Scrivere in Veneto. Un tracciato provvisorio tra ieri e oggi

Questa terra dove vivo
non mi concede il desiderio di altre terre del mondo.
Le conosco quasi tutte
e anche se qualcuna è perennemente serena
non riesce ad anteporsi alla mia.
(Giovanni Comisso, Il grande ozio)

Territorio e scrittura: legame imprescindibile.  Il primo appuntamento con Saveria Chemotti e “Scrivere in Veneto” è dedicato proprio a questo fondamentale argomento.

Il territorio come valore, storia, punto di vista, scrittura.

Avvicinarsi alla storia della narrativa veneta, significa confrontarsi, subito, con un territorio e un paesaggio fervido che è, per la sua collocazione, terra di confine e di frontiera, abituata da secoli ad avere gente continuamente di passaggio sui valichi montani e lungo le vie d’acqua, una terra fittamente abitata, una terra impregnata di lavoro, memorie, pensieri che si muove, vive e invecchia, subisce il fluire del tempo individuale e generazionale, ma che conserva ancora un’immagine fortemente legata a un passato rurale in cui l’uomo era il vero genius loci, più che l’hostis, perché figlio di una cultura e di un ecosistema storico e sociale su cui ha impresso i suoi segni di riconoscimento (le coltivazioni, le dimore, le strade, i cimiteri) in sequenze culturali successive, fino ai giorni nostri.

Così perfino l’odierna «megalopoli padana» resta contrassegnata da testimonianze paesaggistiche che sembrano indelebili; il legame tra passato e presente è sempre reperibile nei  monumenta come scrive Eugenio Turri:

«i campanili e le torri medioevali che dominano i centri urbani, le belle cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti che hanno fatto la storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si inoltrano nei campi. […] ci sono case unifamiliari con l’orto, il vecchio fico, il piacere veneto dell’ombra e delle buone verdure prodotte con le proprie mani; e dappertutto sopravvivenze di vecchie case contadine entro il tessuto urbano e là dove esso si dirada ecco un paesaggio plasmato da un’utilità agraria, frammentato e come miniaturizzato, che va poco d’accordo col respiro ampio che suscita l’immagine di megalopoli. È come se questa avesse calzato un territorio del passato, lasciandolo così com’era, aggiungendovi tuttavia il nuovo, rappresentato dall’alluvionamento urbanistico recente. Il quale peraltro non è riuscito a sommergere del tutto il paesaggio preesistente, che affiora ovunque, così come dopo un’inondazione rimangono visibili le case, i campanili, gli alberi più alti, che indicano i margini dei campi, e l’incancellabile disegno del territorio, come fosse l’anima profonda, basica, della megalopoli, o la duplicità della sua anima, riconducibile alle sue primissime occupazioni umane.»

Un’anima che è un habitat, una terra che vale, per molti scrittori che vi sono nati, come patrimonio depositato e stratificato di valori.

«Terra»: un sostantivo che contiene una somma di significati assai interessanti in questo ambito. Terra come parte di uno “spazio geografico”, territorio, ma anche “suolo”, superficie su cui si cammina, materiale del terreno che contiene elementi necessari per la vita naturale e valore collettivo contadino, “i campi”, dove prevale la connotazione semantica della storia originaria di questa regione:

«il Veneto – osservava Goffredo Parise nel 1984– era ed è forte, barbaro e dunque produttivo […] per la forza barbarica della terra che ha prodotto lavoro nei campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche. […] La sua arte se nasce senza alcun dubbio dalla cultura (non c’è arte senza cultura), affonda anch’essa dentro la terra, nelle sue radici, nei suoi minerali, nel suo fondo di fuoco.»

La “terra” natia, non è quindi solo simulacro, non vive in sé, ma solo dentro l’uomo e la comunicazione e comunione avviene più attraverso la mano che attraverso l’occhio:

«È la mano che ara, che zappa, che guida, è la mano e l’intelligenza della mano, la mano interiorizzata, divenuta forma intellettuale e cultura, la sola che sia mezzo ma anche ragione di un lavoro e di un esserci, è la mano che può condizionare lo sguardo È la mano, il tatto sensibile delle dita e del palmo, a sentire le asperità della terra, le parti più rugose, addirittura quelle taglienti, urticanti, e a distinguerle da quelle più arrotondate, morbide, ed è la mano che agisce sempre dentro l’interpretazione e la descrizione dell’artista (il pittore, il narratore, il poeta, il musicista).

La terra si fa allora ricerca: empatia e comunione affettiva, immedesimazione protettiva e rigenerante, luogo di metafore e simboli in cui un’esperienza individuale riflette su se stessa e si frantuma, partecipa alla memoria culturale e al pathos degli eventi, li commenta, li contestualizza, ponendosi, allo stesso tempo, come oggetto sia di meditazione sia di contemplazione individuale, non diventa mai una “veduta”, un telone di sfondo staccato dall’azione e dagli uomini.

Anche nel momento di passaggio o di trapasso da un posto a un altro, nel viaggio (multiplo) è la terra ad accompagnarci, a tutelarci come nume benefico o a provocare quella perdita d’identità che può diventare angoscia, “spaesamento”, per l’appunto.

Forse per questo lascito antropologico, (una pluralità frastagliata di scenari dentro un unico orizzonte) gli scrittori veneti rivelano, nella pur ampia gamma di voci, sorprendenti tratti comuni; nella varietà dei percorsi individuali, alcuni intrecci, alcune riprese tematiche, alcune coincidenze tipologiche o ricorrenze linguistiche non si possono considerare aspetti marginali o accessori.

Ritroviamo: un sensibilissimo senso del passato autobiografico e del suo lascito antropologico, storico sociale e politico; la cultura del lavoro; un sentimento poetico dell’interno, degli affetti e dei valori fondamentali dell’uomo (la famiglia, la casa, il paese, il paesaggio); un gusto avventuroso del vivere e del viaggiare (il desiderio del fuori); un profondo attaccamento alle tradizioni e alla religiosità pagana, nativa; un rapporto di amore-odio inestricabile con la fede e la religione; un’irrequieta predilezione per il soprannaturale, il fantastico visionario, l’allegorico, surreale e onirico; una tangibile fiducia nella scrittura come terapia, come conoscenza critica della storia, come denuncia delle ingiustizie e dei soprusi commessi contro l’uomo e la natura, della violenza della guerra o dello scontro sociale e politico. Un incisivo, singolare e originale contributo viene offerto dagli scrittori e dalle scrittrici venete al rinnovamento delle strutture letterarie dei codici espressivi.

Basti pensare al colorismo conversevole e musicale, alla natura mnestica e non realistica  di Comisso, all’affabulazione favolistico-popolare e al gusto gotico di Buzzati, all’ambiguità elevata a cornice scenografica in Piovene, alla scansione irrelata e nevrotica del discorso associativo di Berto, alla tecnica chagalliana e all’epifania alfabetica degli elzeviri di Parise, al funambolismo narrativo tra microantropologia culturale e linguistica in Meneghello, all’autobiografia come invenzione in Neri Pozza, all’espressionismo della lassa prosastica di Camon, al realismo grottesco e antimpressionistico di Cibotto, al sentimento della storia in Rigoni Stern, al pastiche pittorico di Neri Pozza, a ritmo empatico delle storie contadine di Pascutto, al petel caleidoscopico di  Zanzotto, alla «lengua mia» di Noventa, al gusto dell’intreccio e dell’avventura di Ongaro. Senza dimenticare il gusto diffuso per il ritratto minuto, attento ai fatti dell’esistenza quotidiana e alle vicende di personaggi marginali, ripresi da un’angolatura malinconica, tragica o paradossale e che compongono una singolare galleria di lunatici, buffi, strambi, di semplici, di beghine e di zitelle, di donne coraggiose o umiliate, di bambini, adolescenti, scaltri, ingenui, offesi.

Estranea a ogni forma di radicalismo, al timbro della tragedia, questa narrativa quindi “eccelle” «nell’arte delle sfumature e dei mezzi toni», dell’ironia bonaria, ma manifesta allo stesso tempo un gusto spiccato per la satira corrosiva, il sarcasmo e il grottesco, con cui contrassegna perfino il recupero memoriale, il dato cronachistico, l’indagine storica o lo scavo di coscienza

Guido Piovene definisce, argutamente, questa attitudine come la «vena di nevrastenia fantastica […] d’una famiglia […] di caratteri saturnini, strani, intricati, fegatosi, misantropi e un po’ deliranti; funghi cresciuti sottoterra e pipistrelli cavernicoli.»

Le categorie dei generi moderni risultano parimenti sfumate e oscillanti; ritroviamo miscelati insieme il pittoresco, il poetico, il romanzesco e lo stesso vale per la tipizzazione del nobile, del rustico, del piacevole, del serio, del triste, del magnifico, del terribile o del voluttuoso.

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