Il palazzo moresco

Il palazzo moresco

Salii i pochi gradini ed entrai nella grande sala moresca, mi rivolsi al portiere per chiedere di una persona che desideravo vedere. Il portiere stentò a rivolgermi la sua attenzione, infine, senza il minimo tono di cortesia mi disse di passare nella cabina telefonica che avrei avuto la comunicazione. Capii subito che s’era in un periodo di ospiti invitati i quali non danno mance. Avevo appunto letto sul giornale che un ospite di quell’albergo, un cinematografaro americano, essendosi accorto che tutti gli altri non pagavano il conto, creduto di essere egli pure automaticamente tra gli invitati, era partito senza pagare, ma era stato raggiunto alla stazione dal direttore.

La persona che desideravo vedere mi pregò di attendere nella grande sala. Nelle poltrone stavano malamente distesi innumerevoli fotografi, certi tipi di ragazzacci presuntuosi che tenevano i piedi sopra la tavola. Neanche nella sala d’aspetto di certe case malfamate, mi era toccato vedere da parte dei clienti assumere quelle pose. Ad altre tavole si vedevano giovani donne pettinate alla maniera di certe famose stelle del cinema con tutta l’intenzione di essere scambiate per quelle in quei giorni di festa cinematografica. Quando qualche autentica stella saliva la gradinata rivolta alla spiaggia, subito quei fotografi si alzavano di scatto per ritrarla, mentre un codazzo di ragazzi la pressava per avere l’autografo.

Ogni tanto si sentiva sussurrare da qualcuno con un fremito di emozione: — Ecco il figlio di M.R.Z.TT. — oppure: — Guarda quello è R.ZZ.L. — oppure: — Ecco, adesso è entrato il giornalista M.N.T.N.L.L. — E nello stesso tempo tra la folla si vedeva stranamente girare un omino di età indecifrabile coperto solo da un costume da bagno brevissimo, per nulla abbronzato dal sole, sparso di pelo, con le flosce natiche inutilmente rivelate. Forse un intruso venuto dalla spiaggia, forse un corrispondente cinematografico, ospite invitato.

La persona che attendevo ritardava a venire, intanto presi a leggere un manifestino del film che si dava in serata. La prosa era incredibilmente scolastica, come se fosse stata tradotta dall’inglese da qualche vecchia signora. «Dopo lunghe peripezie i tre giungono ad Humilitydove vive Zack, un fratello di Eli, insieme alla moglie Sofia…». Non potei proseguire.

Trovai un posto da sedermi e mi abbandonai a ricordi lontani, tanto per allontanarmi da questo tempo, ai ricordi della mia fanciullezza, quando quell’albergo era stato da poco inaugurato. Mi trovavo ai bagni colla mia famiglia, in quella stessa spiaggia, nella zona più economica dove i saggi risparmi di mio padre e di mia madre, fatti durante l’anno, ci concedevano per un mese di godere di quel mare. Allora noi, figli di onesti e laboriosi borghesi, si guardava a quell’albergo e alla sua zona di spiaggia rispettosamente intimiditi. L’architettura stessa del lungo palazzo, orientalizzante nelle cupole e nei minareti, destinati a comignoli delle cucine, ci facevano pensare ai misteri delle regge dei Sultani. Alla mattina quando passavamo accanto a quelle cucine, situate nel seminterrato, i profumi delle vivande, che si preparavano, eccitavano fantasiosamente la mia voracità giovanile. Vi pensavo in elaborazione tutte quelle pietanze che dalla nostra tavola erano escluse, perché troppo costose, come aragosta, scampi, branzino accompagnati da una sublime maionese. E quando si ritornava dalla spiaggia, verso sera, era uno spettacolo gratuito concesso ai nostri occhi assistere dalla balaustra del porticciolo dell’albergo all’arrivo in motoscafo dei ricchi e famosi ospiti stranieri, preceduti da donne alte e formose che indossavano con ambizione uno scialle alla veneziana, come oggi le collane di fiori arrivando a Tahiti. Era un mondo precluso per noi, figli di bravi borghesi, quello di quell’albergo e dei suoi ospiti, mentre dei suoi segreti e del suo sfarzo appena vaghe immagini potevano trapelare nella notte oltre al sipario delle fontane luminose che zampillavano nel giardino.

Lido di Venezia – Il tram davanti all’Hotel Excelsior, tra il 1914 e il 1925 (Wikimedia Commons)

Due guerre lo umiliarono per lunghi mesi colla minaccia di essere bombardato dal mare e nei due intervalli fu sempre più segnata la decadenza di quella ricca e riservata società europea che nel principio del secolo lo frequentava.

Dopo l’altra guerra, quando con uno spirito da rivoluzione sociale, che era alla moda, la terrazza di quell’albergo con la sua orchestrina venne aperta anche al pubblico estraneo, mia madre che era ritornata a villeggiare, sola con la sua cameriera, in quella spiaggia, un pomeriggio, volle quasi prendersi anch’ella una rivincita all’intimidazione di un tempo che aveva umiliato anche lei, escludendola dall’entrare e passò con la vecchia cameriera, coraggiosamente la porta e attraversò la grande sala moresca.

Si era beatamente goduto il pomeriggio a quella musica sul mare, osservando curiosa la gente attorno, sorseggiando un semplice caffè e forse avrà anch’essa pensato agli anni lontani, quando quella terrazza era riservata alla aristocrazia russa e ai Vanderbilt, ai Morgan, ai Rockefeller, ai Rothschild, ai Krupp e alle bionde principesse austriache dai larghi cappelli ovali di paglia di Firenze. Ma lo spirito del vecchio albergo stava in agguato verso di lei, già sicura di sé, per umiliarla ancora. Quando chiese al cameriere il conto si sentì annunciare una cifra che non teneva a disposizione nel suo borsellino. Immagino la perturbazione di mia madre, il suo rossore, il suo momentaneo affrangersi, seppe uscirne scusandosi di avere dimenticato a casa il denaro e dando il suo indirizzo, e in vero quel cameriere si comportò con deferenza, forse perché tra quella gente nuova si era accorto che mia madre nel suo nobile aspetto ricordava i clienti di un tempo.

Dopo quest’ultima guerra ebbi l’occasione di entrare, per la prima volta nella mia vita, in quell’albergo, per una cena a un grande congresso letterario. Nel rasentare le mura del palazzo, dalle cucine seminterrate il profumo delle vivande in elaborazione, come allora, mi ridestava la mia avidità di ragazzo e speravo che alla cena, che mi attendeva, avrei avuto, a una distanza di quarant’anni, la mia rivincita. Ma non vennero serviti né gli scampi, né il branzino, né l’aragosta con la maionese. Il salone stupendo era ventilato tra la laguna e il mare, ma le semplici sogliole alla mugnaia sapevano orribilmente di guasto. Quel palazzo incantato di un tempo, adorno di cupole e di minareti, non aveva più alcuna forza di intimidire.

Lido di Venezia – Signori sulla spiaggia del Lido nel 1900. Italico Brass, Conversazione sulla spiaggia, olio su tela, 73×92 cm, collezione privata (Wikimedia Commons)

Ora, in questi giorni di festa cinematografica, la grande sala, un tempo gelosamente chiusa come un harem sultaniale era senza limiti aperta a tutti quegli ospiti che non pagavano il conto, scamiciati e seminudi.

Infine venne la persona che desideravo vedere e mi propose di fermarmi per assistere allo spettacolo cinematografico che si dava, nella sera, al palazzo di fronte. All’ingresso la folla enorme dei curiosi era trattenuta dalle guardie per lasciare entrare donne elegantissime, ma tutte uguali, accompagnate da uomini in abito da sera nero o bianco, ma inesorabilmente in espressivi nel volto. Solo qualcuno si segnalava dagli altri per un freddo monocolo incastrato nell’orbita o per il passo vacillante da ubriaco. Non una donna si imponeva come quelle di altri tempi, avvolte nello scialle veneziano. Queste, nude alla schiena e alle spalle, risultavano come manichini di legno verniciato, eppure la folla si illudeva di vedere apparizioni sublimi e famose di cui ripeteva interrogativamente i nomi. Entrati nella sala lo spettacolo incominciò subito. Si proiettava un documentario su di un pittore spagnolo, la persona che mi accompagnava disse sarebbe stato interessantissimo, ma dopo poco, fatto buio, mi accorsi che si era addormentato. Era in vero noioso e me ne uscii senza fare rumore.

Il giorno dopo nel lasciare Venezia, sbarcando al Piazzale Roma, trovai altra grande folla che attendeva l’arrivo di altre stelle del cinema, appena discese dall’aereo. Una povera madre accompagnava i suoi due ragazzetti con una smaniosa ansia di vedere. Si caricavano sui motoscafi cumuli di valige, quando una donna qualunque, spudorata e ondeggiante, le passò davanti abbigliata da uomo e quella madre stupefatta accennò ai figli che di certo doveva essere una stella. Allora nel loro sguardo tra l’incanto e lo stupore, vidi la stessa rispettosa timidezza che appariva nel mio sguardo, quando dalla balaustra del porticciolo dell’albergo si vedevano i grandi signori di un tempo scendere dal motoscafo con le loro donne.

Ancora si perpetuava nell’infanzia l’inutile inganno.
Giovanni Comisso

da Il Mondo del 4/10/1955
Immagine in evidenza: Lido di Venezia – Hotel Excelsior (Florian Fuchs, Wikimedia Commons)

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