Un mio amico inglese mi aveva detto che assieme alla signora Peggy Guggenheim avevano passato le sere noiose di un inverno veneziano leggendo il mio libro: “Agenti segreti veneziani nel Settecento”. La signora Peggy si era tanto divertita alle vicende segrete della società nobile e borghese di Venezia di allora che per ringraziarmi avrebbe desiderato un incontro.
Per qualche tempo non fu possibile realizzarlo. Se mi trovavo di passaggio a Venezia tentavo di telefonare alla sua casa, ma la voce della cameriera che veniva quasi sommersa da un abbaiare di cani, riecheggiato come in un sotterraneo, mi rispondeva sempre che la Signora non era ancora rientrata da suoi viaggi vicini o lontani. In fine, giorni addietro, telefonato senza speranza, mi sentii rispondere che sarebbe venuta subito all’apparecchio.

Nel pomeriggio andai alla sua casa, ella abita nel palazzo Venier dei Leoni, quel palazzo sul Canal Grande rimasto incompiuto al piano terreno, perché a quella nobile famiglia veneziana mancarono i denari per ultimarlo. Sembra si chiamasse: dei Leoni giacché, non avendo potuto farne una dimora di abitazione, si servivano del magnifico giardino, come luogo di ricevimento estivo, dove per supplire al fasto di un palazzo si offriva la stravaganza di due leoni in gabbia.
Al principio di questo secolo, in quel piano terreno, abitò la marchesa Casati che invece di leoni, vi teneva una pantera e andava con essa a passeggiare in Piazza di San Marco. Ora, senza uscire dalla tradizione, la signora Guggenheim vi tiene in gabbia la sua ferocissima– collezione di arte moderna. Questa casa, vista dal giardino, entrando,nella sua struttura a un piano solo, con una breve gradinata, ricorda uno di quei padiglioni cinesi che nella vecchia Pechino ospitavano i dignitari imperiali.

Subito aperta la porta mi incontrai con la Signora, attorniata dai suoi piccoli cani. Indossava una gonna celeste di un panno duro che non faceva pieghe e mi rammentò subito quelle Amadriadi del quadro di Delvaux, che sapevo essere nella sua collezione, dove quelle ninfe hanno il corpo dalla cintola in giù chiuso nel tronco di un albero col quale hanno legato l’esistenza. Ma ella si mosse invece con passo svelto e sicuro verso un divano dove arrivava la luce dal Canal Grande e mi invitò a sedere, mentre tutti i suoi cani vennero ad accucciarsi tra noi.
Non ho alcuna simpatia per la pittura predominante nella sua collezione, ma mi sono accorto subito che in quel palazzo incompiuto e assurdo, quelle tavole enigmatiche ed estrose, che ricoprono in grande parte le pareti dell’atrio, dei corridoi e delle stanze, risultano perfettamente a casa loro. D’altra parte bisogna convenire che quelle opere, per quanto assurde e inefficaci, costituiscono una completa documentazione storica di questa maniera che da oltre mezzo secolo imbizzarrisce nel mondo.
Sfogliando il catalogo, che la Signora mi ha dato, risalta subito un fatto assai strano: i maestri di questa pittura sono quasi tutti nati tra il 1870 e il 1880 e qualcuno, come Kandinsky, addirittura nel 1866. Mentre la signora Peggy mi riferiva la data di nascita di ogni quadro mi convincevo di trovarmi davanti a una collezione di un’arte tutt’altro che moderna. Ma tutto il mio interesse passò verso la raccoglitrice mentre mi faceva la storia della sua iniziativa.
Molti anni addietro si trovava a Londra e per occupare la sua giornata aveva aperto una galleria di arte invitando a esporre questi artisti che allora facevano molto scalpore a Parigi. A Londra però non riescirono a suscitare che un distaccato interesse senza che alcuno arrivasse al punto di fare qualche vendita. Impietosita per la delusione di quegli artisti, a ogni mostra, tanto per non spezzare tutte le loro speranze ella comperava qualche quadro. Così sorse il nucleo della sua collezione che poi ingrandì aggiungendovi opere delle nuove e successive apparizioni. In seguito da Londra si trasferì a Parigi, poco dopo si scatenò la guerra e le armate di Hitler si preparavano a rompere la frontiera francese. Ella sapeva quanto quest’arte era odiata da Hitler, sapeva che nel visitare la pinacoteca di Monaco, scorto nello studio del direttore due tavole di Kokoschka vi si era avventato contro furibondo spezzandole sulle ginocchia e gettandole dalla finestra. Allora, incassati i quadri, si era trasferita con essi a Grenoble, credendosi più sicura nella minaccia. Non essendovi più dubbio che la linea Maginot non avrebbe resistito alle divisioni corazzate tedesche decise di rientrare in America, nella sua patria, ma non voleva farlo se prima non avesse messo in salvo tutta la raccolta. Furono giorni tremendi di angoscia per lei, quando, come per un miracolo, venne da Parigi uno di questi artisti, che aveva protetto, ad avvertirla che era ancora in tempo di imbarcarsi a Cherbourg con tutta la collezione, caricandola sulla sua automobile. Ma ella non sapeva più dove questa era andata a finire, nella confusione che imperversava in tutta la Francia. Dopo qualche giorno riescì a rintracciarla, attraversò Parigi con i tedeschi già alle porte e infine poté imbarcarsi.

È indubbiamente una donna coraggiosa, si narra che una sera trovandosi con amici, ed era d’inverno, in una trattoria lungo la Senna, scommise di attraversarla a nuoto e riuscì. Ma ella diede prova di altro coraggio nella sua America quacchera e pudibonda, pubblicando un diario di tutti i suoi amori, dove annoverò, con la naturale schiettezza dei bambini, dei poeti e degli esseri della preistoria, tutte le qualità erotiche dei protagonisti indicati col loro nome e cognome. Lo scandalo si protrasse per qualche tempo con discussioni, lotte e minacce giudiziarie fino a quando si decise di ritirare il libro dalla circolazione. Volle farmi vedere questo libro. Scorrevo le pagine diaboliche che nel rivoltarle mi sembravano foglie cadute da un albero al morire dell’autunno, quando vidi la fotografia di una donna giovanile: era lei. Avida e irrequieta nei neri occhi, tutta la sua vita sembrava starle davanti come un’iridescente aurora boreale. Era una fotografia da ragazza e quasi avesse allora già assaporata tutta la sua vita illimitata, vi si intuiva sulle labbra un lieve disgusto. Ella stessa mi rilevò il suo terrore per la noia che nasce indissolubilmente da un disgusto per la vita. Era stanca, anche, dei suoi quadri che la seguono oramai dovunque vada e dovunque si pronunci il suo nome. Ella per causa di essi è minacciata di non esistere più in se stessa. Sente che quella sua collezione le porta via la sua innata libertà di vita e la soppianta. Ed ella non vuole morire, come le Amadriadi, assieme all’albero dentro al quale ha vissuto.
Giovanni Comisso
da Il Mondo del 06/09/1955
Immagine in evidenza: da Il Mondo del 06/09/1955