Gian-Francesco-Malipiero

Con Malipiero ad Asolo. Cronache di vita artistica e letteraria

Non sono mai stato invidioso della potenza artistica dei miei amici Arturo Martini e Filippo de Pisis, non saprei cosa invidiare a scrittori italiani della mia epoca, ma al mio amico musicista Gianfrancesco Malipiero invidio quella sua magica introduzione alle parole del Magister Josephus, perché vorrei usarla uguale parlando di lui. Se la musica deve essere pura e fatale, come una costruzione geometrica, come la composizione di una pianta o come le strutture rocciose di una montagna, quella di Malipiero è mirabilmente di tale specie. La sua opera incessante, compatta, costruita con una continuità di narrazione voluta, quasi con esclusione dell’autore, da forze universali e profonde, assoluta, senza mai ricordare alcun’altra, senza mai lasciare scoprire una nota ingiustificata, sta tutta sospesa al cospetto degli dei ancora in vana attesa che gli italiani sappiano che Malipiero è un musicista che può determinare un’epoca.

È certo che in Italia possono sorgere grandi creatori di musica, ma che gli italiani apprezzino la musica e se ne intendano è altra cosa. Non siamo un popolo fatto per astrarsi per qualche ora nell’ascoltare una ricreazione del mondo legata a sistemi di armonie, ma siamo troppo istintivi e sottomessi alle avidità della gola e del sesso. La musica può interessare solo quando sia intermediaria di questi sensi. Lo dimostra, anche senza ricorrere al furore odierno per le canzonette, la disattenzione con cui si ascoltava nel Settecento l’opera lirica, in quella Venezia che pure era musicalissima. Quella Venezia, sebbene tanto potente incubatrice di musicisti li considerava presso a poco come oggi si considerano gli sportivi di cui si fa il nome solo fino a quando gareggiano, e poi si dimenticano. Così era toccato a Vivaldi: fino a quando dirigeva il Conservatorio musicale all’ospedale della Pietà, i veneziani sembravano vivere per il suo nome e per la sua musica, ma appena lasciò la città per andare a Vienna non fu più considerato esistente, fino a lasciarlo seppellire col funerale dei poveri. Eppure a Vienna nel 1741 vi era un ambasciatore veneziano. E ci vollero quasi due secoli, perché il mondo si riaccorgesse della musica di Vivaldi, che dava oltre a tutto una consistenza storica a Venezia più dei suoi mammalucchi dogali e nobiliari.

Gian Francesco Malipiero davanti alla sua casa di Asolo. Riconoscibile, a sinistra, Giovanni Comisso (foto di Giancarlo Scalfati)

La storia si ripete: nel giorno in cui Malipiero raggiungeva il limite di età per la direzione del Conservatorio musicale di Venezia, il ministro della Pubblica Istruzione lo congedava con una schematica lettera di ufficio, mentre, in quel giorno, in America e in Europa si eseguivano concerti della sua musica in suo onore. Ma a queste sordità passate e ad altre recenti egli vi sorride sopra col tremulo del suo sguardo e di tutto il volto, mentre se lo comprime con la mano irrequieta.

Le stanze basse della sua casa di Asolo e la presenza quasi continua del legno, del buon legno stagionato di quercia o di noce, alle pareti, agli scaffali, ai soffitti, danno il senso di trovarci dentro a un fantasioso strumento musicale. Se gli chiedo se daranno alla Scala o al San Carlo le sue recenti tre rappresentazioni da concerto, cioè il Magister Josephus, il Preludio e morte di Macbeth e L’asino d’oro, egli aspira nel naso un sorriso e dice che per lui è vietato l’ingresso in quei teatri, perché non appartiene ai lavori. Sedendosi nella poltrona accanto al piano, mentre la sua grande gatta innamorata salta sul piatto dei biscotti, egli dichiara di sentirsi ugualmente tranquillo, perché Ricordi gli ha stampato e gli stampa tutta la sua musica, e il fatto più importante per un musicista è di non avere nulla di inedito, poi i frutti matureranno.

Perenne giovinezza

“L’opera di Gian Francesco Malipiero” di Guido M. Gatti

Certo quando gli arrivano i resoconti delle vendite delle sue opere, tutte costosissime, risulta chiara la differenza del gusto musicale tra l’Italia e gli altri Paesi. Se in un anno, in Italia, è stata venduta una copia di una sua opera, in America, in Germania, in Inghilterra, in Francia se ne sono vendute settanta rispettivamente per ogni Paese.

Malipiero ha vissuto e vive in un’epoca in cui il melodramma ha tanto trionfato da doversi considerare giunto ai limiti estremi. Mi dice che lo schema del melodramma deve essere suscettibile di evoluzione. Ogni musicista ha il diritto di concepire la forma di un teatro individuale e quindi non si può restare fermi allo schema dell’Ottocento. La musica melodrammatica dell’Ottocento è subordinata al cantante, e questo egli non lo può ammettere per il suo gusto e per il suo senso, quasi religioso, della musica, alla quale devono sottostare in umiltà le parole cantate per quanto belle siano. Ora in un’epoca come la nostra in cui in Italia si va a teatro prima di tutto non per sentire la musica, ma la donna o l’uomo che canta e in cui i teatri si reggono sulla propaganda, fino allo scandalo, del divismo, tramutandoli in baracconi da fiera, con una critica tutta orientata in proposito, si può ben capire come non vi sia posto per la musica di Malipiero. Malipiero ha il suo pubblico in America, in Inghilterra, in Francia, in Germania, ma in Italia avrà per diverso tempo ancora solo un esiguo gruppo di amici convinti che egli è oggi con Stravinsky, a pari altezza, un grande, schietto e veritiero creatore di musica. Per il solito ammonimento che dà un successo all’estero quell’esiguo gruppo di amici non tarderebbe ad allargarsi fino a formare un pubblico, anzi si può dire che in astratto questo pubblico c’è già, ma la critica si ostina a impedire che si concretizzi, perché la critica musicale in Italia lavora per i teatri, come la critica letteraria, per le case editrici e non per identificare uno scrittore imponendolo con un culto della personalità. Ai teatri non interessa che un musicista abbia il suo pubblico, ma che tutte le opere dei vari musicisti di cui si eseguono normalmente le opere abbiano un pubblico costante. E così si andrà avanti solo per eliminazione naturale, lenta e faticosa.

Gian Francesco Malipiero posa davanti al suo pianoforte preferito (foto di Giancarlo Scalfati)

Dopo aver sentito quel concerto di Malipiero per due pianoforti e orchestra, opera sua recente, bisogna inneggiare alla sua perenne giovinezza. Vi è dentro un tale impeto, un tale assolutismo, dove egli appare solo padrone dei suoni del mondo come filtrati attraverso il grande silenzio che ha sempre ricercato e che vuole sia attorno a sé nella sua casa. In questo dialogo tra i due pianoforti e l’orchestra le armonie si sovrappongono in un loro equilibrio dolomitico, sempre in uno stato di creazione in atto. Un motivo afferrato non è mollato più, giuoca con esso come il gatto col topo. E mentre questa musica si isola in sé stessa nel grande vuoto, come una meteora, chi l’ascolta a sua volta si isola in essa, astraendosi da tutti i legami terreni. Questa musica è veramente una pausa al vivere precario.

Dopo che gli avevo detto la mia meraviglia per questo concerto egli volle farmi sentire la registrazione di un altro suo concerto importante: quello per violino. L’esecuzione era avvenuta a Dresda ed era stata registrata direttamente in America. La musica gareggiava prodigiosamente stimolando la tecnica e la politica a superare i loro confini. Mi ero seduto a un grande seggiolone accanto alla tavola esagonale di noce ed egli stava più in ombra accanto alla parete. Appena iniziato il concerto la grande gatta innamorata col suo sguardo dilatato saltò sulla tavola miagolando alla musica che veniva dal registratore. Ma subito fu fatta tacere come un istrumento erroneamente entrato nella partitura. Anche questo concerto è tutto composto di pura musica, una musica fluente senza rompersi mai nell’ipotetico. Se certi teorici, anche ottimi, asseriscono che la musica per essere tale in completa purezza, fino da potere venire considerata l’arte astratta per eccellenza, debba stare lontana da ogni immagine figurativa e da ogni risonanza delle armonie naturali, la musica di Malipiero, in questi concerti, è di una grande purezza e del più perfetto astrattismo.

E’ tanto astratta che dopo averla ascoltata mi sentivo così liberato da tante pene piccole e grandi che mi avevano infastidito, mi sentivo come sollevato da terra, ma con una sicurezza da sfidare tutte le miserie umane, tutte le deficienze dei miei simili, in questa epoca idiota, che un giorno dovrà essere messa al banco d’accusa; mi sentivo come alla lettura di un libro di filosofia, dove le idee brillando di propria luce, come i diamanti, vengono ad assumere nel vuoto mentale la stabilità di stelle d’orientazione.

Non feci quindi al mio amico alcuna di quelle domande usuali e che forse sarebbero state necessarie, non gli chiesi: quando aveva composto quel concerto, dove e in quali condizioni e quanto tempo aveva impiegato. Tutto questo diventava superfluo: esisteva e basta.

Una casa solitaria e silenziosa

Gian Francesco Malipiero nel cortile della sua casa di Asolo (foto di Giancarlo Scalfati)

Siamo amici da tanti anni, ma di lui mi interessa solo la sua musica e la sua personalità’; tutto il resto della sua vita, se non ho avuto occasione di esperimentarlo di presenza, non cerco neanche di costruirlo. Una volta che gli chiesi in quale palazzo di Venezia era nato mi tracciò un tale dedalo di calli e di case dove egli stesso si disperse senza riescire a trovare il nome di quel palazzo. La prima volta che intesi il suo nome fu a un concerto di provincia nella mia piccola città, qualche anno avanti la prima guerra mondiale, forse nel 1912, e a quella sua musica, fino d’allora grave d’assoluto, chiesi a mio cugino il pittore Nino Springolo, che mi sedeva vicino, se questo Malipiero era del Seicento. Ancora risento quell’entusiasmo e tutta quella fiduciosa attesa per il futuro dell’ arte che provai quando mio cugino mi rispose che era un suo amico della sua stessa età e che abitava a Venezia.

Asolo gli fu rivelata, nel 1910, da un pittore suo amico, un certo Amory Sullivan che vi abitava e che lo invitò ad andarlo a trovare. Si accorse allora del grande silenzio di questo paesino isolato su di un colle tra boschi e vigneti, era il silenzio che non riesciva ad avere a Venezia, dove il parlottare nelle calli, lo scalpiccio, un rumore di falegname o di fabbro, tutto risuona fino alla deformazione. E decise di venirvi ad abitare. Non sembra che il silenzio gli sia ne­cessario per non avere inframmettenze nel momento della creazione, se Le sette canzoni, Le pause del silenzio e Rispetti e strambotti li compose a Roma, ma il silenzio gli è necessario per distillare i suoi pensieri musicali e per maturarli. Insomma ha bisogno di vivere nel silenzio, ma non è da dire che il silenzio gli sia indispensabile per creare. Quando è giunto il momento per una sua creazione, questa può avvenire anche se fuori imperversa una motoaratrice o se il campanello della sua casa continua a suonare fino a quando la cameriera, un poco sorda, non apra la porta.

Gian Francesco Malipiero, Manuel de Falla e Alfredo Casella, Venezia, 1934, Archivio Alfredo Casella (Wikimedia Commons)

Era il 1916 quando Malipiero venne ad abitare ad Asolo presso l’organista del Duomo e prese a comporre i Poemi asolani servendosi del vecchio pianoforte del padrone di casa. Ma non trovò quel silenzio sperato, il padrone di casa lo seccava di continuo, perché usava il suo pianoforte e, bisbetico, gli ripeteva il ritornello: «Quel pianoforte xe mio e questa casa xe mia». Così non poté terminare ad Asolo quei Poemi asolani. In quel tempo, ogni sera, accompagnava a casa un vecchio notaio che gli teneva piacevole compagnia e questa casa era la casa solitaria che fu poi sua e che ora abita. È fuori dall’abitato, un vicolo vi porta dalla strada, una piccola chiesa è vicina e i cipressi del sagrato la nascondono. Una valletta con frutteti e vigna le dà sul davanti isolamento e respiro. Le stanze sono piccole, basse e raccolte. Ogni sera se ne innamorava sempre di più, ma fu solo nel 1923 che poté comperare la casa e la piccola valle. Da allora la sua cura è stata di un amore crescente. Voleva che quella casa diventasse adatta a lui e un’espressione dei suoi gusti, dei suoi umori e delle sue manie. Qui egli ha ricevuto i suoi amici Cortot, Casella, De Falla, Segovia e Stravinsky, qui vengono a trovarlo i discepoli prediletti: Ephrikian, Gorini, Sanzogno, Gracis, Cumar e Zanon. E io ricordo una sera estiva, lontana oramai, quando ebbe molti ospiti, e al piano terra, tra le logge e il giardino, Cortot era al pianoforte e negli intervalli venivano serviti, alla buona, pane e salame e il vino della vigna che cesella di tralci la piccola valle.
Giovanni Comisso

da Settimo giorno del 16/04/1969
Immagine in evidenza: Gian Francesco Malipiero (foto di Giancarlo Scalfati)

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