Giovanni Comisso e i ricordi di un tempo: Ugo Ojetti

Giovanni Comisso e i ricordi di un tempo: Ugo Ojetti

Nella storia della comunità artistica italiana abbiamo avuto una grave lacuna con la scomparsa di Ugo Ojetti.
Naturalmente era un uomo ambizioso, ne aveva il gusto e il diritto.
Protraeva qualcosa dello spirito rinascimentale di un principe italiano di quell’epoca gloriosa, un poco fazioso, un poco prepotente, ma sempre utile alla comunità in previsione del futuro. Abitava a Firenze in una bella villa simile a una Reggia.

Italo Balbo – Traversata aerea Roma – Chicago,1933 (Wikimedia Commons)

Una volta mi trovai in questa sua villa, ospite insieme a Italo Balbo, il quale gli parlava del suo prossimo raid atlantico. L’aviatore ripeteva di continuo questa parola e la balbutiva in modo incomprensibile. Ojetti a un certo punto gli chiese di cosa si trattasse e Balbo ripeteva impavido raid che nella sua bocca impastoiata diventava ved. Infine si riuscì a capire cosa volesse dire e Ojetti soggiunse chiarificatore: “Ah, si tratta di una crociera”, così fu subito e sempre chiamata.

Non era capace di odio come, quei principi medioevali, bastava che certo malanimo verso di lui fosse corrisposto con il suo silenzio per premiare il ribelle. Longanesi osò attaccarlo con un disegnino che lo riproduceva nell’immagine fatta a filo di penna come avesse svolto un gomitolo e sotto vi aveva scritto: “Il filofascista Ugo Ojetti” e non ebbe da quest’uomo mai un elogio o un utile riferimento.

Aveva sempre desiderato un riconoscimento ufficiale negli empirei dello Stato sia per i suoi meriti, sia anche perché aveva un comportamento segnalabile.

Guglielmo Marconi nel 1908 (Wikimedia Commons)

Quando aspirava a diventare senatore e nell’Italia di allora lo si poteva anche per censo, si dice abbia brigato per farsi aumentare le imposte per diventarlo. Per entrare nell’Accademia fondata da Mussolini certamente bisognava, a cominciare da Marconi, essere iscritto al partito ed egli era perplesso a farlo. Un giorno mi disse, quasi perché lo incoraggiassi: “Nella mia casa tutti sono fascisti, perfino l’ortolano, io no e mi guardano con sospetto”. In seguito quando finalmente venne fatto accademico mi trovavo da lui. Sua figlia Paola stava ininterrottamente al telefono per ricevere fonogrammi di congratulazioni di uomini illustri e di tante città che gli erano obbligate. Appariva tanto felice e manifestò la gioia che gli affiorava nello sguardo gettando nelle fauci aperte del suo cane una manciata di cioccolatini.

Ogni problema estetico riguardante la sistemazione di una piazza italiana o di una strada tipica veniva ineluttabilmente sottoposto al suo giudizio. Ogni iniziativa per una celebrazione, per una commemorazione, per un monumento, per una esposizione doveva venire appoggiata dalla sua parola, da un suo articolo o da un suo discorso. Fu per mezzo secolo l’arbitro dell’arte in Italia. Gli artisti se lo disputavano e lo assediavano. Lo scultore Arturo Martini una volta gli scrisse che voleva essere tenuto a battesimo da lui ed egli sapendomi intimo amico di Martini mi chiese se fosse ebreo, non voleva di certo giocare nell’equivoco, solo che lo scultore trivigiano non aveva specificato per quale opera volesse l’appoggio.

Filippo de Pisis, ritratto da Federico Patellani, 1950 (Wikimedia Commons)

Io lo ricordo con venerazione, da quando nel 1927 mi trovavo a Parigi per la traduzione di un mio libro ed egli mi scrisse di volermi vedere al suo albergo. Allora mi disse con ragione che non dovevo illudermi di una permanenza in Francia, avrei finito per fare una triste bohème, ritornassi in Italia, egli mi avrebbe affidato il lavoro di scegliere le più belle pagine di Baldassarre Castiglione per farne un libro in una collana che dirigeva presso Treves. Inoltre mi invitava a collaborare a Pegaso, una rivista letteraria che presto avrebbe fondato e diretto. Il suo appoggio fu per me decisivo nella mia vita. La sua parola aveva massima influenza e in un’Italia sempre esuberante di artisti si può pensare quanto fosse richiesta e disputata. Fu egli che consapevole di questa giostra di valori e di aspirazioni diede al giornale che Umberto Fracchia avrebbe diretto il titolo importante di Fiera Letteraria. Amava scrivere chiaro e di essere preciso. E voleva vedere chiaro in pittura. Una volta mi prodigai per appoggiare l’opera del pittore Filippo De Pisis, ma egli mi disse che non poteva prediligerla perché in un suo quadro che doveva rappresentare un fagiano appeso non si capiva se fosse una gallina o un’aquila.

Una buona parte della sua giornata era dedicata alla corrispondenza e fu egli a insegnarmi di rispondere sempre alle lettere anche di ignoti.

Così sapeva innestarsi nella attenzione artistica italiana, onnipresente, tutelare e indispensabile.

Cosa avrebbe detto se fosse sopravvissuto fino al decadere ultimo della Biennale veneziana, egli che la teneva in vero a battesimo? E cosa avrebbe detto di questa Italia, del paesaggio delle sue città e regioni se avesse assistito al deturpamento dei grattacieli e agli sventramenti nei suoi quartieri più autentici?

Ritratto di Eleonora Duse (Wikimedia Commons)

Ojetti era anche un bell’uomo e si compiaceva. Un giorno mi raccontò che la Duse, sperando di ingelosire l’irrequieto D’Annunzio, quando erano a Venezia, al tempo del Fuoco, lo aveva ospitato in assenza del poeta, nella sua abitazione. Ad arte o per caso egli aveva trovato a portata di mano accanto a letto, un diario di Eleonora sul suo amore per Gabriele, di questo documento non si è poi saputo più nulla ed egli si rammaricava di non avere avuto la tentazione di trafugarlo.

Favorito sempre dalla sorte, durante la grande guerra venne incaricato presso il Comando Supremo di mettere in salvo le opere d’arte del Veneto minacciate dai bombardamenti e dall’invasione. Questa missione gli rese familiari i condottieri di quel tempo accrescendo la sua importanza e la sua posizione di protettore indispensabile delle opere d’arte in Italia. Fu sempre un personaggio di primo ordine per l’arte, convalidato dai suoi scritti che tra un D’Annunzio eloquente e una letteratura mediocre e provinciale, testimoniano in quegli anni il livello classico dello scrivere.

Giovanni Comisso

da La Nazione del 05/02/65

Immagine in evidenza: Ugo Ojetti

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