L'amore nel campanile (seconda parte)

L’amore nel campanile (seconda parte)

[leggi la prima parte]

Lasciammo Barcellona per altre città, durante i lunghi percorsi tra l’una e l’altra con panorami immensurabili, deserti, rossastri nei colli corrosi dal vento, pensavo che il mio misticismo derivava dal presentimento di quella terra da anacoreti che circondava le città isolate. Figallo invece cercava di riepilogare quante erano state le sue donnesche imprese e non riesciva ad accertarsi nel numero. Allora mi veniva spontaneo di canterellare:
In Italia seicento e quaranta,
In Germania duecento e trentuna,
Cento in Francia, in Turchia novantuna,
Ma in Ispagna son già mille e tre.

Toledo-Espania-August-2006 (Tgilbert328, Wikimedia Commons)

Si giunse così a Toledo, distesa su di un grande colle, tra torri, castelli, porte moresche e mura merlate. Si passò il ponte sul Tajo al tramonto, mentre il rosso del cielo si alternava a rotoli di lunghe nubi nere. E quando mi accorsi che la luna avrebbe illuminato la notte non volli tardare di esplorare la città, subito dopo cena. Figallo preferì invece andare a letto per riassestare le sue energie con un sonno prolungato. Mi spersi nell’intrico dei vicoli selciati di pietra, in salita e in discesa, tra piccole case silenziose, poi giunsi a uno spalto di dove si vedeva l’Alcazar diroccato dalla guerra civile. Giù nella vallata del Tajo si sentiva il latrare di un cane a cui rispondeva più sopra il raglio di un asino. Si distinguevano al chiarore della luna le torri merlate del ponte e quelle di un castello sul colle antistante. Biancheggiava sotto l’Alcazar tutto lo spiazzo deserto, ma rasente alle muraglie vi era una lieve ombra nella quale alcune coppie di amanti si tenevano strette e nascoste.

Toledo 7 (Tibor Kovacs, Wikimedia Commons)

Lontano la terra si distendeva rotta da frastagli di rocce, ondulata e squallida. Girai per altri vicoli dove risuonavano i passi ferrati di alcuni soldati, chiusi nel largo cappotto, affannati in una ricerca segreta, orientandosi a ogni angolo. Altri uomini scendevano parlottando misteriosi. Infine uno batté a una porta che si aperse stridente con una catena tirata dall’alto. Entrarono quei soldati e anche quegli uomini, nel patio vi era una fontanina e tutti appressarono la bocca al getto, mentre aspra una donna ammoniva che in quella casa non si andava per dissetarsi. Tutta l’Orsa Maggiore brillava nel riquadro del patio e altre donne si erano affacciate alle vetrate aperte della loggia per lusingare i soldati, ma erano ossute e pallide. Più oltre il vicolo terminò in una piazzetta in discesa, dove una veranda illuminata, sporgeva da una casa e sulle tende si profilava ogni tanto l’ombra di una donna che sembrava inquieta. Poi la luce si spense e mi accorsi di un portale moresco che metteva in un grande cortile, chiuso da casupole, con un solo lampione che rischiarava appena un angolo. Risonò il raglio di un asino, legato contro una parete bianca alla luna, fermo come dormisse in piedi. Il silenzio poi parve maggiore, ma subito da una zona in ombra, in fondo al cortile, venne il fragore di un autocarro che sembrava non riuscisse a partire. Nelle pause alcuni uomini parlavano irritandosi. Una lampadina rischiarava il portale di un androne che era un’officina meccanica. Mi accorsi che il vano di quel portale era istoriato di caratteri arabi scolpiti sulla pietra tra intrecci floreali. Il motore prese a funzionare e l’autocarro uscì raspando gli stipiti del portale moresco. L’androne rimase vuoto, era esagonale con finestrelle a ogni parete, da alcune penetrava la luce della luna. Al centro si elevava una cupola di legno da cui era caduta la rivestitura, un tempo forse dorata di mosaici. Le pareti tinte di calce erano in parte coperte di avvisi figurati di pneumatici e di autocarri e verso la base erano sporche di unto. Ma in un angolo la calce era caduta scoprendo ceramiche colorate come la coda del pavone.

Forse quella officina meccanica era stata una piccola moschea, forse un harem, forse l’abitazione di un signore arabo. Giù nella valle un cane abbaiò ancora, seguivano in risposta i ragli di un asino e la luna scioglieva nel cielo i bianchi frastagli del campanile e della cattedrale. D’improvviso in quella moschea in rovina, in quella antica casa araba, in quel segreto harem, come uscita dalle pareti, dove fosse stata rinchiusa, mi accorsi di una ragazza che dall’ombra avanzava timida verso di me, fino a chiedermi cosa stavo cercando. — L’amore. — Le risposi e volevo capire chi fosse. Sembrava vestita di cenci, ma non lo era, sembrava spettinata, ma non lo era, il suo volto era tremulo e allucinato, teneva infilata al braccio una borsetta e sorrise. Le passai un braccio alla vita e nel portarla verso l’ombra del cortile risultò flessibile, come un giunco.

La cattedrale di Toledo (Querubin Saldaña, Wikimedia Commons)

Al mattino risvegliandomi pensai che era stato straordinario non solo quell’incontro, ma più ancora che quella ragazza non si chiamava Consuelo, come si sarebbe meritato, ma curiosamente: Araceli, altare del cielo, di un cielo illuminato dalla luna.

Figallo dormiva ancora e non lo svegliai per raccontargli la mia avventura, sentivo un desiderio immenso di uscire e visitare alla luce del giorno quella città che mi era stata tanto generosa. Non sospinto dal misticismo, oramai tramontato in me, la prima meta fu la cattedrale, dove tra le alte navate si stava svolgendo una processione di tutto il capitolo dei canonici preceduta da un battistrada in parrucca bianca con un mantello di seta violetta. Nel passare davanti un altare dove si stava celebrando la Messa tra uno stuolo di donne, mi accorsi incredibilmente di Araceli, inginocchiata sul nudo pavimento, assorta nella preghiera con una veletta nera sul capo. Mi fermai accanto a un pilastro fino a quando si accorse di me con un sorriso e poi andai verso l’uscita sicuro mi avrebbe raggiunto. Venne difatti poco dopo, si abbassò la veletta sulle spalle, era vestita modesta, aveva sempre la sua borsetta infilata al braccio. Usciva fresca dalla preghiera come da un bagno e il volto senza trucco era lievemente rosato. Mi disse che aveva fatto la comunione ed era a digiuno, col suo sguardo implorava che le offrissi qualcosa. Entrammo in un caffè, ma ella voleva un cognac, dissi non le avrebbe fatto bene di mattina, doveva mangiare delle paste, prendere una cioccolata, ubbidì come una bambina e si fece vorace. Non era di Toledo, vi era arrivata il giorno prima da Cordoba, con un conducente di autocarro, voleva andare a Madrid. Aveva leticato con quel conducente, non lo voleva più vedere, sarebbe venuta con me dovunque fossi andato. Dissi che bisognava pensarci sopra, intanto avrei visitato la città e venisse con me. Andammo verso la casa del Greco, si girò per il giardino fatto tutto di terrazze fiorite e una leggera nebbia velava la città. In un angolo vi era una statua di donna completamente nuda con i capezzoli delie mammelle forati, altri fori erano in altre parti, capii che era una fontana, la chiave dell’acqua era ai piedi e come la girai tutti quei fori si animarono di allegri zampilli bagnandola al volto. La presi per mano togliendola dallo stupore e si entrò nella casa. Quando fummo nella stanza da letto del Greco, abbondante di cuscini, ella mi guardò invitevole, come credesse fosse a nostra disposizione. I custodi erano nel piano di sotto e non vi era alcun visitatore, per un attimo ebbi l’estro di veramente approfittarne ma, un ritratto d’uomo fatto dal Greco, incupiva con gli occhi sbarrati e andammo invece in uno stretto corridoio che portava a una finestrella. Ci si affacciò fingendo di guardare il panorama di fuori e intanto l’accarezzavo, ma qualcuno veniva. Le chiesi dove aveva dormito in quella notte, se sapeva dove si poteva avere una stanza. Aveva dormito nella cabina di un autocarro, in quel cortile, dove l’avevo trovata, non conosceva la città, voleva la portassi al mio albergo, ma non era possibile. Rimase un momento a pensare e poi indicandomi il campanile della cattedrale, disse vi si poteva salire fino alle campane. Doveva di certo avere esperimentato in qualche altra città un luogo così sicuro e isolato per incontri amorosi durante il giorno, non potevo concederle un senso pratico tanto immediato. E andammo a visitare il campanile, più si saliva, più la scaletta si restringeva fino a quando all’ultima rampa, prossima alle campane, nessuno avrebbe potuto salire, fino a quando noi non si fosse discesi.

Toledo – Veduta (Dmitry Dzhus, Wikimedia Commons)

La piccola Araceli, lassù tra la leggera nebbia mattinale, pareva dovesse sfuggirmi dalle braccia per tramutarsi volante, conformemente al suo nome, sopra il grande colle dove si stendeva Toledo. I suoi baci erano fitti e leggeri come per un’immagine sacra. Quando si scese, con l’inganno di ritrovarci nel pomeriggio riescii a liberarmi di lei. Andai all’albergo, Figallo era impaziente di ripartire sentendosi riposato, io lo ero pure. Solo quando fummo lontani, verso l’Andalusia, gli raccontai ogni cosa, altrimenti avrebbe voluto mettere nella sua lista anche Araceli e si sarebbe dovuto portarcela dietro per tutto il resto della Spagna. Ma egli, sazio ancora come era, non ne fece caso, anzi finamente ironico mi disse che si spiegava perché le campane avevano suonato tanto quella mattina. Gli risposi che non era stato possibile, la campana della cattedrale, non aveva mai suonato in vita sua, perché si era squarciata, il giorno stesso in cui era stata issata lassù, avendo sbattuto contro il campanile.
Dal mio iniziale misticismo avevo finito col sacrilegio, ma l’Inquisizione non dominava più la Spagna.
Giovanni Comisso

da Il Mondo del 22/02/1955
Immagine in evidenza: La catedral, el Seminario Mayor y, al fondo, el Alcázar (Miguel Angel Masegosa Martínez, Wikimedia Commons)

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