui non saprei che cosa risponderle. Certo è che il confine tra India e Pakistan non sarà mai pacificato. Per di più lo zio Sam ha restituito la stella da sceriffo del mondo e pensa alla propria sopravvivenza. Cosa che saremo costretti a fare tutti.”