La padrona orgogliosa

La padrona orgogliosa

Ero andato a vivere nelle terre del Mezzogiorno, perché avevo capito che non vi era più possibilità di un compromesso col clima della pianura padana. Potrebbe anche darsi che siano sorte in me strane virtù di rabdomanzia, ma è certo che non posso sentirmi tranquillo posando i piedi su di una terra dove l’acqua può zampillare da una profondità di due metri. Mi è estremamente necessario avvertire sotto ai miei passi, una roccia antichissima e vulcanica.
Il paese che avevo scelto è incastrato sul fianco di un monte di roccia compatta, più antico degli Apennini. Faceva parte di quel continente che prima dell’ultima glaciazione si estendeva fino alla Sardegna e alla Corsica. Gli Apennini si sono sollevati dopo e le loro rocce appaiono appunto a strati contorti, mentre quella di questo monte è tutta di un blocco dalla profondità alla cima.
Non vi sono sorgenti d’acqua, l’acqua per bere viene portata col carrobotte e le donne l’attingono al deposito con grandi anfore disegnate astrattamente di rosso e di nero che reggono agili sulla testa, rivelando l’equilibrata bellezza del loro corpo.

Pomodoro San Marzano (di Assianir, Wikimedia Commons)

Arrivai sbalestrato, come un uccello migratorio, fuori dalle ultime tempeste di neve, e i primi giorni mi ero adattato a dormire scomodo e a mangiare male, tanto era la serena indolenza che mi aveva preso. Non mi preoccupavo mai di sapere l’ora, né se era giorno di festa o di lavoro, non mi sorgevano né pensieri, né incubi, dormii senza sognare fino a quando la padrona della mia trattoria, una sera, pensò di mettermi uno strato d’aglio sul pesce arrosto. Quella notte sognai per la prima volta scoordinate vicende tutte a colori.
Da allora mi accorsi che quella cucina era pessima. Non si sapeva assolutamente fare da mangiare pure avendo olio eccellente. I pastifici del Mezzogiorno hanno una fantasia incredibile nel creare le più svariate forme di pasta con nomi relativi quasi poetici eppure per tutti i primi giorni mi erano stati costantemente offerti soltanto gli spaghetti.
In quel paese che è la patria del pomodoro mi accorsi che il sugo era acido e per quante vongole vi mettessero non riescivo a sentirne sapore.

Costa a Lentiscosa (Pozzallo), Cilento (di NPVF, Wikimedia Commons)

Il mare è a due passi, ma il pesce sembrava dovesse arrivare dalla Norvegia, tanto era difficile averlo e tanto era caro. La carne era tenace, forse di bufalo, e la sola volta che fu masticabile, di certo era di un vitello appena nato tanto le bistecche erano minute e bianchissime. Avevo visto nella pianura vicina grandi campi coltivati a carciofi e pensai di richiederne. Erano squisiti e ripiegai su di essi per alcuni giorni sebbene costassero inverosimilmente cento lire all’uno. Ne chiesi la ragione e mi si rispose che erano primizie, mentre nelle nostre regioni del Settentrione, pure essendo primizie e importate dalla Ri­viera Ligure ne vendevano, sotto alla neve, tre per cento lire.

Ma sapevo compatire questa gente. Fino al principio di questo secolo erano isolati dal mondo in una miseria nera, attorniati dalle paludi malariche, senza scampo di liberazione. Ma da quando le paludi sono state tramutate in terre feconde e le strade sicure li hanno ricongiunti alla vita delle città vicine, anche essi hanno cominciato a vivere. Oggi sono ancora ai primi passi e mancano delle più semplici esperienze per sedurre.

Era comicissimo ogni volta che mi sedevo a tavola. Marietta sapeva quale era la mia tavola abituale e sapeva che era mia consuetudine bere il vino del luogo, ma ogni volta non mancava di farmi trovare sulla mia tavola, una bottiglia di sospetto spumante fasciata di stagnola rossa e dorata, sempre sperando mi decidessi a sturarla. Con ingenua illusione pensavano che il forestiero debba essere straripante di allegria e sempre pronto a richiedere il vino da brindisi. A ogni mio entrare nella trattoria accolto da quella bottiglia da pesca di beneficenza, con un largo gesto teatrale imponevo a Marietta di eliminarla dalla mia tavola, ma ella immancabilmente me la faceva ritrovare quando ritornavo per la cena.

Sono come appena svegliati, non si sanno orientare. La mia presenza abituale li aveva, forse, convinti che quel locale sarebbe stato preferito dai forestieri e si decisero di ridipingere a olio tutta la fascia lungo le pareti. Me ne accorsi, perché il vestito nero ne fu impiastricciato e non avevano pensato di avvertirmi o di scrivere su di un foglio la solita dicitura opportuna. Quel giorno mi accorsi anche che il mio stomaco si guastava e fui costretto a essere crudele cercando una trattoria migliore.

Screenshot tratto da una scena del film Benvenuti al Sud (2010) (di Alexdevil, Wikimedia Commons)

In questa mangiai diversamente, per la semplice ragione che il proprietario aveva avuto la felice idea di sposare una donna del Settentrione, la quale faceva da mangiare per i clienti come per suo marito di cui era follemente innamorata. Compresi allora che una delle cause della tragedia del Mezzogiorno sta nelle donne infantili, povere di spirito e analfabete. A loro sarà riservato il Regno dei Cieli, ma in quello della terra non riescono a edificare la famiglia con tutte le sue consistenze che vanno dalla cucina alla educazione dei figli. Esse sanno solo crearne molti. Durante il mio soggiorno in questo paese ripetevo di continuo che venissero a prendersi le spose nel Settentrione e lasciassero che le loro donne si maritassero cogli uomini delle nostre regioni. Citavo a esempio una mia amica che si era maritata col sindaco d’un paesino del Cilento, conosciuto durante il suo servizio militare nell’Alta Italia. In cinque anni che ella è laggiù, ha tramutato il paese, anzi è ella che Io amministra. Per prima cosa ha istituito gli spazzini comunali, poi ha portato tali novità nell’ordine della casa che tutte le comari ne vogliono essere istruite per imitarla.

Anche la mia padrona di casa era una povera disgraziata. Chiusa ancora in uno stato infantile quando già poteva decidere da se stessa di sposarsi, essendo morti i genitori, non seppe fare la sua scelta. Negli anni confusi del dopoguerra, era venuto a stabilirsi in quel paese un giovane siciliano, molto elegante, molto istruito, che diceva d’essere prossimo a laurearsi in medicina e sembrava disporre di molto denaro. Alla cieca se ne innamorò, lo ospitò nella sua casa e si sposarono. Appena nato un loro figlio, egli decise di partire per la Francia dove gli era stato promesso un lavoro più vantaggioso che fare il medico, appena sistemato assicurò l’avrebbe richiamata.

Marina di Ascea (di Lelemz, Wikimedia Commons)

Ma dopo qualche mese le lettere di lei vennero rimandate indietro con la dicitura: — Partito senza avere lasciato l’indirizzo. — Impazzita dallo strazio aveva fatto ricerche attraverso i Consolati ed era venuta a sapere che si era risposato con un’altra donna, che aveva abbandonato anche quella e si era arruolato nella Legione Straniera. Nella fretta di sposarlo, non si era preoccupata neanche di sapere chi era la sua famiglia, il suo paese natale era stato distrutto dai bombardamenti, aveva documenti di identità improvvisati fatti in contingenze di guerra, e forse il suo cognome era falso. Così ella aveva ripreso quello della sua nascita. Da questa strana esperienza aveva ottenuto il figlioletto che doveva faticosamente allevare e una certa pratica sanitaria appresa dal marito, che diceva di studiare medicina, così da potere arrangiarsi a fare le iniezioni per le donne del paese.
Affittare la stanza che fu matrimoniale e fare le iniezioni formavano il suo guadagno giornaliero.
Avevo scelto la sua casa nel giorno del mio arrivo, perché la scaletta esterna era adorna di una magnifica buganvillea in fiore, violacea contro il bianco della casa. La piazzetta sottostante risuonava del vocio di innumerevoli bambini che dal mattino fino alla sera vi giuocavano senza tregua. Se mi affacciavo alla finestra trovavo subito qualche ragazzetta pronta ad andarmi a comperare le sigarette e le arance. Assumere questi incarichi in paese si dice: fare un comando. Nella mia indolenza iniziale tutto era delizioso, in quella stanza, dalla oleografia della Madonna di Pompei messa sopra il Ietto al piccolo sgabuzzino per lavarsi alla cui finestrella occhieggiava la violacea buganvillea contro il cielo limpido del mattino.
Ma infine mi accorsi che mancavano due cose essenziali: un attaccapanni e il peretto della luce accanto al letto. Ero costretto a posare la giacca sulla sedia e il soprabito sul letto. Poi alla sera se mi mettevo a leggere a letto finivo coll’addormentarmi con la luce accesa. Lo dissi alla padrona, ma ella non si decideva mai a provvedere occupata tutto il giorno a fare iniezioni. Alla mia insistenza mi rispose che dovevo adattarmi così perché i muri di quella casa erano di roccia e non si poteva impiantare alcun chiodo e perché l’impianto della luce era oramai fatto a quel modo coi tubetti incastrati sotto la malta e si sarebbe dovuto rifare tutto rimpianto.

La lettura serale, stando a letto, aveva finito col diventare il mio più piacevole passatempo, e siccome mi era fastidioso scendere dal letto per spegnere la luce alla porta di ingresso, mi decisi di trovare un’altra stanza altrove e lasciai quella donna disgraziata che sembrava portasse con sé il destino di essere abbandonata da tutti gli uomini.
La nuova padrona di casa mi aveva offerto anch’essa il suo Ietto matrimoniale, perché era vedova. Avevo non solo la comodità dell’interruttore della luce accanto al letto, ma anche una lampadina velata sul comodino. Ancora in un angolo della stanza vi era l’immagine del defunto marito e una minuscola lampadina ardeva davanti giorno e notte. La padrona mi disse che se mi avesse dato disturbo l’avrebbe tolta, le dissi di no, ma ne fui pentito, perché talvolta nella notte svegliandomi, mi accorsi che quella lampadina pure minuta diffondeva una luce immensa, quasi medianica, come per una riapparizione del marito.
Su di uno sgabello vi era invece una fotografia ingrandita di una bellissima donna e la pregai ambiguamente di toglierla, perché mi conturbava. Poi mi accorsi che era di lei quando era giovane ed ella come per vendicarsi la sostituì con quella di un bambino lattante, suo figlio.
Fuori dalla mia porta d’ingresso avevo un terrazzino che dava sulle scalette che scendevano verso il mare. Le chiamavano «scalette», ma i gradini erano fatti per i giganti e facevano ansimare le vecchie che dalla borgata di sotto salivano al paese per le compere. Una mi disse che faceva quella salita per penitenza ai suoi peccati. Dal terrazzino uscivo sulle scalette aprendo un cancelletto da pantomima di circo. Aveva una funzione completamente superflua, tutti anche i bambini potevano aprirlo ed entrare nel terrazzino, ma dava una serena comicità che accresceva la mia beatitudine.

Palinuro – Veduta (di Anonimo, Wikimedia Commons)

Sui gradini delle scalette dalla mattina al crepuscolo vi stavano seduti certi ragazzetti accaniti nel giuocare alle carte. Costoro per quanto li richiamassi a eseguire qualche comando non si degnavano neanche di rispondermi. Il giuoco delle carte dava a loro una considerazione di essere già uomini. Fui così costretto di incaricare Giacomino di venire a determinate ore del giorno per farmi le compere in paese. Giacomino aveva nove anni ed era un povero ragazzo sventurato. Sua madre rimasta vedova, aveva avuto un bambino con qualche altro e lo aveva ucciso. Condannata alla prigione, avevano messo Giacomino in un collegio, ma ne era fuggito, ora viveva con la nonna. Appena si accorsero che mi servivo di lui mi avvertirono che non dovevo fidarmi, perché era un ladruncolo.
Si voleva dare per forza anche a lui un destino di carcere, come la madre, invece di salvarlo da ogni precipitare. Lo mettevo sempre alla prova accordandogli ogni fiducia e premiavo giustamente i suoi servizi. Come un cagnolino abbandonato sembrava comprendere la vigilanza cordiale che gli rivolgevo. Una sera lo vidi in giro per i caffè a vendere la fava lessata per guadagnare qualche soldo, lo chiamai, gli diedi del denaro come premio, perché aveva avuto l’idea di un piccolo commercio e mi volle riempire le tasche di fave. La considerazione che gli accordavo suscitava l’invidia degli altri ragazzi sfaccendati e abbandonati sulla strada dalle loro madri, le quali non erano in carcere, ma non li volevano tra i piedi nelle case anguste.

Di certo anche il clima influisce nell’abbandono dei figli e nel continuo sfuggire a una educazione casalinga, in queste regioni del Mezzogiorno. Essi non possono stare in casa e fuggono all’aperto alla buona aria, sono sempre fuori a ruzzolare per terra come i cani. Le stradine del paese erano appunto in maggioranza popolate di cani e di bambini. V’era il cane del pizzicagnolo, quello del macellaio, quello dell’orologiaio, quello del maestro, ogni famiglia aveva un cane e erano innumerevoli i cacciatori. Cani indolenti, signori del marciapiede dove stavano sdraiati, tutori della soglia da cui guatavano il forestiero, emuli dei bambini solo verso la sera, ravvivati dalla brezza per rincorrersi e giuocare tra loro.

Statua in bronza della Spigolatrice sul lungo mare di Sapri (di Giu Pepis, Wikimedia Commons)

Fino dai primi giorni, mi fu difficile, quasi impossibile, orientarmi e identificare i vari abitanti, incominciando dai più segnalabili: mi riescivano tutti uguali. Avevo conosciuto il sindaco, perché mi aveva affettato del prosciutto nel suo negozio, pochi giorni dopo credetti di ravvisarlo davanti al municipio in uno che gli somigliava esattamente e che mi aveva salutato.
Preso a parlare con costui dei vari problemi locali vidi che mi ascoltava con strana sorpresa, da ultimo mi disse che quanto dicevo, non gli interessava per nulla, perché faceva il calzolaio. Le famiglie sono anche numerose di figli tutti con gli stessi lineamenti, e per lunghi secoli i matrimoni si sono fatti sempre tra gente del luogo. Pure sotto un aspetto omogeneo che sembra renderli tutti fratelli col passare dei giorni dovevo accorgermi che segretamente si invidiavano e si odiavano gli uni e gli altri. Già la mia prima padrona di casa odiava a morte la mia nuova perché ero andato ad abitare da lei, ma un’altra donna che abitava vicino la odiava pure non so per quali recondite ragioni. Lo seppi un giorno in cui non avendo visto la padrona la pregai di riferirle che le volevo parlare. Questa vicina mi rispose che non poteva accontentarmi perché non stava «in buono» con lei e soggiunse che era una donna maligna, che leticava con tutti a incominciare dalle sue sorelle.
Un giorno mentre mi facevo tagliare i capelli dal barbiere, sentendo affluire dal fornaio di fronte un buon odore di pizze, lo pregai di passargli la voce di metterne una da parte per me, prima che le vendesse tutte. Si scusò dicendomi che non scambiavano parola da anni per una vecchia storia.

Santa Maria di Castellabate(di Gsq84, Wikimedia Commons)

Tutto il Mezzogiorno, dopo la guerra, è preso da alcune smanie di aggiornamento col Settentrione. La primissima, che costituisce quasi una rivoluzione è quella della biancheria intima per donna. Per lunghi secoli le donne nelle loro parti segrete erano avvezze a una biancheria da monache. La frattura di una rigidezza morale compiuta dagli eserciti liberatori ha preteso di usare quella biancheria intima rosea e cilestrina che si fabbrica in Lombardia. Anche nei più umili paesi non manca un negozio dove si vende insieme a saponi, profumini e cartoline illustrate anche di tale merce. La seconda smania è quella per il liquigas che costituisce un’altra conquista moderna per le donne. Da altri secoli esse erano inschiavite coi piccoli fornelli a carbone che le affaticavano per l’accensione e avvelenavano loro i polmoni. Il semplice giro di un rubinetto e il modesto fiammifero ora le convincono di una scienza e di un progresso civile.
La terza smania è quella per il neon. Abituati al petrolio e solo da poco a una scarsa luce elettrica, nei paesi isolati, come questo dove ero andato ad abitare, l’innovazione della luce che gareggia con quella solare corrispose a un illuminismo mentale. Avere un caffè o una trattoria o un negozietto illuminati al neon negli oscuri vicoli medioevali diede la certezza di esistere in un mondo fatato.
Ultima e recentissima smania è quella degli impianti igienici completi che naturalmente può realizzarsi soltanto dove esista l’acquedotto. Se si dovesse controllare in questi tempi la merce che viene trasportata da quell’incessante traffico di autocarri tra il Settentrione e il Mezzogiorno si scoprirebbe che la maggiore parte trasporta in giù vasche da bagno, lavandini, eccetera, eccetera. Avere nella propria casa uno di questi impianti completi costituisce l’orgoglio che una volta doveva dare un titolo nobiliare.
Me ne accorsi un giorno che andai fino a una cittadina poco lontana.
Deciso di pernottarvi chiesi al cameriere della trattoria se vi era un albergo vicino, mi offerse invece di dormire in una casa privata. La padrona mi accolse quasi con gli inchini, non volle saperne dei miei documenti d’identità, non volle dirmi il prezzo della stanza, avrei pagato quello che avrei voluto al mattino, in rapporto a come mi sarei trovato. Avevo sonno e poca voglia di insistere.

American_homes (By Internet Archive Book Images, Wikimedia Commons)

Al mattino prima di partire le dissi mi dicesse quanto le dovevo, ancora voleva facessi io e allora dissi: mille lire. Quella donna tanto ossequiosa si tramutò in una furia melodrammatica. «Lei mi avvilisce, lei mi umilia, lei disprezza la mia casa, ma lei non ha visto il mio gabinetto moderno, tutto bianco di porcellana, signore, lei non sa quanto mi è costato». In vero non l’avevo visto e non sapevo che esistesse, tanto che non essendovi nella stanza il necessario per lavarmi mi ero rinfrescato alla meglio con l’acqua di Colonia. Ella mi condusse a vederlo per anditi ingombri, in uno stambugio strettissimo biancheggiavano tutti i servizi igienici occorrenti illuminati da una finestrella che dava sul mare, uno splendido mare mattutino azzurro e disteso.
E solo per la bellezza di questo mare accondiscesi ad accrescere il prezzo.
Giovanni Comisso

da Il Mondo del 24 maggio 1955
Immagine in evidenza
Sapri (di Bandito64, Wikimedia Commons)

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