La vita del villaggio sembrava rispecchiasse il cielo. Un cielo clemente e sereno, ventilato ora dal mare, ora dai monti, e le nubi quando si formavano passavano via lente creando sui campi variazioni fuggenti di luce e di ombra. La terra attorno non era una terra bassa, umida di acque ad attrarre d’autunno nebbie o nuvolaglia. I pochi fiumi erano limpidi e scorrenti a rendere feconde le campagne. E le campagne erano mansuete, facili ad arare, sazie subito di poco concime, pronte a dare esuberanti pannocchie, pesanti spighe che reclinavano lo stelo, grassi foraggi e grappoli pregni e dolci. Le stalle erano fitte di occhieggianti animali che aumentavano la loro carne giorno per giorno e i vitelli quando venivano sciolti accorrevano alle gonfie mammelle, succhiando avidi a colpi di fronte contro il ventre delle mucche che si rivolgevano a lambirli per renderli tranquilli. I maiali costretti alla loro vita solo per ingrassare stavano rassegnati col muso nel truogolo. E le galline cantavano dall’alto dei fienili per annunciare le uova deposte, e i fossi brulicavano di anitre felici dell’acqua piena di fermenti. i contadini nel giro delle stagioni compivano le loro opere alternandole alle feste, morivano i vecchi quando dovevano morire e nascevano i nipoti che impazienti di imitare i loro padri nei lavori dei campi presto si facevano camminanti. Il villaggio aveva i suoi lavori agresti regolati dal cielo, e gli arnesi più semplici erano fatti dagli stessi contadini durante le giornate d’inverno quando i campi riposavano chiusi nel loro ghiaccio. Ma per quelli un po’ complessi dovevano ricorrere ai fratelli Amadio.
Una botte, un carro, un erpice erano costoro che li facevano o li raggiustavano. Rocco, Sante e Domenico si chiamavano questi fratelli e il loro cognome in un paese così sereno non poteva essere altrimenti; Amadio. Amare Dio che concedeva tale armonia. E l’armonia del villaggio richiedeva armonia tra loro, nel loro mestiere in comune e nella loro vita pure in comune. Avevano chi più chi meno una settantina d’anni e da ragazzi erano sempre stati assieme, avevano giuocato assieme e poi, fino ad ora, sempre lavorato assieme. Rocco era il fabbro e lo si riconosceva subito dalle sue mani nere, Sante era il falegname per i lavori più semplici e Domenico per quelli di precisione e di calcolo. Abitavano in una casa un po’ fuori del villaggio e non avevano bisogno di insegna, ma loro, per ambizione di fare vedere che ogni giorno maturava qualche opera da loro creata, di dentro, esponevano fuori della porta le ruote rinnovate, le botti rinsaldate di fresco, un erpice o un aratro. Volevano che si sapesse che sebbene vecchi lavoravano sempre e bene. Lavoravano in una specie di antro annerito dal fumo della forgia, là vi era anche il banco di Rocco, alle pareti luccicavano gli utensili del lavoro, accanto, in una stanza sempre soffice di trucioli per terra, stava Domenico ebbro di orgoglio nell’attendere ai suoi lavori più industriosi, ma sovente passava nell’antro per lavorare assieme ai fratelli quando l’opera non richiedeva strettamente che stesse da solo al suo banco riservato. Si tenevano con cura un grembiule per non consumare il vestito, ognuno portava un piccolo cappello e tutti e tre non alteravano mai il loro sguardo felice avuto dall’infanzia. Ognuno sapeva quello che doveva fare, ognuno aveva la propria famiglia da mantenere e sapeva che ogni colpo di martello o di pialla si tramutava in quello che occorreva per vivere per sé e per i suoi. Sapevano che se questo colpo era ben dato, che se il lavoro ne fosse uscito perfetto il contadino lo avrebbe pagato volentieri e sarebbe ritornato ancora. La terra per essere coltivata consumava gli strumenti e ogni anno c’erano sempre riparazioni da fare: non sarebbero mai rimasti fermi e fino a quando le loro braccia avessero avuto forza l’antro avrebbe risuonato dei colpi sull’incudine e del sibilo della pialla. Quando un contadino si presentava a loro con un carro sconquassato o con qualche strumento un po’ complesso da rinnovare Domenico chiamava Rocco e Sante perché venissero a vedere e a giudicare. — Cosa ti sembra Rocco? — Rocco si assestava sul piccolo naso gli occhiali offuscati dal carbone e con le mani acute come tenaglie toccava i cerchi di ferro. — Siamo mal messi, qui bisogna fare tutto nuovo. — Sante aspettava di essere interrogato da Domenico che per i suoi lavori di precisione e per la sua età maggiore era rispettato come un capo, e intanto guardava quello che sarebbe stato affare suo. — E tu Sante, cosa dici? — Allora Sante si faceva avanti e toccava le doghe e le batteva con le nocche: — C’è ben poco da salvare, se si vuole che il vino si conservi bene.
Il contadino sapeva che erano onesti e che i lavori li facevano bene e seguiva il loro consiglio: la botte bisognava farla nuova del tutto.

Al primo chiarore dell’alba che trapelava tra le commessure delle imposte si svegliavano ed erano subito nel loro antro. Rocco accendeva il carbone, gli altri raccoglievano i trucioli e i frammenti di legna sotto ai loro banchi e li portavano alle loro mogli in cucina. Riguardavano i lavori compiuti il giorno prima se avevano difetti, che così a mente serena e ad occhio riposato risaltavano subito, e al raggio di sole che cominciava ad entrare dalla porta verso il cortile erano già ravvivati al lavoro. Quando dal campanile del villaggio sentivano suonare il mezzogiorno deponevano i ferri sul banco, a meno che non fosse un lavoro d’urgenza o che non si sentissero incatenati a proseguirlo nel timore che interrompendolo non avesse da riuscire per bene. Si sedevano alla tavola in comune, assieme alle figlie e alle loro mogli, perché i figli imparato lo stesso mestiere avevano messo su casa e bottega altrove non avendo bisogno i padri del loro aiuto. Dopo una breve siesta, che si allungava d’estate con un po’ di sonno perché le giornate erano lunghe, ritornavano all’antro che era infine il posto dove si trovavano meglio.

La domenica era il loro grande giorno: si radevano la barba, si toglievano tutte le impronte del loro lavoro, si mettevano il vestito da festa e andavano alla Messa a pregare Dio, che concedeva loro di lavorare in pace, ognuno secondo la propria arte, ringraziandolo che la terra avesse sempre da essere lavorata e nel lavoro logorasse gli strumenti, che i contadini facessero buoni raccolti e che potessero pagare la loro opera. Fuori sul piazzale dopo la Messa i contadini venivano a salutarli, chiedevano se la botte era pronta, se l’erpice era finito, andavano assieme a bere un bicchiere, che veniva loro offerto con la raccomandazione di fare presto. E ripensavano a momenti al loro antro fermo e deserto, coi martelli e le pialle riposanti al loro posto, con l’impazienza che presto ritornasse il lunedì per riprendere il lavoro. Nel pomeriggio andavano a giuocare alle bocce, ma a loro sembrava un divertimento rubato e ripensavano sempre al loro antro. Qui essi erano veramente felici, il loro antro sembrava a momenti fosse profondo sotto la terra, e fuori nelle città e nel mondo la vita e il lavoro avevano altro corso, ma loro non ne sapevano niente.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 26/11/1944
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